Ruggero Jucker è libero

Da ieri Ruggero Jucker è libero. È stato l’artefice di un omicidio insensato e crudele. Era il 20 luglio 2002 quando nella sua casa del centro di Milano uccise la sua fidanzata di 26 anni, Alenya Bortolotto. Lo fece con un coltello da sushi, si accanì sul suo corpo. In primo grado venne condannato a 30 anni di carcere. Divennero 16 in appello. Poi c’è stato l’indulto: via tre anni di pena. E per buona condotta via altri 90 giorni per ogni anno trascorso in carcere. I 16 anni sono diventati meno di 11.

Jucker a Milano lo conoscevano in tanti. È il figlio di una famiglia della borghesia solida e ricca, quella delle grandi famiglie dalle vedute aperte. La buona borghesia milanese. Gli Jucker a Milano sono imprenditori importanti: il patriarca, Carlo, fondò il cotonificio Cantoni di Legnano, poi passato ai figli e quindi ai nipoti. La famiglia ha anche donato alla città una collezione d’arte notevole: quadri di Boccioni, Carrà, Picasso, Matisse.

Prima della notte del 20 luglio 2002, Ruggero dava una mano alla mamma: lei fu la prima tra le signore eleganti a capire che la sua passione per la cucina si poteva trasformare in un’attività. Lo fece più di 25 anni fa, la chiamavano Signora del catering. Ad aiutarla, per “i diciottesimi” più importanti chiamava Ruggero e i suoi amici. Poi lui aprì un posto tutto suo in via Sottocorno, un locale dove cucinava zuppe, zuppe di ogni tipo, buonissime. Aveva preso l’idea a New York, dove la famiglia l’aveva mandato a cercare ispirazione, alla ricerca di qualcosa adatto a lui. Zupp si chiamava il posto: molti giornali se ne occuparono, Jucker ottenne un buon successo. Certo, i clienti non erano molti, però il nome girava, le cose funzionavano. Ruggero stava allora insieme a una ragazza, Alenya Bortolotto: lei lavorava in centro, in un negozio famoso di corso Europa, WP Store. Poi qualcosa, nella mente e nell’anima di Ruggero Jucker, esplose.

Era una notte di piena estate: via Corridoni è a due passi dal Conservatorio e dall’Umanitaria. I pochi che non erano via per il weekend furono svegliati da urla spaventose. Ruggero Jucker era nudo in mezzo alla strada. Piangeva e gridava: «Io sono Osama Bin Laden. Sono Satana, sono tutto il male che c’è al mondo. Sono la gatta Jucker». E poi: «Un, due, tre, buonanotte». Una scena grottesca, incongrua, come avvolta da una nebbia di follia totale. Urlava e borbottava, camminava avanti e indietro. Era imbrattato di sangue. Quella scena, per chi l’ha vista, deve essere stata un cortocircuito, qualcosa di irreale eppure vivido. Ruggero Jucker aveva fatto a pezzi Alenya. Non è un modo di dire: l’aveva davvero fatta davvero a pezzi, colpita ovunque con un coltello da sushi. Lei aveva provato a difendersi. Decine di coltellate. La Scientifica ritrovò un pezzo del fegato della ragazza in cortile.

Parlarono tanto di droghe, qualche giornale scrisse che Jucker aveva fumato un “superspinello”. Proprio così, un superspinello. Ai funerali di Alenya c’era un sacco di gente: la cerimonia si aprì con la voce di Battiato che recitava “Ti invito al viaggio, in quel paese che ti assomiglia tanto. I soli languidi dei suoi cieli annebbiati… Laggiù tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà”. La bara uscì dalla cappella e Jobin cantava “La ragazza di Ipanema”.

Il giudice Guido Salvini condannò Ruggero Jucker a 30 anni con il rito abbreviato. Riconobbe la semi infermità mentale ma anche la grave crudeltà nell’agire. Ruggero è sempre stato a San Vittore, fin dall’arresto. Lì, regolarmente, è stato seguito da uno psichiatra: tre visite alla settimana pagate dalla famiglia. Al processo d’Appello la pena scese a 16 anni. Ora, dal punto di vista giudiziario, la fine della storia.

Stefano Nazzi

Stefano Nazzi fa il giornalista.