I liquami della campagna

Nel momento in cui raggiunge il culmine di spudoratezza, la campagna contro il capo dello stato che abbiamo visto e denunciato ormai da giugno si dissolve nel nulla da dove era iniziata. Rimangono in terra solo liquami. Restano esposte, allo scoperto, le intenzioni politiche di chi l’ha promossa: il reducismo editoriale berlusconiano e il sovversivismo travagliesco e grillino, accomunati dal terrore che l’Italia possa smettere di essere ostaggio della loro guerra civile permanente.
L’acrobatico e inconsistente scoop di Panorama, con quell’approssimativa descrizione dei contenuti delle telefonate fra Napolitano e Mancino intercettate e illegalmente conservate presso la procura di Palermo, non smaschera alcun ricatto ai danni del capo dello stato. Il settimanale mondadoriano, ritenendo fessi i suoi lettori, camuffa dietro una presunta operazione-verità l’estremo tentativo di azzoppare il presidente. Le conversazioni che non sa riprodurre, semplicemente le ipotizza. I quotidiani d’area gli tengono bordone.
Dal fronte teoricamente opposto (in realtà lo stesso), il Fatto si scandalizza non per la violazione di ogni deontologia e buongusto, ma perché teme che la grossolanità di Panorama affossi la campagna della quale Travaglio si ritiene eroe.
Hanno ragione a pensarla così. Quando mai eventualmente quelle telefonate dovessero diventare di pubblico dominio, l’effetto è ormai dissolto. Se n’è reso subito conto Di Pietro, supposta vittima di qualche improperio presidenziale, che ci ha riso su: sai che scoperta, sai che dramma…
Chi rischia seriamente di farsi male fra i rottami di questo scandalo abortito sono i magistrati di Palermo.
Il Quirinale ieri gli ha perfino fatto un favore, definendo inventate le ricostruzioni di quelle intercettazioni: se la storia di Panorama si rivelasse invece anche parzialmente veritiera, la violazione di legge avvenuta fra le mura della procura sarebbe talmente grave da non consentire ai suoi responsabili di rimanere tali.
Già coperti da rigoroso segreto, quei nastri sono addirittura intoccabili da quando è aperta l’istanza di conflitto presso la corte costituzionale. Sarebbe di una gravità inaudita se nonostante questo (o proprio per questo), gli unici che li hanno ascoltati (cioè i magistrati) ne avessero raccontato in giro i contenuti per danneggiare il capo dello stato e della magistratura stessa.
Antonio Ingroia, il pm dal quale tutta questa storia è cominciata, s’è reso conto da giorni di essere finito in mezzo a un pantano. Un po’ ce l’hanno spinto giornalisti amici e tifosi non disinteressati. Un po’ c’è andato con le gambe proprie, vittima di una passione civile e politica che l’ha indotto in confusione. L’errore di fondo è sempre in quella irresistibile tentazione di scrivere la storia patria e addirittura di orientarla vestendo una toga da magistrato, e usando gli strumenti del mestiere.
Del resto Ingroia ha confessato questa deviazione, ha provato a spiegarla e a giustificarla. Da tempo però sembra anche aver capito che le piazze entusiaste, i giornali sponsor e i firmatari di appelli l’hanno incastrato nel ruolo impossibile di antagonista tutto politico non della politica corrotta o collusa, ma di un presidente della repubblica integerrimo e ostinato difensore delle proprie prerogative: una posizione insostenibile, un equivoco che oggi rischia di travolgere non certo il Quirinale bensì l’intera procura di Palermo e il suo lavoro, buono o cattivo che sia.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.