Renzi si faccia carico del futuro del PD

Mi hanno spiegato perché Matteo Renzi non vuole fare ciò che in qualsiasi altro paese qualsiasi leader farebbe al suo posto. Cioè prendere la guida del proprio partito nel momento in cui coincidono il disperato bisogno di una nuova direzione e il favore verso uno che ha mostrato di avere buone ragioni e molte qualità.

Renzi non corre per validi motivi di accortezza tattica.
Renzi non vuole perdere l’immagine positiva di uomo fuori dai giochi di potere e di palazzo. Renzi non vuole finire nel tritacarne di un partito che si sta cannibalizzando. Renzi non vuole esporsi in un’assemblea ancora regolata da archeologici rapporti di forza fra correnti estinte. Renzi non vuole ritrovarsi a battagliare in eventuali primarie contro un apparato che gli è stato ostile.
In generale, Renzi non vuole fare il mestiere di segretario di partito. E non vuole creare un contrappeso a Enrico Letta nel momento del suo impegno alla guida di un governo difficile se non impossibile.

Tutto sacrosanto. Nessuno può imputare al sindaco di Firenze di essere uno che si astiene dalla lotta. Il timing delle sue scelte s’è quasi sempre dimostrato perfetto. La politica, il centrosinistra e il Pd non hanno bisogno di kamikaze o di eroi, ma di professionisti che conoscano l’arte e le astuzie dello scontro politico: possibilmente sul serio, senza millantare com’è accaduto troppo spesso.

Eppure.
Eppure il calcolo dell’assenza, o della presenza silente, o del rinvio allusivo ad altri momenti, stavolta risulterebbe sgradevole. Peggio, sbagliato. Dopo aver faticato per tessere un rapporto di fiducia col corpo collettivo del Pd, sacrificando proprie convinzioni sull’altare della lealtà a Bersani, Renzi non può evitare di caricarsi sulle spalle il peso dello spaesamento, della delusione, della rabbia.

Anche se Renzi è rimasto spiazzato come tutti dagli accadimenti nella partita per il Quirinale, e di sicuro non le ha fatte e dette tutte giuste, non è per errori suoi se adesso il Pd si trova assediato dai suoi stessi militanti, considerato inaffidabile da qualsiasi interlocutore politico, in ovvia difficoltà nei sondaggi. Il sindaco è stato a dir poco più lucido degli altri, su quale fosse il bivio scomodo che si apriva dopo le elezioni di febbraio, mentre il gruppo dirigente romano si raccontava la storia inesistente del governo del cambiamento.
Ma proprio per averci visto prima e meglio, Renzi deve farsi carico dei destini del Pd, senza rinviare l’assunzione di una responsabilità esplicita, chiara, diretta.
E deve farlo… adesso!

Questo non significa necessariamente proporsi per la segreteria, tanto meno se si tratterà di una reggenza in vista del congresso. Significa però prospettare fin da domani un percorso certo, onesto, di affiancamento e non di intralcio col governo Letta, in vista di una candidatura alla leadership che non potrà aggirare il macigno della rifondazione del Pd: piaccia o non piaccia, statuto o non statuto, la via da Firenze a palazzo Chigi passa dal Nazareno. Il nodo del partito è inaggirabile, come lo è stato per Tony Blair, come è stato per tutti i veri leader.

In Italia abbiamo già avuto un dirigente, oltre tutto molto popolare all’epoca, che ha tentato un’avventura di governo riformista lasciando il partito dietro di sé perché lo considerava ingombrante, anzi d’ostacolo vista la cultura politica conservatrice che lo dominava: si chiamava Massimo D’Alema quel dirigente, e ora che Renzi ne è diventato amico potrà farsi raccontare come e perché finì quel tentativo.

Non basta occupare l’ufficio organizzazione, per capirci. Quel presidio al massimo servirà al candidato Renzi per evitare sabotaggi, ma qui se permettete c’è in gioco qualcosa di più grosso. Il Pd è in ginocchio, ma respira. A lasciarlo ansimare senza certezze anche solo fino a ottobre c’è il rischio di non ritrovarlo più in vita.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.