E un altro giorno è andato

Dieci canzoni e dieci versi di Francesco Guccini, che oggi compie settant'anni

di Luca Sofri

Oggi Francesco Guccini compie settant’anni: per l’occasione, tanti auguri, pubblichiamo il capitolo a lui dedicato da “Playlist” di Luca Sofri (direttore peraltro del Post).

Da quando non c’è più Fabrizio De André, facendo un consuntivo dei grandi cantautori italiani, quello che è rimasto il più grande, a cui non si può rimproverare niente, e che con le parole ci sa fare più di tutti, è Francesco Guccini. E guardate che non sono mai stato un fedelissimo di Guccini: non vado ai suoi concerti da decenni, non sollevavo il pugno chiuso quando chiudeva cantando “La locomotiva”, non ho letto i suoi libri, e trovo la sua mistica dell’osteria emiliana un po’ retrò e la sua retorica dell’integrità un po’ noiosa. Ma un suo verso non mi ha mai fatto cadere le braccia, mai. E invece sono decine i suoi versi nati con la camicia, le parole che si sciolgono in bocca.

Un altro giorno è andato (L’isola non trovata, 1971)
“Si è spenta la fontana, si è ossidata la campana”
“Fugge un cane come la tua giovinezza” è una delle cose più deprimenti che siano mai state scritte in faccia alle nostre giornate buttate via quando pensavamo di potercelo permettere.

Incontro (Radici, 1972)
“E le frasi, quasi fossimo due vecchi”
Grandissima storia, ordinaria e consueta e insieme straordinaria e inconsueta. Loro due che si rivedono dopo dieci anni, e tutto quello che grava sopra l’incontro, di tempo passato, di mondo intorno, di detto e non detto, di cose mantenute e cose perdute.

La locomotiva (Radici, 1972)
“Fratello non temere che corro al mio dovere”
C’è stato un momento in cui uno non ne poteva più: il repertorio vetero-vetero che aveva avvolto la canzone la rendeva inascoltabile, complice la sua scarna ripetitività. Ma poi le cose si superano, i tempi cambiano, le parole recuperano nuovo valore e forza; e le versioni live aggiungono vivacità e varietà alla storia. Che è una grande storia. E somiglia a Giù la testa, il più bel film di Sergio Leone. “Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore” è ormai nella letteratura italiana, con una similitudine con il “Voglio però ricordati com’eri” di un precedente Guccini.

Il vecchio e il bambino (Radici, 1972)
“E in questa pianura fin dove si perde, crescevano gli alberi e tutto era verde”
Uno straclassico, ringiovanito nelle esecuzioni contenute nei dischi dal vivo. Non mi ha mai convinto quel modo di concludere sulla penultima sillaba, a cui giungo sempre con gli occhi lucidi come un fesso sentimentale: “raccontànealtreeee…”.

Canzone delle osterie di fuori porta (Stanze di vita quotidiana, 1974)
“Si alza sempre lenta come un tempo l’alba magica in collina”
Il tema del come eravamo e soprattutto come siamo diventati gli è sempre stato caro. La retorica è spesso dietro l’angolo, ma la grandezza dei versi fa perdonare ogni cosa. E poi c’è quel fantastico salire del ritmo.

Piccola storia ignobile (Via Paolo Fabbri 43, 1976)
“Questo non potrà capirlo, perché lei da donna onesta l’ha fatto quasi sempre per dovere”
Una piccola storia ignobile, uno straordinario racconto di tragedie e ipocrisie di provincia, un saggio di sociologia e storia d’Italia.

Amerigo (Amerigo, 1978)
“Non so se si girò, non era il tipo d’uomo che si perde in nostalgie da ricchi, e andò per la sua strada senza sforzo”
Già c’è una geniale grandezza in quel “probabilmente uscì…”: chiunque altro avrebbe raccontato che uscì e basta. Ma va’ a sapere com’è andata, sembra dire Guccini tutto il tempo: va’ a sapere se le cose che mi sono figurato sempre erano poi vere. Va’ a sapere cosa c’era, nella sua testa. C’era l’America prima che arrivassero gli antiamericani, quella di una generazione prima e quella di Guccini stesso. Ci ho messo anni a decrittare “gunga di neringo”, che era “Gunga Din e Ringo”.

Venezia (Metropolis, 1981)
“Stefania era bella, Stefania non sta- va mai male”
Bellissima, triste, umida. Bellissima. Diversamente dalla gemella “Bologna”, qui prevale la storia di Stefania su quella della città, ma anche questa è raccontata meravigliosamente: “La dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia la vende ai turisti”. E il verso terribile sul respiro che quasi inciampava nei denti.

Autogrill (Guccini, 1983)
“Basso il sole all’orizzonte colorava la vetrina”
Autogrill ha un suo culto unico. Un po’ come “Find the river” dei REM: non è una delle canzoni più celebri del suo autore, ma scopri che è adorata da quantità inattese di persone.

Cencio (Quello che non…, 1990)
“Con le stesse voglie e con gli stessi eroi, ma ali più piccole per lo stesso volo”
Bellissima e commovente storia di ghenga giovanile di provincia, che si riuniva attorno a una bocciofila modenese, e del suo membro più strano, Cencio il nano. Diverso, non capito, e capito – “ciò che voleva essere anche lui, solo un normale adolescente ottuso” – in cerca di “un mondo di uguali”, tutti strani come lui.

Emilia (Quello che non…, 1990)
“Le alpi, si sa, sono un muro di sasso”
Uno dei più bei trattati di geografia umana di sempre.

Cyrano (D’amore di morte e di altre sciocchezze, 1996)
“Dev’esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto dove non soffriremo e tutto sarà giusto”
Qui la tromboneria è accortamente mimetizzata dentro la rappresentazione dell’immortale personaggio letterario: appena si percepisce che Guccini vuol parlare di sé e dei propri tempi, la banalità morettiana e conformista della retorica della minoranza pura è piuttosto intollerabile. Ma in un mondo candido, dove “Cyrano” parli solo d’amore, è meravigliosa quanto lo era l’originale.