Piccola ode milanese

Scorci

La prima volta che ho visto Milano ero già grande—avevo ventiquattro o venticinque anni—e facevo un lavoro indaffarato e senza cuore, di quelli che s’accordano perfettamente a certe caricature di quella città. La conobbi così, trasportato da un aereo a un palazzo del Settecento, e rinchiuso là dentro giorno e notte: in sale riunioni affrescate dove si discutevano contratti importanti, e poi davanti allo schermo e tra le carte a perdere il sonno.

Pranzi e cene arrivavano impacchettati dall’esterno. A notte fonda un taxi mi riportava in un hotel esageratamente sfarzoso. Al mattino tornavo a rinchiudermi tra trattative e contratti. L’aereo mi sballottava su e giù da Roma: dal mio appartamento da studente, in cui stavamo diventando grandi a turno, a un esagerato mondo degli affari. E i taxi mi portavano dall’aeroporto all’albergo e da lì in ufficio, e qualche sera al ristorante. Recitavo agli autisti gli indirizzi che qualcun altro mi aveva dettato. Avrei potuto essere dovunque.

Una mattina uscii da quello strano confino, per fare due passi. L’aria era di quel freddo che mi mette di buonumore. Girai per un labirinto di stradette e finii su un corso, un viale. Feci cento metri e mi apparve uno di quegli scorci imprevisti di Milano: il Duomo visto per obliquo da un fianco.

Quello resta uno dei miei scorci preferiti di Milano. Poi ci sono questi: I portinai che al mattino presto gettano l’acqua sui marciapiedi davanti ai portoni dei palazzi borghesi, lasciando intravedere ai passanti i bei cortili segreti. Le corti popolari, vaste come villaggi, in certi vecchi civici di Corso San Gottardo. La vista del tram che passa sotto la Porta Ticinese medievale, a sera, da un tavolo del ristorante romano lì a fianco. Il dito medio, e gli altri mozzati, che Cattelan è riuscito a piazzare nel mezzo di Piazza Affari. Il laghetto artificiale dei giardini di Villa Reale, visto a spezzoni da uno dei suoi ponticelli.

Due tipi di cosmopolitismo

Nonostante gli scorci, Milano è bruttarella. Dieci anni fa, quando la cosa perbene da fare era fuggire da Milano il venerdì sera e maledirla, io mi spendevo a lodarla. Odiavo l’odio dei borghesi per i weekend milanesi; odiavo l’odio dei forestieri per quella città poco romantica e brusca; odiavo soprattutto la compiacenza pigra dei romani e la nostalgia dei meridionali: per loro Milano era come la sabbia negli occhi.

Al fondo di tutte quelle lagne c’era sempre una cosa, anche se chi si lagnava non sempre l’aveva presente: che a Milano non importavano i loro riti identitari, i loro bagagli, i lessici famigliari, e tutti gli altri amuleti in cui l’esule nostalgico cerca una falsa salvezza. A Milano puoi prendere la cittadinanza semplicemente dichiarandoti cittadino. Non servono radici, non servono shibbòleth. È la cosa migliore di Milano.

C’è un cosmopolitismo stoico, fondato su un’idea sbrigativa di uguaglianza e sul comando di sé stessi; e c’è un cosmopolitismo sgargiante e sofisticato, fondato su relazioni e entusiasmi che attraversano nazioni e continenti. Milano è entrambe le cose. La seconda è più visibile: la moda, il design, la finanza, l’élite col suo lessico transnazionale. Ma questo tipo di cosmopolitismo lo sanno praticare tutte le città ricche. In un certo senso è una pratica tribale— coi suoi riti e le sue password—seppur di una strana tribù internazionale.

Il primo tipo di cosmopolitismo, stoico e spiccio, è invece la cifra sentimentale di Milano. Forse è persino sbagliato dire che Milano è cosmopolita. Milano s’interroga poco su sé stessa, ma dà riparo ai cosmopoliti consapevoli e inconsapevoli, tutti degni di cittadinanza: cosmopoliti entusiasti e riluttanti, espatriati in pena, venditori astuti, splendidi parvenu, falangi di incravattati che ingoiano alcol scadente tutti all’impiedi, artigiani coscienziosi, e artisti notturni. Ho conosciuto ciascuno di questi tipi e sono stato io stesso molti di loro. A Milano va bene così.

Città teoriche e città empiriche

Graham Greene ha (forse) scritto nella nota iniziale di un suo romanzo che Londra non esiste: “Questa è un’opera di finzione. Nessuna persona in essa contenuta presenta alcuna somiglianza con persone reali, vive o morte. Londra non esiste”.

Quello di Greene è uno scherzo sulla sottigliezza dei confini tra finzione e realtà. Ma per qualche città è davvero come scrive lui. Queste città non esistono, o meglio esistono troppo: esistono al di là dei loro confini fisici, esistono ancor più come finzione che come luoghi geografici, ed è impossibile viverci senza vivere anche in quella finzione. Quando m’infilai per la prima volta in un taxi giallo di New York e vidi il vapore uscire dai tombini per strada, capii che mi ero trasferito non soltanto in un posto reale, ma soprattutto in un posto dell’immaginazione, un posto che non esiste.

Milano invece esiste. Esiste in un modo spicciamente empirico, a volte noioso e striminzito. Delle grandi città in cui ho vissuto e da cui sono partito, Milano è quella che di solito mi commuove meno—forse proprio per questa sua stretta concretezza; eppure Milano ha le canzoni più struggenti, forse perché il prezzo per essere quel tipo di cosmopoliti empirici e stoici è una perenne malinconia.

Milano dopo l’epidemia

Quando questa epidemia avrà smesso di attaccarci, tanti malediranno i confini aperti, gli esuli, i viaggiatori e i cosmopoliti; e proveranno a imporci le loro piccole patrie, le loro piccole tribù, e i loro giuramenti di sangue. Hanno già cominciato. Sarà una disgrazia.

Milano può resistere. Le grandi teorie dei “cittadini del mondo” suoneranno inevitabilmente ingenue o sballate. Ma il cosmopolitismo milanese non ha bisogno di grandi teorie. Non ha bisogno neppure di quel nome pomposo. Basta la pratica.

Elmore Leonard (o forse era David Mamet?) ha scritto o detto da qualche parte che uno scrittore deve evitare lunghe descrizioni dei personaggi: meglio farli agire e le loro azioni riveleranno al lettore che tipo di uomini e donne sono. Saranno tempi complicati e pericolosi, ma possiamo sempre provare a fare i milanesi, ovunque ci troviamo. Basterà praticare il tipo di persone che vogliamo essere: cosmopoliti che si vergognano un po’ a usare quella parola; tolleranti che non credono al relativismo; ugualitari stoici e sbrigativi; testardi affezionati alla responsabilità individuale; e forse anche malinconici perenni. Coraggio Milano, coraggio tutti.

Roberto Tallarita

Studia cose tra diritto e economia, ma ha sempre il cruccio della filosofia. Ha vissuto in Sicilia, a Roma, a New York, a Milano; e ora a Cambridge, Massachusetts. Gli piacciono i libri, i paesaggi americani, e le discussioni sui massimi sistemi. Scrive cose che nessuno gli ha richiesto sin dalla più tenera età. Twitter: @r_tallarita