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  • Lunedì 5 maggio 2014

E le ragazze rapite in Nigeria?

Una storia enorme e poco raccontata (perché?) va avanti da tre settimane: quasi 200 ragazze sono state rapite a scuola (da chi?) e forse sono già state vendute come "spose"

A man carries placard to campaign for the release of schoolgirls kidnapped by Boko Haram Islamists more than two weeks ago during worker's rally in Lagos on May 1, 2014. The mass kidnapping in the Chibok area of northeastern Borno state was one of the most shocking attacks in Boko Haram's five-year extremist uprising, which has killed thousands across the north and centre of the country. AFP PHOTO/PIUS UTOMI EKPEI (Photo credit should read PIUS UTOMI EKPEI/AFP/Getty Images)
A man carries placard to campaign for the release of schoolgirls kidnapped by Boko Haram Islamists more than two weeks ago during worker's rally in Lagos on May 1, 2014. The mass kidnapping in the Chibok area of northeastern Borno state was one of the most shocking attacks in Boko Haram's five-year extremist uprising, which has killed thousands across the north and centre of the country. AFP PHOTO/PIUS UTOMI EKPEI (Photo credit should read PIUS UTOMI EKPEI/AFP/Getty Images)

Tre settimane fa, in Nigeria, un gruppo di miliziani armati ha rapito circa 230 ragazze da una scuola della città di Chibok. Si sa ancora molto poco di come sono andate le cose e soprattutto delle studentesse rapite non si sa ancora nulla. Sono circolate molte accuse al governo del paese riguardo alla gestione del caso e al suo impegno nelle ricerche, ma molte critiche sono state mosse anche alla stampa locale e internazionale che a questo fatto ha dedicato inizialmente poca attenzione e spazio: c’entrano la questione femminile e il modo in cui si trattano simili storie che accadono in paesi lontani.

Il rapimento
Nella notte tra lunedì 14 e martedì 15 aprile decine di militanti armati hanno fatto irruzione in un dormitorio di Chibok, nel nord-est della Nigeria, catturando e facendo sparire centinaia di ragazze tra i 15 e i 18 anni. I sequestratori sono arrivati sul posto con dei camion e si sono spacciati per soldati, dicendo di dover spostare le ragazze per motivi di sicurezza. Poi hanno ucciso un soldato e un agente di polizia, bruciato decine di case, rubato alcune scorte alimentari e caricato le donne sui camion scoperti. Alcune di loro sono riuscite a saltare dai veicoli in corsa e a tornare a casa, altre sono scappate nei giorni seguenti: in totale, una quarantina di loro è riuscita a salvarsi. Le ragazze ancora in mano ai sequestratori dovrebbero essere circa 220.

Si pensa che le ragazze siano tenute prigioniere nella foresta di Sambisa, nascondiglio dei militanti di Boko Haram, gruppo estremista islamico molto violento responsabile di tantissimi attentati in Nigeria. Boko Haram ha rivendicato soltanto oggi il rapimento e ha detto che le ragazze saranno vendute perché così comanda Allah. Le ultime notizie, riportate tra gli altri dal Washington Post, non provengono da fonti ufficiali – data la grande disorganizzazione e incompetenza dimostrata dalle istituzioni nigeriane – ma dai genitori delle studentesse, che si sono organizzati autonomamente per portare avanti le ricerche e che ogni mattina si riuniscono per fare il punto della situazione: durante uno degli ultimi incontri è stato riferito che le ragazze sarebbero state rapite per essere ridotte in schiavitù e vendute – se tutte o solo alcune, non si sa – come “spose” in Ciad e Camerun per l’equivalente di 12 dollari l’una, e che una cerimonia di massa si sarebbe svolta tra sabato e domenica scorsi.

L’intervista a due studentesse che sono riuscite a scappare
Domenica 4 maggio il giornale nigeriano Sunday Punch ha pubblicato un’intervista a due giovani ragazze che sono riuscite a fuggire ai sequestratori, e che confermano la prima fase del rapimento:

«Eravamo nel dormitorio. Uno degli uomini vestiti con una mimetica militare ci ha chiesto dove fosse la nostra sala da pranzo. Ci hanno portato dalle camere alla sala da pranzo e da lì su dei camion che sono partiti in direzione di Damboa (nello stato di Borno, nel nord-est). Tutto questo è avvenuto intorno alle 23»

«Sono venuti nella nostra scuola e ci hanno ingannate facendoci credere di essere dei soldati. Indossavano uniformi militari e ci hanno detto di essere venuti a salvarci, poi abbiamo scoperto la verità, che erano degli insorti. Ma era già troppo tardi e non abbiamo potuto fare molto. Gridavano, erano maleducati. Ecco perché abbiamo capito che erano degli insorti. Poi hanno iniziato a sparare e hanno dato fuoco alla scuola. Hanno anche sparato agli uomini della sicurezza e alla guardia della scuola».

Le due ragazze si chiamano Amina Sawok e Thabita Walse. Hanno raccontato anche come sono riuscite a saltare giù dal camion che le trasportava:

«La nostra macchina ha avuto un problema e hanno dovuto fermarsi. Ne ho approfittato con qualche altra ragazza per correre e nascondermi sotto i cespugli. Ho sentito parlare molto di Boko Haram, delle cose cattive che fanno e come hanno ucciso molte persone. Ho avuto paura, mi sentivo disperata. Sapevo che il loro campo sarebbe potuto essere pericoloso per me e che era meglio se fossi riuscita a scappare. Questo mi ha dato il coraggio di saltare fuori. Credevo che mi sarei fatta male solo perché era buio e non potevo sapere come orientarmi nella boscaglia.

(…) Una di noi è saltata giù all’improvviso, altre l’hanno seguita. (…) Sto bene e sono fisicamente molto forte. Il mio unico problema è che le mie amiche sono ancora nelle mani dei terroristi».

Le ricerche
Nella storia, fin da subito, ci sono state notizie poco chiare e contraddittorie. Innanzitutto sul numero delle ragazze rapite: le autorità avevano parlato di 85 donne, ma il numero (dato poi per verosimile) è salito a 234 ed era stato riferito dai genitori delle studentesse. Subito dopo il rapimento, lo scorso 16 aprile, Chris Olukolade, portavoce dell’esercito nigeriano, aveva anche detto che tutte le ragazze tranne otto erano al sicuro; Asabe Kwambura, la preside della scuola, lo aveva smentito. Dopo il rapimento il governo aveva anche diffuso un comunicato in cui diceva di aver già salvato tutte le ragazze, ma poche ore dopo il comunicato era stato ritirato ed era stato ammesso “l’errore”.

Le operazioni di ricerca finora sono andate molto a rilento. Un portavoce del governo ha spiegato che le ricerche sono rese difficili dai bombardamenti quotidiani delle forze nigeriane nelle zone dove si ritiene che siano le ragazze, nell’ambito dei combattimenti contro Boko Haram. BBC ha anche raccontato la generale impreparazione dell’esercito del paese: i soldati avrebbero infatti a disposizione equipaggiamenti di qualità inferiore a quelli dei miliziani che dovrebbero combattere. In molti, però, hanno accusato il governo di non aver fatto abbastanza per ritrovare le ragazze.

Vista la disorganizzazione dei soccorsi ufficiali, le famiglie delle ragazze rapite si sono organizzate in modo autonomo: sono state fatte delle collette per pagare la benzina per le moto e gli uomini delle famiglie sono partiti per battute di ricerca nella foresta. Molte delle persone che hanno preso parte alle ricerche hanno detto di non aver incontrato soldati dell’esercito nigeriano nelle zone che avevano attraversato: questo sarebbe un ulteriore segnale del disinteresse del governo.

Nel frattempo, e per la prima volta dopo il rapimento, domenica 4 maggio il presidente della Nigeria Goodluck Jonathan ha parlato durante una trasmissione televisiva: ha ammesso che le forze di sicurezza nigeriane non sanno ancora dove sono detenute le ragazze e che, nonostante le ricerche da parte l’esercito e dell’aviazione, non erano state ancora trovate. Ha promesso che saranno salvate e ha chiesto la collaborazione dei genitori e delle comunità locali nelle operazioni di soccorso, dicendo che «il governo ha bisogno di assistenza». Ha negato qualsiasi negoziato per ottenere la liberazione delle ragazze e, infine, ha detto di aver chiesto aiuto agli Stati Uniti («Ho parlato con il presidente Obama almeno due volte») e a diverse altre nazioni tra cui Francia, Regno Unito e Cina.

Sempre domenica, e con notevole ritardo, il presidente nigeriano ha incontrato per la prima volta i funzionari direttamente interessati dalla vicenda del rapimento: i capi dei servizi di sicurezza, il governatore e i rappresentanti dello stato di Borno, nel nord-est, il capo della polizia di Stato e i responsabili della scuola di Chibok dove sono state rapite le ragazze. Dopo gli incontri, il governo ha annunciato l’istituzione di un comitato, presieduto da un alto generale dell’esercito, per coordinare le attività di ricerca.

Cos’è Boko Haram
Boko Haram significa “L’educazione occidentale è proibita” (anche se il significato reale di “boko” è “falso”). Il vero nome del gruppo è Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad, che in arabo sta per “Popolo impegnato nella diffusione degli insegnamenti del Profeta e della Guerra santa”. L’organizzazione è stata fondata nel 2002 dal leader Ustaz Mohammed Yusuf nello stato del Borno, dove l’islamismo è molto radicato sin dalla presa britannica del Califfato di Sokoto nel 1903, nel nord povero della Nigeria ancora oggi a maggioranza musulmana – a differenza del sud cristiano e più agiato. Ustaz Mohammed Yusuf fu ucciso il 30 luglio 2009 in un carcere di Maiduguri dopo esser stato arrestato dalle forze di sicurezza nigeriane. Secondo la versione ufficiale sarebbe morto in un tentativo di fuga, ma successive indagini hanno smentito questa ricostruzione e diversi agenti sono stati incriminati per omicidio volontario.

Boko Haram ha ucciso almeno 2.300 persone dal 2010, secondo le stime giornalistiche e i rapporti di Amnesty International. Il suo obiettivo principale è l’applicazione della sharia nell’intera Nigeria, dove in realtà già vige dal 1999 in vari stati del nord del paese. L’organizzazione vieta ogni commistione con lo stile di vita occidentale, dalla cultura all’istruzione, fino ai jeans e alle t-shirt. Mohammed Yusuf diceva addirittura che la forma sferica della Terra era un falso assunto così come il darwinismo, perché tutto questo era contrario agli insegnamenti del Corano. Il gruppo esecra ogni interpretazione considerata “deviante” del Corano e infatti, come avvenuto in diversi attentati, non si limita ad attaccare le chiese ma anche moschee “troppo moderne”. Dopo la morte di Yusuf il gruppo si è diviso in tre diverse fazioni (una di queste pare avere profondi legami con al Qaida nel Maghreb islamico) e ha aumentato decisamente la portata dei suoi attacchi, nonostante il governo nigeriano dichiari regolarmente di “avere la situazione sotto controllo”.

Lo scorso aprile c’è stata un’esplosione ad Abuja, la capitale della Nigeria, nell’area della stazione degli autobus del Nyanya Motor Park, in cui sono morte almeno 71 persone e nella stessa zona, il 2 maggio,altre 19 persone sono morte nell’esplosione di una bomba.

Il ruolo della stampa internazionale
Diversi giornali internazionali si sono occupati della vicenda del rapimento delle studentesse. In molti hanno da subito criticato l’atteggiamento e le operazioni del governo nell’affrontare le ricerche. L’inviato della BBC Will Ross a Abuja, per esempio, dice che è davvero «sorprendente» che le ragazze non possano essere trovate dato che ci sono rapporti che testimoniano il loro spostamento, molto lento, in convogli di veicoli. Questo viene dunque interpretato come il segnale che ci sono parti nel nord-est della Nigeria completamente off limits per le forze armate nigeriane.

Charlotte Alter, giornalista del Time, si spinge oltre. Non solo rivolge delle critiche al governo ma anche ai media statunitensi e internazionali in genere, dicendo che hanno in qualche modo consentito al governo di «nascondere tutto sotto il tappeto ignorando la storia per settimane». Negli ultimi tempi i giornalisti e i lettori si sono appassionati alla ricerca del volo MH370, a quella dei superstiti della Sewol naufragata in Corea del Sud, addirittura alla ricerca dei candidati alla presidenza americana per il 2016, ma non a quella delle ragazze scomparse in Nigeria.

Il rapimento, scrive Alter, è stato menzionato per la prima volta nell’edizione serale di un telegiornale americano il primo maggio, più di due settimane dopo l’attacco al dormitorio, e la storia non è mai stata sulla prima pagina dell’edizione nazionale del New York Times. L’interesse ha iniziato a crescere solo dopo la diffusione della possibile notizia che le ragazze fossero state vendute come “spose”. Secondo Alter questo deficit di attenzioni ha che fare anche una questione razziale. «Quando una ragazza bella e bionda scompare, le agenzie di stampa inviano elicotteri e giornalisti sulla scena; ma quando centinaia di ragazze nere vengono rapite in un paese lontano, si dà a malapena la notizia». Ora è però troppo tardi: «Due settimane fa le ragazze erano ancora tutte insieme, ancora in Nigeria e avrebbero potuto essere trovate». Secondo le ultime notizie, molto probabilmente non più e la colpa di questa tragedia ricade «in parte su di noi».

Nick Cohen sul Guardian fa notare anche un altro fatto: e cioè che esiste un doppio standard nel trattare, nel sottovalutare o nello scegliere le parole, con cui si raccontano le notizie da parte dei giornali e dei media occidentali. Le ragazze nigeriane rapite, vittime della schiavitù, minorenni abusate sessualmente e costrette, forse, a un matrimonio forzato, vengono infatti descritte come ragazze che sono state semplicemente “rapite”: cosa che, se dovessero essere rilasciate, farebbe di loro delle ragazze semplicemente “liberate” e, dunque, “illese”. Allo stesso modo, i responsabili del sequestro sono descritti come semplici “rapitori” e non come “schiavisti” e “stupratori”. Insomma, le parole per descrivere questi crimini in Nigeria non mancano, scrive Cohen, e «senza dubbio sarebbero stati utilizzati nel caso altamente improbabile che dei soldati occidentali avessero sequestrato e venduto delle donne». Ma così non è stato.

Cohen scrive sul Guardian che da parte di molti giornali occidentali (e anche da parte di quelli considerati storicamente “di sinistra”) c’è un atteggiamento quasi di comprensione nei confronti di Boko Haram, spesso descritto come gruppo di diseredati che si ribella alla corruzione e allo stile di vita delle élite. Il racconto della violenza viene dunque ridotto al minimo e l’islamismo interpretato come reazione (non da giustificare, ma nemmeno da demonizzare) alla corruzione locale e, in generale, all’oppressione globale portata avanti dal neoliberismo occidentale, «una di quelle etichette convenientemente vaghe che possono significare qualsiasi cosa».