Ma il PD direbbe sì a Draghi?

In queste ore durissime – mentre da Washington a Berlino tanti occhi sono puntati sull’Italia, che come scrive Paul Krugman sul Nyt è seria candidata al prossimo default – chi fa politica nel centrosinistra con onestà intellettuale e spirito critico può porsi due domande.
La prima è quanta parte della crisi attuale sia da mettere davvero in carico a Berlusconi, e quanta vada invece spartita da tutto il sistema politico e dai governi della Seconda repubblica.
La seconda domanda è se davvero il centrosinistra – diciamo meglio, il Pd – sarebbe pronto oggi a rispondere, in un quadro politico completamente diverso, al tipo di istanze precise che vengono dalla Bce come condizione per il sostegno finanziario al paese.
Anticipo qui una parte della risposta: con grande difficoltà. E col paradosso di dover pagare per la fine di Berlusconi il prezzo di misure sociali indigeribili per la sua base, o almeno incongrue con quanto il Pd di Bersani ha detto negli ultimi mesi. Ma riprendiamo dalla prima domanda, alla quale la risposta è tutto sommato facile. Ci facciamo aiutare da un commentatore davvero mai tenero col centrosinistra come Luca Ricolfi, che fissa al 1998 l’ultimo sprazzo di luce riformatrice, di volontà politica di scardinare i blocchi rugginosi del sistema Italia. Dopo il primo governo Prodi, per motivi e con attori diversi, siamo finiti nella palude.
Mi pare una periodizzazione corretta. Che certo coinvolge quell’ultimo pezzo di legislatura ulivista (D’Alema e Amato), prima velleitaria e poi disperata; e poi il biennio unionista 2006-2008, da bocciare quasi senza eccezioni. Ma che soprattutto condanna senza riserve ben otto anni di Berlusconi premier e Tremonti (quasi) ininterrottamente alla guida dell’economia: la storia di un fallimento epocale, moltiplicato proprio dal fattore di cui il centrodestra mena maggior vanto, cioè la continuità della leadership governativa e politica.
Vista in retrospettiva, l’esperienza berlusconiana di governo dell’economia è stata catastrofica soprattutto nella sua nullaggine, nella straordinaria capacità di massimizzare i conflitti (sociali, politici, fra poteri) a fronte di obiettivi riformatori microscopici: pomposamente enunciati, faticosamente e goffamente condotti, raramente applicati, mai verificati nella loro funzionalità.
Le due opposte stagioni di Tremonti – prima campione contro gli euroburocrati «mai eletti» e oggi solerte portaparola di Bruxelles e Francoforte – sono l’emblema di una destra che ha accumulato potere senza avere una dottrina né una politica. Le tabelle sulle voci della spesa pubblica negli ultimi tre anni, elaborate dal Sole 24 Ore, sono fantastiche se si pensa che parliamo del premier-imprenditore: sono cresciuti soprattutto i capitoli per gli ammortizzatori sociali, per la previdenza, per le spese di governo; i tagli più drastici su energia, sostegno al turismo, opere pubbliche, tutela ambientale, beni culturali, trasporti, incentivi alle imprese…cioè su qualsiasi investimento produttivo, scommessa sul futuro, ammodernamento infrastrutturale.
Crisi, recessione e disoccupazione sono state inseguite. E mentre al volgo si raccomandava ottimismo, coloro ai quali toccavano le scelte abdicavano alle responsabilità. È stato così fino all’ultimissimo, fino alla recente goffa manovra che rinviava i sacrifici al dopo-Berlusconi.
Oggi si paga il prezzo, con gli interessi di un discredito internazionale che rende i governanti italiani i meno attendibili di tutti gli inattendibili governanti occidentali. Le tabelle sulla spesa pubblica “parlano” però anche al Pd. Per due motivi. Il primo è che le migliaia di miliardi versati nella fornace degli ammortizzatori sociali e della previdenza li avrebbe spesi con ogni evidenza anche il centrosinistra, che infatti ha spesso spinto Tremonti a questo inevitabile passo (l’ha annunciato anche Obama, che però parte da ben altro sistema e lo ha accompagnato a una promessa di patrimoniale).
Il secondo motivo investe l’immediato futuro, nel quale Bersani ha offerto la disponibilità per una cogestione della crisi, all’ovvia condizione che chi ha governato il paese fino ad adesso se ne vada. Il pervicace attaccamento di Berlusconi al potere eviterà di misurare fino a dove questa disponibilità potrebbe spingersi, e questo è un male per il paese ma forse è un bene per il Pd.
Perché, certo, il partito ha un nutrito pacchetto di proposte proprie. Ma dalla Bce e da Draghi (alle cui ricette da Governatore il Pd ha sempre dato appoggio) arrivano, tra le altre, richieste dure e precise su mercato del lavoro e liberalizzazione nei servizi pubblici, a partire da quelli locali.
Sono istanze “liberiste”, come si dice qui spregiativamente, che i riformisti di centrosinistra erano arrivati a sfiorare prima però di allontanarsene. Sarebbero aggirabili queste richieste, pur con tutta l’eventuale nuova “forza politica” e contrattuale di un governo di larghe intese? Sono nel range della disponibilità di Bersani a fare «anche cose difficili», come ha detto alla camera? Il fatto che portatori in Italia di ricette così aspre saranno gli impresentabili Berlusconi e Tremonti ci esime dalla verifica. Che prima o poi però arriverà. O almeno, lo speriamo.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.