Volatili speranze
«Mi sembra che le parole, perlomeno le mie, non riescano a dare la misura di nulla, è come avere in mano un metro da sarto per misurare una galassia»

Per dirvi di Gaza: non sono capace di dirvi niente. Se guardo fuori dalla mia finestra vedo una domenica di sole, l’aria è fresca, la casa immersa nel silenzio, sento solo gli storni che fanno il solito casino sulle grondaie. Niente che non sia sereno e sicuro, niente che non sia normalmente luminoso – è maggio! Ma è maggio anche laggiù, tra le macerie, la fame e la sete, e provo imbarazzo, quasi vergogna a considerare che anche quello è un maggio.
Gli articoli, gli appelli, le telefonate degli amici (“possibile che non si possa fare nulla?”), la stessa informazione, la rete mondiale del racconto, sembrano solo la spietata conferma che anche se sappiamo tutto, non possiamo farci niente. (Ecco una buona definizione, amara ma quasi oggettiva, della famosa “opinione pubblica”: quelli che sanno tutto e non possono farci niente). Mi sembra che le parole, perlomeno le mie, non riescano a dare la misura di nulla, è come avere in mano un metro da sarto per misurare una galassia. Ci si aggrappa perfino alle fake, un paio d’ore fa mi telefona un vecchio amico, “su Instagram girano video di aerei cinesi che lanciano aiuti su Gaza con il paracadute, speriamo che sia vero”. Ma no che non è vero.
Vero, e lo segnalo a chi lo avesse perso, è l’energico editoriale di Walter Veltroni sul Corriere della Sera di ieri mattina (domenica 25 maggio). È sull’incapacità della politica di accogliere e rappresentare lo sgomento di tante persone di fronte alla carneficina di Gaza. Lo sottoscrivo. Noi del Novecento abbiamo creduto nella piazza come momento umano – non solo politico – importante. Si è persa l’abitudine di sentirsi piazza, e credo sia un’omissione grave. Nessuna piazza ha mai risolto nemmeno mezzo problema, ma le piazze servono a chi ci va per sentirsi meno solo, e parte di una comunità. Sarebbe poi la funzione principale della politica, no? Ripeto: sentirsi meno soli, parte di una comunità.
P.S. Lunedì mattina su qualche giornale trovo notizia di una probabile manifestazione indetta, per adesso, da PD e AVS. Comunque troppo tardi, ma meglio di niente.
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Restando in tema: tra le mie mail ne trovo una speciale. Arriva da Gaza. Me la manda uno degli operatori umanitari, non tanti, che sono riusciti a rimanere sul posto. Gli avevo chiesto sue notizie, mi ha risposto. Ci chiede di chiamarlo Viviano, preferisce che il suo nome non esca, non vuole coinvolgere l’organizzazione internazionale per la quale lavora – il controllo, a Gaza e su Gaza, è ossessivo, e ogni passo deve essere attento al passo seguente.
“Buongiorno caro Michele. Come ogni mattina, appena sorto il sole, il primo violino della Palestinian National Birds Orchestra prende posto sull’antenna in cima al nostro tetto. I rivali in musica, l’IDF Philarmonic Orchestra, hanno iniziato prestissimo il loro cacofonico e monotono concerto quotidiano. Senza fantasia, senza alcun gusto musicale, ripropongono unicamente grancasse e timpani, sovrapposte a fiati stonati, che suonano sempre le stesse tetre melodie”.
“Il primo violino inizia il suo assolo dopo qualche nota per accordarsi ai compagni d’orchestra. In breve la scena musicale è sua. Il principale membro della National Birds Orchestra è conosciuto all’anagrafe come Palestine Sunbird. È stato dichiarato uccello nazionale nel 2015, dopo che le forze di occupazione israeliane cercarono di cambiargli nome, nel loro sforzo continuo di cancellazione dell’identità palestinese. Sunbird, uccello del sole, il cui assolo, non a caso, inizia appena dopo l’alba”.
“Sono tra gli uccelli più piccoli del paese, con dimensioni tra gli 8 e i 12 centimetri, ma hanno un suono potente che, in una versione sonora del Davide contro Golia, riesce a distinguersi tra le esplosioni. Il loro becco, curvo e affilato, è perfetto per raggiungere il nettare all’interno dei fiori; la loro dieta però è composta anche da insetti. Questo loro lato carnivoro aiuta a proteggere le piantagioni, riducendo la necessità di pesticidi. La passione per il nettare, invece, li rende degli importanti impollinatori. Violinisti eccezionali, combattono al fianco dei contadini palestinesi proteggendo i raccolti dagli insetti che potrebbero danneggiarli. Contemporaneamente, ogni mattina al sorgere del sole sono in prima linea nella battaglia musicale contro droni e artiglieria, rubandogli il palco e riempiendo il cielo di Gaza con il loro suono”.
Viviano
Il nome scientifico di quell’uccello, un passeriforme, è nettarinia della Palestina (Cinnyris osea). “Gli uccellini nel vento non si fanno mai male”, canta De Gregori, chissà se è vero. Grazie a Viviano, in ogni modo, il canto del sunbird mi aiuta a immaginare, nel maggio di Gaza, qualcosa di più simile al maggio di tutto il mondo. Quando noi umani avremo finito di sbranarci, tra le poche certezze c’è che il canto degli uccelli, all’alba, continuerà a testimoniare che il mondo è vivo. E può fare tranquillamente a meno di noi.
Mi resta da aggiungere che un’altra mail, quella del lettore Savini che ho pubblicato la settimana scorsa, ha sollevato, diciamo così, il severo disappunto di almeno una decina di altri lettori. Savini, a proposito di convivenza tra etnie differenti, citava Israele come esempio. Si riferiva, credo proprio, al fatto che quella nazione è un coacervo di immigrati ebrei, partiti da molti luoghi del mondo e con lingue e costumi anche molto differenti. Diciamo che, se l’idea era quella, ha una sua logica. Ma le circostanze storiche, diciamo così, non aiutano a leggere con occhio benevolo quel breve elogio del melting pot tra ebrei israeliani di provenienza differente. Mi prendo la mia parte di colpa: conoscendo il clima, gli umori e i dolori del momento, e la disumana deriva che il governo di Israele sta dimostrando a Gaza (e in Cisgiordania), non dovevo esporre il breve elogio di Israele del lettore Savini al forte e comprensibile disappunto di tanti. Mi scuso con lui e con loro.
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Verdi, Bellini, Rossini e Donizetti (che ha un forte accento bergamasco) sono in una casa di riposo per musicisti anziani. Giocano a carte. Litigano in continuazione per stabilire chi tra loro è il compositore più grande e chi il migliore giocatore di scopa. La situazione peggiora con l’arrivo di Wagner, inseguito dai suoi creditori. Parla come le Sturmtruppen, disprezza il teatro d’opera italiano (“musica per burattini”) e vanta la grandiosità della sua rivoluzione musicale. I quattro italiani lo accusano del delitto supremo: disprezza la melodia e ha aperto la strada alla dodecafonia. La zuffa culturale divampa, con tanto di insulti e mani addosso, come nel teatrino dei pupi. Per fortuna un coro formato da un centinaio di bambini, cantando le arie d’opera di tutti e cinque i contendenti, presidia saldamente il palcoscenico e decreta che il solo vero vincitore è la musica. (“Viva la musica, che ti va/ fin dentro all’anima, che ti va”: Paolo Conte, Dal loggione)
La trama è giocosa, farsesca, ma con un suo rigore culturale, e regge la recita scolastica di fine anno delle scuole primarie di Piacenza, nel Teatro Municipale gremito di bambini sul palco e in platea. Uno spettacolo vero, purtroppo senza repliche (le meriterebbe). L’ideatore di questo giocattolo molto coraggioso, e sempre trascinante, è il maestro Corrado Casati, che quest’anno è riuscito a far cantare anche Wagner (la Cavalcata delle Valchirie e il Coro nuziale del Lohengrin) al suo piccolo esercito di bimbi. Impresa non facile. Tre tenori, due soprano, un basso e un’orchestra di dieci elementi diretta dallo stesso Casati danno manforte ai bambini.
Di questa piccola grande meraviglia vi avevo già parlato lo scorso anno. Quest’anno confermo il mio entusiasmo e, in parecchi momenti dello spettacolo, la mia emozione. Se vi dicessi che è la più grandiosa recita scolastica al mondo, Casati, che è spiritoso, replicherebbe: “di più! È la più grandiosa recita scolastica di Piacenza”.
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La cronaca del mio stupido infortunio al piede (sono quasi guarito, grazie), dovuto alla sciagurata superficialità con la quale ci si espone alla forza di gravità e ai tanti spigoli del mondo, è molto piaciuta a parecchi lettori, a dimostrazione del fatto che bernoccoli, cerotti e inciampi, quando le conseguenze non sono gravi, sono sempre un ottimo argomento di conversazione – perfino divertente, nonché molto istruttivo. Di seguito una breve miscellanea.
“Sono un medico di Pronto Soccorso da oltre trent’anni. Leggo del suo incidente con il ciliegio e del suo “sono un cretino”: come ripetuto da sempre a chiunque arrivi in Pronto Soccorso dopo un trauma, non conosco nessuno che sia mai riuscito a farsi male in maniera intelligente. Ma soprattutto sorrido alla sua descrizione dei soggetti in scena in Pronto Soccorso: l’infermiera indiana e italiana, l’altra, la leonessa, africana e italiana, e poi la ragazza, albanese e italiana. È proprio così: il paese reale (come si dice) è molto più avanti degli stessi interrogativi che, proprio in questi giorni, si pone. Un giorno proverò, con scarsa modestia, a scrivere qualcosa di più sulle storie del Pronto Soccorso: vorrei usare il titolo “la carne del mondo”, in omaggio a un passo di Alda Merini. Perché, se steste con noi qualche ora, magari di notte, vedreste davvero qual è la carne di questo mondo”.
Fabio De Iaco
“Mi spiace molto per il suo infortunio e sono lieta che si sia risolto con una contusione. Classica situazione in cui si trovano i lavoratori che spesso incontro nel mio lavoro di sindacalista e vertenziera: “eh, non avevo tempo di mettere le scarpe”, “eh, per fare in fretta ho tolto la protezione”, “il capo mi ha detto di andar veloce e non mi sono legato”, e via così. Se va bene è una contusione, ma di solito non va così bene! Quanto alle infermiere che ha incontrato al pronto soccorso, calzano a pennello con i temi caldi (scottanti – direi – per il Governo italiano!) dei quesiti referendari che – spero – porteranno alle urne i cittadini del nostro Paese. Spero che quella scrittrice albanese e italiana, l’infermiera indiana e italiana e l’infermiera leonessa africana e italiana, eserciteranno il loro diritto/dovere di voto! E con loro molti altri”.
Kendra
“Sto vendendo la casa nel bosco dei miei genitori, casa da vivere dall’interno dove il bosco entra da ogni finestra in modo diverso, con angolazioni, viste e luce ad ogni ora differenti. La delusione di non averci ricavato quanto pensavo, viene mitigata dal vento di speranza portato dai due ragazzi acquirenti, che vogliono mettere su famiglia. Con il tuo racconto, mi sono venute in mente le cavolate fatte negli anni. Ho smesso di usare la motosega un giorno che, per fortuna con i guanti di cuoio di mio padre, mi sono tagliata solo la punta dell’indice del guanto sinistro. Il mio dito era molto più corto, per fortuna… Mi mancheranno la libertà della casa, l’informalità, i suoni sempre diversi degli animali intorno, le stagioni evidenti, l’aria e gli odori. Ma lo capisco solo ora dovendoci rinunciare. Ben venga un ciliegio odoroso che costringe a meditare”.
Tatiana
“Ti scrivo da Montreal, Quebec, da dove ti leggo da sempre. Lavorando come architetto/restauratore a Notre-Dame-de-la-Défense (la chiesa degli italiani disegnata e affrescata da Guido Nincheri, insomma quella con Mussolini e gerarchie nell’affresco absidale, ma questa è un’altra storia) sono arrivato in cantiere alle sette del mattino e stavo andando a mettermi le scarpe anti infortunistiche (in francese del Quebec: cap d’acier). Vedo due operai che stanno trasportando la statua della Madonna dei Sette Dolori tenendola dalle braccia, che notoriamente sono i punti deboli nella statuaria. “Fermi tutti che vi aiuto” dico, e gentilmente i due lazzaroni mi scaricano la Madonna sull’alluce sinistro non ancora protetto! Ti assicuro che si vedono le stelle e i pianeti, come nei fumetti. A capo chino, smadonnando (è il caso di dirlo) sono seduto, accartocciato in un banco con il mio impresario che mi dice: “Continua a pregare perché è appena entrata la Commissione Anti Infortunistica”. Mesi di ospedale (a 76 anni ci sono pezzi che vanno cambiati, garanzia scaduta) e il personale di base, eccezionale, credo venga da tutto il pianeta. Quando ho guidato dei gruppi di trekking italiani in Quebec, la domanda ricorrente era: “Ma come fate a convivere con questo miscuglio di razze? Non ci sono conflitti?”. “No, siamo tutti immigrati, tranne i nativi (leggere indiani), e lavorando insieme si impara ad apprezzare l’umanità e a superare la ristrettezza della propria visone nazionalista. Goditi quell’Italia che mi manca, non quella che detesto”.
Pierlucio, Montreal
“Mi sono rotta la schiena (si fa per dire!) per sbrinare il congelatore a cui non era stata ben chiusa la porta… Le auguro una buona guarigione del piede e mi abbini pure tra gli idioti”.
Nicoletta Bucci
“Infortuni: sono certa che ce ne siano una X quantità per persona! Pertanto se te ne becchi alcuni pallosi, ma non mortali, riempi il barattolo. Io fratture varie tra cui caviglia in tre pezzi e tre operazioni, bacino scomposto con immobilità di tre mesi più uno con peso e senza cuscino, e varie altre amenità. Ora a 63 anni mi sento Divinae e ancora non ho avuto un cancro. Se arriva sono certa che guarirò”.
Roberta Messina
“Nel mio piccolissimo ho certezza di incidenti sul lavoro dovuti alla superficialità e alla presunzione di conoscenza. Nella miniera di mio marito era impossibile far usare caschi e scarpe antinfortunistiche, anche quando brillavano le mine era sempre “dotto’ fa caldo”! In un tragico caso il mancato spegnimento di un tritasassi portò ad una terribile morte l’addetto. Vedo spesso i dipendenti di un amico che lavora il marmo stare sotto le lastre in movimento nonostante abbiano telecomandi che permettono di operare a 50 metri. Ho visto operai sui tetti senza assicurarsi alla linea vita (obbligatoria) e altri addetti allo smaltimento dell’amianto a torso nudo e senza maschera. Certo ci sono mancanze nella sicurezza e occorrono controlli e pesanti sanzioni ai datori di lavoro, ma anche non fare di tutta l’erba un fascio e sottolineare, dopo le indagini del caso, quando l’incidente è dovuto alla leggerezza (non quella calviniana). Obiettività ci vorrebbe e, invece, abbiamo malafede e la pochezza di molta stampa che, nello specifico, non crea danni a se stessa, purtroppo”.
Maria
“A volte distrazione, fretta o superficialità sono cattive consigliere. Auguri di pronta guarigione. Quanto al mondo arcobaleno, Alice nel villaggio globale:
l’infermiera Indiana, l’infermiera Africana e la ragazza Albanese sono lì nell’ospedale italiano forse perché il mio amico compagno di scuola Enrico, formato dall’eccellenza italiana, dopo anni di precariato nelle strutture ospedaliere nazionali, stanco, deluso, senza più sogni, se ne è andato in Gran Bretagna. Lo stesso è capitato a un ragazzo conosciuto alle Canarie, mi racconta che non vive più in Italia ma lavora come infermiere in Francia, dove ha ripreso a sorridere. E così molti altri bravi ragazzi italiani, tutti straordinari infermieri sparsi per l’Europa, per il mondo. Tutto capitale umano perso, e perso per sempre. Tutti in esilio forzato, non in cerca della terra promessa per il fascino di esplorare e conoscere, o per ambizioni professionali, ma costretti dal Destino deciso da altri. Avevamo solo la nostra storia e sembra non appartenerci più”.
Ale (ex ragazzo per oltre 25 anni in esilio forzato)
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Ah, le lingue straniere… quante trappole, quanti inganni. La prima Zanzara di questa settimana ce lo conferma. È il sottopancia di un imprecisato notiziario televisivo, lo ha fotografato Paola.
A CAGLIARI L’AMERIGO VESPUCCI
SOUL OUT PER VISITARLA
Commenta Paola: c’è chi venderebbe anche l’anima, per visitare la Vespucci. Molto suggestivo, quasi cristologico questo refuso che Giammaria ha trovato in una locandina di Repubblica Genova:
GLI ULTIMI COMIZI
PRIMA DEL VOLTO
Si immagina, a urne chiuse, un’apparizione nel cielo sopra Genova. Un’altra locandina, sempre di Repubblica (non è per accanimento, è il fato) fa capire quanti danni possa fare una spaziatura sbagliata. La segnalazione è di Albino.
PROF AGGREDITO
DAI RAGAZZI
A SCUOLA
TROPPI LUPI
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IN PIEMONTE
I PASTORI:
VANNO DIMEZZATI
Il tempo, in questo pezzo d’Italia montuosa che tiene ben separati la Val Padana e il mar Ligure, rimane molto variabile e fresco, di notte serve ancora il piumone e di sera abbiamo riacceso la stufa a legna – di quanto io sia abile a fare provvista di legna, specie di ciliegio, credo di avere già detto. L’estate sembra molto lontana, ma già sappiamo che il famigerato anticiclone africano arriverà tutto di un colpo e passeremo in un paio di giorni dai 15 ai 30 gradi, non ci sono più le mezze stagioni, eccetera.
Per chi sopporta la mia pedanteria botanica: nella fioritura rigogliosa, dovuta alle tante piogge, svettano i primi Echium (nome volgare, viperina), magnifiche e vigorose borragini alte anche un metro e mezzo con i fiori celesti e rosa. Pungono. In un grande vaso, con molta acqua, se ne stanno anche due settimane in splendida forma. Api e consimili apprezzano molto.
In alto i cuori, più in alto dei fottuti droni israeliani e russi.




