La sconfitta in Molise e la stasi del PD

Un sondaggio negativo che riporta il Pd dietro a questo Pdl non è la fine del mondo, poi sarà una cosa passeggera. Perdere in Molise non è un dramma. Berlusconi sta sempre cento volte peggio di Bersani. E le discussioni nel Pd sembrano chiacchiere amabili in confronto ai fischi leghisti per Bossi e al veleno che scorre nel Pdl. Il nostro modo di occuparci del centrosinistra però non contempla distrazioni, autocompiacimenti né la ricerca di alibi: c’è tanta gente bravissima a far questo, Europa – il giornale che dirigo – vuole rendersi utile in un altro modo.

Il risultato molisano è pessimo. Vale come quello di un municipio di Roma, è vero, ma racchiude tanti segnali. Innanzi tutto, il disegno di restituire centralità al partito segna il passo un’altra volta: il candidato del centrosinistra va molto bene, per quanto il suo valore competitivo nasca più dalle somiglianze con l’avversario Iorio che dalle differenze; il Pd invece va molto male, torna a livelli più bassi di quelli dei soli Ds cinque anni fa.

A Roma non possono sottovalutare il fenomeno, perché sanno che il rattrappimento elettorale è in atto in tutto il Mezzogiorno, dove il bacino dei consensi democratici è terreno di conquista per i raider del momento, da De Magistris o Grillo. A livello nazionale c’è l’evidenza di uno stallo. La stasi del Pd condiziona tutto il quadro politico: non ci sarebbero tanti giochi, tante manovre, tante opacità, tante ambizioni malamente trattenute, se come accade in qualsiasi altra democrazia fosse in atto un evidente sorpasso fra i due partiti maggiori. Sorpasso non solo numerico ma di egemonia, di progettualità, di leadership, di proiezione verso il futuro.

È forse inevitabile che sia così: la società, nei centri di comando come nelle piazze della rivolta, esplode in frantumi. Una frammentazione che tutti vedono ma nessuno riesce a governare, a ordinare. In fondo Todi è questo, visto dalla sponda cattolica: una constatazione allarmata, dopo la quale sono possibili giudizi in negativo (Berlusconi è finito) ma non si riesce a innescare azioni positive.

Il Pd è parte di questo problema nazionale, non riesce a esserne la soluzione. La frammentazione lo attraversa. Suoi importanti dirigenti partecipano a una manifestazione che chiede la decrescita, di non pagare il debito e il ritorno a impraticabili politiche pubbliche al confine con l’assistenzialismo. Un corteo pieno di cuore, certo, ma dove la linea politica prevalente (seccamente alternativa alla violenza) è quella di Cobas e NoTav: di nuovo, pezzi del problema Italia, non certo la soluzione. Anzi, la soluzione sbagliata. Andare dovunque non fa di per sé egemonia, non fa credibilità, non fa leadership nazionale. Non è un limite di Bersani, come abbiamo scritto molte volte, ma del corpo collettivo del partito. Le assemblee autoconvocate – Civati-Serracchiani e Renzi sono le prossime – sono sintomo di vitalità, ma rimangono distanti dalla massa critica necessaria a rimettere in moto la grossa macchina ferma. La manifestazione del 5 novembre sarà momento di legittimo orgoglio, chissà se oltre che dal partito sarà sentita come momento importante anche dal paese.

La componente liberal interna soffre, scalpita ma sa che le è preclusa la scalata a un partito che ha concesso troppo alle nostalgie e al bisogno di rassicurazione del suo popolo di sinistra: proprio non è aria, nel 2011, di vincere nel nome della concorrenza, del merito e della competitività, che sembrano tutte bestemmie neoliberiste (e come tali sono liquidate all’interno dello stesso Pd).

I cattolici, infine: legittimo il sollievo perché a Todi non rinasce alcuna Dc e non si concedono primogeniture a Casini. Ma tra il non essere delegittimati da Bagnasco e il legittimarsi come interpreti del nuovo richiesto dall’associazionismo cattolico ce ne corre.

Non sappiamo se, come è stato nel passato in Italia e domenica scorsa in Francia, le primarie possano essere un modo per far fare ai cittadini ciò che il partito da solo non riesce a fare: rimettersi al centro della politica nazionale. Visto che in passato non è mai andata male, da questo punto di vista, verrebbe la voglia di dire: proviamoci. La discussione sul tema è però a sua volta ripetitiva e vagamente estenuante. Ci vorrebbe uno scatto collettivo – come collettivo è il problema, e collettiva è la responsabilità – di fantasia e di capacità di sorprendere.

Siamo in tempo per riconoscerci in Milano, Italia, più che in Campobasso, Italia.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.