La speranza del Nord

Un po’ di cose che penso sulla vicenda Bossi and the family e su ciò che comporta.

La Lega non è sparita, e non è finito il rancore del Nord. E nei confronti del governo tecnico e delle cose che fa, siamo di fronte, da parte della gente comune, della provincia del Nord, della «società stretta» di cui ho detto ieri citando Belpoliti e Leopardi, a un atteggiamento letteralmente bipolare: stima per Monti, sfiducia nei confronti delle cose che sta facendo. E che stanno succedendo, tutto intorno a noi.

Poi loro, i leghisti, decideranno se proseguire con la mitologia degli inizi (e le lacrime del Nord nel senso coreano del termine, dell’affetto per il grande leader, turlupinato dal suo successore, con tanto di parate e di orgoglio ‘nazionale’) o se optare per «quello buono», il Maroni Ba-Varese, che son mesi che gli fa le scarpe. Che conta su personaggi altrettanto virulenti e politicamente maneschi, ma si presenta meglio. Già. Gli manca solo il loden.

Oppure se sarà il Tosi (che dalla curva del Bentegodi è passato al ruolo di statista locale) che si affermerà come punto di riferimento, partendo da una città che sta a metà strada tra Lombardia e Veneto (non amata da nessuno dei due, e però baricentrica), o se prevarranno lo Zaia silente e il modello veneto bianco-verde, un po’ Leone di San Marco, un po’ campanile. E molto fondazione bancaria.

Il problema politico, però, è un po’ più profondo. E più preoccupante e appassionante dei destini della Lega e dei suoi equilibri interni.

Avere frainteso la globalizzazione con il localismo non aiuta di certo: qui c’è da pensare e ripensare, mettere in campo un pensiero moderno e una pratica politica che possa rispondere in modo diverso alle domande che il Nord pone da anni. Con risposte che erano sbagliate o che non sono venute, guarda caso proprio dalla classe politica più nordica di tutti i tempi.

C’è da coinvolgere i produttori e spiegare che ci vogliono gli insegnanti, per dirla con uno slogan. C’è da premiare i mobili e colpire gli immobili e gli speculatori di tutte le risme. C’è da creare condizioni di concorrenza leale e di lavoro degno per tutti. C’è da togliere del nero, per abbassare le tasse. C’è da riscoprire le campagne, pensate un po’, come se per uscire dal Nocevento, dovessimo prendere la rincorsa dal secolo precedente. C’è da liberare Tina (che sta per «non ci sono alternative» ma anche per la casalinga di Voghera), senza umiliarla con lo snobismo dell’alta politica e dell’aria di città (che è, per altro, parecchio inquinata). C’è da riscoprire l’individualismo sano, e insieme la collaborazione di chi da solo si è fatto e però forse non ce la farà. E per la prima volta ha paura di non farcela davvero.

C’è da cambiare punto di vista. Radicalmente. E però non basta più commentare, come se il Lombardo-Veneto fosse un documentario del National Geographic. Perché qui non siamo tra lo Nogorongoro e il Serengeti (anche se Belsito era là che investiva). Siamo tra il Lambro e il Mincio. E continuare a considerarlo un posto dove tanto si perde, e cercare di andare da un’altra parte, non serve a nulla. Se non a perdere le elezioni. Dappertutto. Com’è puntualmente accaduto. E che si chiami Lombardo il presidente della Sicilia, beh, è un segno, sapete?

Quando in direzione nazionale ho posto la questione lombarda, mentre tutti si appassionavano all’ispano-tedesco (siamo passati da metafore suine a riferimenti canini), e tutti si volevano bene, ho sentito un gelo da profondo Nord, come la politica chiama queste plaghe che vive come straniere, manco ci fossero ancora gli austriaci.

Eppure tutti a parlare di Europa, certo, come se in Europa si andasse in volo. Mentre bisogna prendere un treno a velocità bassa (un Tvb), un camioncino di quelli che si usano per lavorare (come abbiamo fatto altre volte, senza però che il senso dell’operazione fosse davvero ‘condiviso’ dai vertici), e girare queste terre. E iniziare a dare risposte, che nascano dal confronto e dalla responsabilità. E che mettano in discussione tutta la politica, non solo quella della Lega, che non funzionava già vent’anni fa, eppure è riuscita sempre a batterci. Anche la nostra.

E a tutti quelli che ora fanno gli spiritosi, perché fa molto ridere il Trota, l’ampolla, la maga del Garda, il cerchio magico, le camicie verdi, la scuola di Adro, le porcate di Calderoli, i ministeri finti, i pratoni (lambiti, per altro, dall’edificazione selvaggia), ricordo che noi non ci abbiamo provato sul serio. E non ci è voluta voglia di provarci nemmeno ora.

C’è solo una speranza, che ho trovato nelle parole di un ministro del governo Monti, a cui forse dovremmo guardare con più intensità. Ha un nome che fa pensare a un viaggio, a una nuova navigazione. E finalmente a una speranza.

Siamo a 150+1, nota Gianluca da Parigi (ma in realtà da Brugherio) in un libro da leggere e sottolineare. Ecco, occupiamoci del +1, e degli anni che verranno. Partendo da qui, da dove ci siamo stati politicamente molto poco. E spesso molto male.

Pippo Civati

Pippo Civati è il fondatore e direttore della casa editrice People. È stato deputato eletto col Partito Democratico e ha creato il movimento Possibile. Il suo nuovo libro è L'ignoranza non ha mai aiutato nessuno (People).