Tangeri, una guida per perdersi

Se ci fosse un metodo per visitare il dedalo labirintico di Tangeri forse sarebbe partendo dall’alto. Anche perché di fatto erano partiti a costruirla così, in alto sulla collina, perché tutto intorno era un mare di minacce e possibili attacchi. In mezzo all’oceano e alle porte del mediterraneo.

All’inizio hanno fatto la prima cerchia di mura, la kasbah, e poi piano piano la città è andata scendendo in basso, avvicinandosi al mare. Per cui a dare un consiglio, o un metodo, è bello visitarla così: “scendendo”, come partendo da una sorta di inizio.
La kasbah, ovvero proprio la prima cerchia in alto, è minuscola. Un paesino di poche centinaia di anime, poche case, 5 o 10 vie al massimo.

 

 

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È tutta bianca con le finestre blu, come ci immaginiamo il mediterraneo, e il mondo da Cipro a Tangeri, passando per Santorini, le Eolie e Tunisi.
Ogni volta che finisco in un posto con le case bianche e blu mi faccio sempre questa domanda senza risposta: nemmeno sotto un unico regime ci sarebbe una coerenza architettonica così esatta. E invece, nel mediterraneo, gente di mondi diversi, lingue e culture diverse, sparse in un unico mare, hanno costruito città e paesi tutti con le case bianche e blu. Visto che non ci doveva essere un ministero, una sovrintendenza a dettare la regola, chi lo ha imposto? Come è successo? Mi immagino i mercanti in nave che per secoli giravano il mediterraneo, e si scambiavano questa idea “ma no ma sai, secondo me dovresti farti la casa bianca e blu”. E via via nei secoli, piano piano, chissà perché, la gente si è convinta a farsi la casa bianca e blu.
Insomma, c’è un mistero, o un qualche profeta, ad aver disseminato il verbo fra i mari. Chissà quale o chi è stato.

Della kasbah mi sono portato nel cuore tanti posti, di quelli noti e facili, più tre posti: sono 3 bar. Il Salon Bleu, di fronte al museo dove fanno un piatto tipico di Tangeri che poi lo prendi e ti arriva una caponata uguale identica.

 

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Il Nord Pinus, un ristorante chic francese con una terrazza meravigliosa da cui si ascoltano le preghiere di due muezzin, in contemporanea.
E un posto, il Dar Nour, che trovarlo è quasi impossibile, ma vince il premio come una delle dieci terrazze secondo me più belle del mondo. Anche lui è un francese e, udite udite, vi serve persino una birra (scoprirete che trovarne una, soprattutto durante il ramadan, è un gioco dell’oca coi dadi truccati).

 

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Dicevamo: partendo dall’alto. Si scende e piano piano ci si avvicina alla Medina. Il dedalo più largo, il pezzo di città venuto dopo. Curve e scalette, fra case storte e forme di ogni tipo. Per qualche strana ragione allontanandosi dal centro il blu lascia spazio al giallo. Deve avere a che fare con la colonizzazione spagnola (a Sevilla il giallo è il colore dei fregi). Si allarga, vince il giallo, e comincia il Marocco vero, fatto di strepiti, disordine, e labirinti da cui sembra tu non possa uscire mai. Avvicinandosi al mare l’architettura araba si mescola a quella europea, e si trovano palazzi, scale, porte, mescolate in modo incredibile. Ci trovi delle scale europee che finiscono in porte arabe, chiese cattoliche con fregi musulmani, e stilemi architettonici spezzettati ovunque.

Nella Medina è un po’ dura dare consigli di posti, ce ne sono mille. C’è un negozio di candele molto chic (si chiama Rumi), un paio di bazar antichi bellissimi, il mercato berbero, il cafè Baba (dove andavano i Rolling Stones girando un disco con un tipo assurdo di Tangeri).

 

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C’è di tutto, difficile scegliere. Quello che succede è che alla fine ti perdi, esci da qualche parte, strada chiusa, torni, giri, strada chiusa di nuovo (c’è n’è una bellissima), e poi a un certo punto pensi “io da qui non ne uscirò mai più. Troverò moglie, e invecchierò qui”.

C’è da chiedersi come sia possibile che gli inventori della geometria e della matematica, dell’ordine e dei numeri (gli arabi), quando c’era da mettere giù la pianta dell’urbanistica si dimenticavano tutto, e vinceva il disordine, il caos, l’imperfezione. Facevano le decorazioni delle ceramiche come dei profeti dell’esattezza geometrica, e poi vai a capire perché due strade parallele non sono riuscite a farle mai.

È il secondo mistero, dopo le case bianche e blu.

Finita la discesa, se sei riuscito a non perderti per sempre, ne esci in vari modi, e sono tutte cose che si “spalancano” dal labirinto. Come un cielo che si apre dopo la pioggia.
Ti si spalanca davanti il piccolo Socco, dove ci sono i due cafè storici, quelli di Kerouac, e di tutti gli artisti passati di lì. Sono due piccoli bar, niente di che, ma uscito dal dedalo sembrano un’oasi, una pausa, un punto. E respiri. (e bevi, finally…analcolici, ovviamente). Oppure esci al grand Socco, che è una piazza gigante dove, te ne eri dimenticato dell’esistenza, ci sono le macchine. I clacson, e intorno e vicino mercati e mercatini ovunque.

C’è un cinema degli anni 30 splendido, e un ficus gigante, nel giardino del Grand Socco, che non dimenticherò mai. Avrà centinaia di anni, e uno dei rami si è ripreso il terreno, e ha fatto un secondo ficus. Sono due alberi, attaccati, tipo gemelli siamesi.

L’ultima uscita dalla Medina è il mare. E il mare, a Tangeri, non è un mare qualunque. Quando ti affacci a ovest, nelle due o tre porte della Medina che danno a ovest, quello che ti si apre di fronte è l’oceano. E l’oceano non è un mare normale, visto da lì, è il mare quello duro, largo, smisurato. Grida infinito e potenza da tutte le parti. Da lì c’è un tramonto matto, fatto di vento e onde, a sbattere sulle colline della città. Non è un mare normale nemmeno quello che si vede dall’altro affaccio: il mediterraneo, il golfo di Tangeri. Lì dove ti aspetti di trovare qualche bar, e un porticciolo accogliente, ci trovi le mura alte 30 metri. Se a Tangeri ti aspetti di cenare in un ristorante sul mare non lo farai: non ce ne sono. La città è dentro, chiusa, al riparo. Da quelle parte non si viveva il mare, ci si difendeva dal mare.

C’è solo un posto dove bere qualcosa guardando il mare. Si chiama Cafè Hafa. Se ne sta lì dal 1921, a ovest, lontano da tutto. Terrazze sul mare, una sotto l’altra, per quattro o cinque livelli, tipo limoni della costiera amalfitana. Al posto dei limoni, sui terrazzamenti, tavoli e sedie di plastica, tutti di colore diversi (un capolavoro di design inconsapevole). Ti siedi al Cafè Hafa, ordini quello che c’è (non è un bar organizzatissimo) e guardi l’oceano, e un pezzo di Spagna. Io l’unica cosa che ho pensato, seduto lì, è che se eri un arabo del 1200 e guardavi la Spagna da lì ti veniva voglia di andartela a prendere (e infatti, lo fecero).

Poi se scendi oltre la Medina, fuori le mura, dove ci sono le macchine e i clacson, come in tutte le città arabe, comincia la città nuova. Nouvel: quella costruita dai francesi a inizio 900. In tutte le città arabe è la parte viva, quella dove davvero ci sono le cose della contemporaneità. Ci sono i bar veri (con l’alcol), i negozi europei, le multinazionali, i Mc Donald’s, i pullman, i treni, i supermercati, il caldo, l’asfalto, i semafori. C’è il loro suk, quello vero (non quello turistico). C’è un mini-market dove vendono alcolici (che dopo un po’ non ti capaciti quanto siano introvabili), due bar carini dove bersi qualcosa la sera (il Pepe Cana  e il Tanjerin, ma non immaginatevi dei locali europei). Insomma c’è un pezzo di Europa, in una versione strana, ma l’Europa. A venti minuti a piedi dalla città araba. Ha tutti i nostri comfort, è vero, però è un attimo che cominci a pensare una cosa che pensi soprattutto nelle città arabe, ma anche in alcune città europee, uscendo dal borgo antico, e infilandosi negli stradoni novecenteschi.

E la sensazione è sempre la stessa: che abbiamo fatto tanti progressi, e nella stragrande maggioranze delle cose abbiamo migliorato tutto. Ma ce n’è una, su tutte, in cui nel 900 abbiamo fatto un disastro: l’urbanistica. Il giorno che abbiamo pensato che le città siano fatte di macchine, palazzoni, rotonde, semafori e strisce pedonali, abbiamo sbagliato tutto. E siccome eravamo (e siamo) dei presuntuosi e arroganti colonizzatori: gli siamo andati a portare quella schifezza di idea fin lì. Lì dove non erano riusciti a mettere due strade parallele, eppure avevano costruito delle città meravigliose. Dove i bambini potevano giocare per strada, e la fidanzata ti guardava dal balcone blu. Che ottusa presunzione.

Dalle rotonde ai semafori e alle strisce pedonali, a Tangeri ti salvi molto più facilmente che da noi, perché la meraviglia di Tangeri è che in centro non ci sono megastore, banche e uffici. C’è il silenzio della kasbah. Rispetto all’urbanistica europea hanno costruito le città al contrario: più ti allontani dal centro, più c’è rumore e gente, più ti avvicini al centro, più torni da una sorta di inizio magico, aurorale, primitivo. Fatto di silenzi e cielo terso. Io sono andato a cercare quella quiete più volte, anche nell’arco della stessa giornata. Come se avessi bisogno di respirare, di digerire, di attendere. Rientravo dalle porte, dalle mura, risalendo, e prendevo boccate di pace. Senza strisce pedonali, senza rotonde, alle volte toccando le pareti delle strade semplicemente allargando le mani. Ascoltando i gabbiani, e guardando il blu delle finestre mischiarsi nel blu del cielo. Lo stesso blu dei due mari, in cui è passato il mondo, ed è accaduto il mondo. E pensavo che in fondo nella vita non facciamo un gesto molto diverso da quella città: ci difendiamo dal mondo fuori con mura molto alte, per dimorare in un nido di calma. E in fondo nelle nostre vite, così come Tangeri, non ci riusciamo mai.

Roberto Marone

È nato a Napoli nel lontanissimo 1983. Ha fatto il progettista e il giornalista. Ha fondato e dirige oTTo.