Alessandro Mendini, un ricordo personale

Ho conosciuto Alessandro Mendini quando avevo 15 anni.
Lui era a Napoli per la metropolitana. Lavorava con mio padre, alle nuove stazioni. Quelle che poi con gli anni divennero le famose “stazioni dell’arte“.
Ecco, fu un’idea sua.
Mi ricordo ancora papà quando ne parlava, di quell’idea, e gli brillavano gli occhi.
Ogni stazione un architetto diverso, e in ogni stazione le opere di artisti. Nelle metropolitane, luogo di solito vuoto, buio e sordo, ti imbattevi nei colori dell’arte: in Kounellis, Penone, Sol LeWitt, in spazi pensati da Gae Aulenti o Alvaro Siza. Insomma, un vero museo pubblico (definizione di Bonito Oliva) in cui l’accesso alle opere è casuale e inaspettato, e chiunque (di qualunque classe sociale e culturale) ci si può imbattere.
Un’idea di cultura aperta.
Io all’epoca ero molto appassionato d’arte, perché avevo scoperto di saper disegnare (scolpire, modellare) e a quell’età quando scopri di essere speciale in qualcosa ti senti come di avere un senso. E poi avevo quell’età in cui qualunque cosa si impressiona, come su una pellicola sensibile che ancora non ha visto la luce.
Quindi furono degli anni bellissimi, ogni volta che Sandro scendeva da Milano io ero felice. Arrivavano gli artisti, i disegni, si parlava di cose che per me erano incredibili.
A un certo punto mi ricordo che l’idea di “diffusione” della bellezza per lui era così importante che propose, nella stazione di Salvator Rosa, di far fare le opere fuori dalla metro: sulle facciate dei palazzi privati. Papà (uomo di diritto) si inventò degli strani stratagemmi per usare dei soldi di un’opera pubblica per fare delle opere d’arte su dei palazzi privati. Per convincere gli inquilini, offrì loro di ristrutturare le facciate a spese della metropolitana (!).
Sandro rideva sotto i baffi. E mi ricordo le facce di quelle persone, che erano gente qualunque, di quartieri poveri, quasi increduli, e poi felici di accogliere un’opera di Paladino sulle ringhiere di casa. Ancora oggi, se passi di lì, è incredibile che sia successo. Era un’assurdità: la metropolitana, da sotto, esce fuori a trasformare la pelle di tutto l’isolato.
Questo per dire che Sandro era questa cosa qui: un onirico visionario, timido e riservato, eppure dirompente. Trapelavano poche parole, pochissimi movimenti delle mani, era piccolo, magro, e basso. Eppure la sua visione delle cose aveva una forza a cui andavano dietro tutti, e che trasbordava ovunque.
Poi frequentando lui mi accorsi che non mi interessava tanto l’arte, ma che volevo progettare e studiare design. Un giorno eravamo in macchina, mi feci coraggio, e chiesi a Sandro un consiglio. Mi disse che la cosa migliore era fare il Politecnico. Sei mesi dopo, ero al Politecnico. Bovisa (parentesi: solo una passione molto forte può spostare un essere umano dalla bellezza di Napoli alla bruttezza di Bovisa).
Un anno dopo ancora lo incontrai per caso in metropolitana. Io vivevo a Brenta, vicino al suo studio, e quindi facemmo tutto il tragitto insieme.
Era la prima volta che lo vedevo in un contesto non di lavoro, e solo io e lui. E lui fu più affettuoso del solito. Io non ci potevo credere che uno come lui girava in metropolitana (per un napoletano i mezzi pubblici sono un incubo riservato a chi non può permettersi di meglio). Ma mi ricordai di una volta all’hotel Vesuvio (il miglior albergo di Napoli), dove tutti ordinavano champagne e pesce, e lui ordinò serafico “una pizza”. Il cameriere pensò evidentemente che fosse il suocero o il nonno di un invitato, fuori luogo e fuori contesto.
Sono due dettagli belli, al di là del ricordo, che dicono molti di lui: la metropolitana e la pizza: era un uomo che emanava il carisma di un Papa, mantenendo invece i modi di un prete di paese.
Poi in quella metropolitana mi venne fuori una sfacciataggine che solo a 20 anni si può avere. E gli dissi che mi sarebbe piaciuto frequentare il suo studio, in qualche modo, per imparare. Lui disse sì, che ero un po’ troppo giovane, ma che 3 mesi di stage potevo farli. Ci rimasi, alla fine, due anni.
Oggi, che Sandro non c’è più, è tutto il giorno che penso a quegli anni.
Mi ricordo la sua dolcezza, quando mi vedeva sperso fra adulti, io che ero un ragazzino.
Mi ricordo che ogni giorno girava fra tutti i tavoli, seguendo contemporaneamente decine di progetti (da grattacieli a orologi) con la semplicità e la calma di un passante. Senza mai pestare i piedi, con elegante serenità, ascoltando e capendo.
Mi ricordo quando anche al freddo, scegliendo i colori, uscivamo tutti fuori coi cappotti, e li guardavamo con luci diverse, con il sole e con le nuvole. Mi ricordo che ci mettevamo settimane, a scegliere un colore. Una prima selezione, una seconda, una terza (per un colore).
Mi ricordo il suo piccolissimo soppalco, in cui la scrivania era forse più grande della stanza, e l’ordine meticoloso con cui conservava le cose che stava seguendo, fra mille libri, lettere e disegni.
Mi ricordo le mail su carta, se le faceva stampare, e rispondeva a mano. Mi ricordo perfettamente la sua mano tremolante, lenta sul foglio, a disegnare linee mai dritte. E dopo ore, vedere riaffiorare quei suoi schizzi bellissimi, e belli proprio perché così infantili e imprecisi.
Mi ricordo l’organizzazione perfetta del lavoro, l’organizzazione dei team, dei capoteam. E le riunioni: non ho mai più fatto delle riunioni così perfette. Senza dibattiti, senza perdere tempo, senza chiacchiere. Senza nessuno che sbordava dalla linea delle sue to-do, delle mansioni. Nessuno diceva cose che non era necessario dire. E se una riunione era dalle 3 alle 4, cominciava alle 3, e finiva alle 4, e uscivamo da lì tutti con le idee chiare (vi è mai capitato? a me mai più, nella vita).
Mi ricordo che a ogni riunione (e ne faceva 10 al giorno, tutti i giorni) Sandro portava dei riferimenti, dei libri, degli spunti, e ogni volta ognuno di noi da quegli spunti capiva tutto. Mi chiedevo sempre quando avesse il tempo di farla, quella ricerca. Quando avesse il tempo di pensare.
Mi ricordo quanto fosse laico, aperto, mai dogmatico. Mi ricordo quanto fosse onirico, visionario, quanto sparigliasse sempre le carte.
Mi ricordo che voleva fare mille prove di tutto, avere decine di strade diverse, e tenerle aperte tutte.
Mi ricordo quando mi disse che non dovevo pensare alle cose tecniche, perché le cose tecniche inaridiscono e bisogna prima pensare al cosa, e poi al come (ci rimasi male, ma quanto aveva ragione). Mi ricordo che non ha mai alzato la voce, non si è mai imposto, e non ha mai sgridato nessuno. E nonostante questo mi ricordo il silenzio di quello studio e il rispetto enorme che avevamo tutti per lui.
Mi ricordo di quanti elementi riuscisse a mettere in un solo progetto, quanti “colori” senza mai rischiare il troppo: quante varianti, quante possibilità, quante collaborazioni, in una bulimia insaziabile.
Mi ricordo che non dava mai ordini, non dava mai consigli, ma solo idee.
Mi ricordo che era felice, quando a pranzo si concedeva di mangiare con noi (la pizza). Quando parlava con Alberto Alessi (per chi non è del design, per capirci, Alessi sta al design come la Apple sta ai computer), e Alberto Alessi lo ascoltava come un bambino ascolta il padre.
Mi ricordo ancora oggi il carisma che emanava, da quegli occhi piccoli: riusciva da immobile, alle volte senza parlare, a spostare le cose.
Mi ricordo che non l’ho mai sentito parlare di soldi.
Mi ricordo le sue Adidas, i suoi vestiti sempre troppo larghi. E le sue giacche colorate di Missoni.
Mi ricordo perfettamente la sua voce elettrica, inconfondibile. Mi ricordo che non diceva mai di no a nessuno.
E su tutto, mi ricordo la sua intelligenza. Quanto fosse caleidoscopica, quanto fosse onnivora, quanti ingredienti aveva. Il numero di cose che riusciva a tenere unite, e da quanti punti di vista diversi.

Mi ricordo tutte queste cose, e altre mille.
E adesso che non c’è più, le ricordo tutte con gli occhi gonfi.
Eppure è semplice capire perché: un pezzo bellissimo della mia vita è gonfia di tutti i suoi colori.
E con ogni probabilità, non sono il solo.

(PS. Ho scritto questo testo il giorno dopo la sua scomparsa poi, per varie ragioni, l’ho pubblicato solo oggi. Ma non è mai tardi, per certe cose.)

Roberto Marone

È nato a Napoli nel lontanissimo 1983. Ha fatto il progettista e il giornalista. Ha fondato e dirige oTTo.