Una casa nel bosco
«Esiste un modello unico e inattaccabile della condizione umana, un metro unico e incontestabile del “benessere”, oppure esistono periferie estreme della tribù umana che vanno rispettate, capite, semmai aiutate, certo non represse?»

Molti anni fa stavo camminando in felice solitudine in un fitto bosco di conifere, sulle Alpi Marittime, versante francese. Non c’era anima viva, andavo per funghi con qualche apprensione per il percorso perché quel bosco era molto isolato e il sentiero quasi illeggibile.
D’un tratto nel folto del bosco (che è anche il titolo di un racconto di Amos Oz) fui colpito alla testa da una pigna e sentii delle risate di bambini. Cristalline, inconfondibili, un trillo totalmente inatteso in quel luogo distante da tutti, non incluso negli itinerari degli escursionisti. Ecco, pensai, lo sapevo che gli elfi esistono per davvero.
Mi guardai intorno, non vidi nessuno. Però notai, appena più a monte, una strana installazione di legno, una specie di trespolo rudimentale che sosteneva dei mezzi tronchi messi in orizzontale (tipica architettura elfica…). Saliti i pochi metri che mi separavano da quel manufatto, feci in tempo a vedere due bambini biondi fuggire tra gli alberi, sempre ridendo. Erano loro che mi avevano tirato la pigna ed erano molto felici di avermi centrato. Vidi che i mezzi tronchi, appoggiati a qualche palo di legno, erano scavati all’interno e servivano per portare l’acqua da un ruscello fino a una piccola canalizzazione di lamierino che scompariva tra gli alberi. Sicuramente poche decine di metri più a valle, nascosta nel fitto, c’era una casa alla quale quell’acqua era destinata. Lo scroscio sottile dell’acqua in quel micro-acquedotto mi sembrò fiabesco, chiaro e luminoso come le risate dei bambini.
Di sera, tornato in paese, mi dissero che quei due bambini abitavano lì, con i loro genitori, già da qualche mese. Era una giovane famiglia tedesca che aveva compiuto una scelta radicale, di piena immersione nella natura. Avevano affittato per pochi soldi, o forse occupato, un giàs, che da quelle parti è il nome che si dà ai rifugi costruiti dai pastori. L’automobile parcheggiata a un’ora di cammino, lampade a petrolio per avere luce e una vecchia stufa a legna per cucinare e scaldarsi, il bosco tutto per loro. E l’intenzione di protrarre a oltranza, anche in inverno, quell’avventuroso abbandono della civiltà.
Poco dopo, grazie alla pratica oggi purtroppo desueta dell’autostop, conobbi Pascal, un marsigliese laureato in medicina che aveva mollato tutto per salire in montagna con moglie, tre figli e duecento capre. Il figlio maggiore era gravemente disabile, non camminava e non parlava. Abitavano dall’altra parte della valle. Per un paio di estati passai parecchie serate con loro. Pascal era colto, intelligente, allegramente polemico, prendeva in giro i miei vizi di civilizzato, io il suo integralismo montano. Lo sai, gli dicevo, che catturare le marmotte, scuoiarle e metterle a sgrassare per un paio di giorni nel torrente, sotto un paio di grosse pietre, è illegale? È illegale, rispondeva, ma la marmotta è buonissima, non ha predatori tranne l’aquila e me (non era ancora tornato il lupo, sulle Marittime), non ha il codice a barre e dunque mi costa solo il tempo di cacciarla e cucinarla, e tutti quanti dobbiamo obbedire alle leggi della natura, non a quelle dei tribunali.
I quattro quinti delle cose che hai e che fai, mi diceva, sono del tutto inutili. Questa società è l’impero del superfluo. Vero, gli rispondevo. Ma il Barbaresco che ti ho portato e hai appena bevuto è figlio di una scienza enologica secolare e tecnicamente raffinata, e di rapporti sociali molteplici. A meno che tu sappia come fare il Barbaresco con il grasso di marmotta…
Pascal era una specie di ideologo di un movimento non di massa, ma non così di nicchia (migliaia di persone, quasi tutte giovani) che nei Settanta e soprattutto negli Ottanta del secolo scorso salì sulle Alpi francesi, occupò casamenti militari abbandonati, spesso adottando la pastorizia come mestiere e come pratica di vita. Un ministro socialista illuminato, Chevènement, in qualche modo legalizzò l’abuso, favorendo quella forma ardimentosa di ripopolamento delle montagne. Alcuni dei “neo rurali” fuggivano dalla droga, che fu il principale killer della rivoluzione politica di quegli anni. Altri cercavano alternative radicali all’alienazione della civiltà industriale e della società dei consumi. Tutti, indipendentemente dalla matrice politica o esistenziale, si consideravano una orgogliosa avanguardia. Erano francesi, tedeschi, olandesi, danesi, inglesi, nordeuropei (pochissimi gli italiani), quasi tutti tra i trenta e i quaranta, spesso con figli piccoli.
Pascal è morto da qualche anno, non ancora vecchio, la vita dura e priva di comodità ha un prezzo. Di moglie e figli non ho più notizie. Non ho avuto il tempo di parlare con lui di tante cose. Sarebbe sicuramente diventato novax. Mi sarebbe piaciuto litigare allegramente con lui, e chiedergli se il Covid si previene mangiando carne di marmotta.
Come avrete già capito, se vi racconto di Pascal e dei due bimbi-elfi che mi tirarono una pigna nel bosco, è perché stiamo tutti leggendo, in questi giorni, notizie e commenti a proposito della storia, carica di simboli, carica di domande, dei tre bambini che il tribunale dei minori dell’Aquila ha levato ai genitori Nathan e Catherine (lui inglese, lei australiana) per sottrarli alla vita nei boschi, nei dintorni di Chieti. Vi dirò questo: non mi sento di dire che la decisione del giudice dei minori sia insensata, o gratuitamente violenta. È drastica ma ha una sua ratio. Si rischia di “ledere il diritto alla vita di relazione” di quei tre bambini, dice il giudice. Si mette a repentaglio la loro “integrità fisica”, per via della “assenza di sicurezza statica” del rudere dove quella famiglia abita, in zona sismica. Non sono osservazioni campate in aria. Farle è nelle competenze e nelle facoltà di un tribunale dei minori. E la difficile condizione di istruzione e di educazione “più che privata” di quei tre bambini, affidata ai soli genitori, non consente approvazioni superficiali: la scolarizzazione di massa è un passo di civilizzazione e soprattutto di uguaglianza.
Mi sento però di dire che, fatti i debiti conti, non condivido la decisione di quel tribunale. La considero sbagliata. Adombra, nel profondo, una forma di conformismo sociale, e di conseguente intolleranza verso forme di diversità culturale, e perfino di legittima ribellione, che non abbiamo alcun diritto, come comunità, di raddrizzare con le cattive maniere; né, forse, di raddrizzare tout court. Quando Pascal prendeva in giro la mia way of life stava mettendo in discussione abitudini, usanze, condizionamenti culturali (quelli, per farla breve, della società dei consumi) che non sono al di sopra di ogni sospetto. E anzi, con il passare degli anni sono sempre più criticabili e criticate, e non solo per gli impatti ambientali e climatici, anche per la salute sociale, anche per la serenità degli esseri umani. O possiamo forse presumere che tre bambini che crescono nel bosco, ben nutriti e amati, con i genitori hippies, sono più esposti all’infelicità e al disagio di milioni di bambini “normali” che crescono in famiglie deprivate culturalmente, dove non si legge un libro, si litiga, si vegeta, e l’affettività è affidata, quando va bene, a qualche distratto grugnito?
Esiste un modello unico e inattaccabile della condizione umana, un metro unico e incontestabile del “benessere”, oppure esistono periferie estreme della tribù umana che vanno rispettate, capite, semmai aiutate, certo non represse? Gli indigeni delle foreste amazzoniche meritano riconoscimento e assistenza, gli europei che scappano dalle città e dagli ipermercati per andare a cercare pace e senso nel profondo della natura meritano diffidenza e “correzione”?
Scrivo questi pensieri in una domenica mattina di cristallo, sole e gelo, una luce che incanta. Spero che questa settimana porti consiglio a tutti i protagonisti della vicenda. Spero che i tre giovani elfi siano riconsegnati ai loro genitori, alla loro casa precaria e al bosco, magari con qualche conforto delle istituzioni, che non sgridino: piuttosto diano una mano.
PS – Mi viene in mente che è esistito, e forse esiste ancora, un “Movimento di liberazione dei nani da giardino”, mezzo dadaista mezzo serio, che ruba i nani di gesso dai giardini e li porta (riporta?) nei boschi. Ultima cosa, se no la faccio troppo lunga: Thoreau scrisse in una sgangherata, umilissima capanna Walden ovvero Vita nei boschi, che è un caposaldo della letteratura americana. E anche rileggere Jack London aiuterebbe a capire che cosa ci richiama dentro le foreste. Noi italiani siamo più urbani e meno forastici, ma possiamo sempre migliorare…
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Il mio interesse per il giochino social americano “meglio Melania Trump o Rama Duwaji?” (nella dizione da bar: “meglio la moglie di Trump o la moglie di Mamdani?”) ha sollevato qualche reprimenda, molto garbata, da parte di un paio di lettrici, e tutto sommato un interesse molto limitato da parte dei lettori. Ben mi sta, si vede che l’argomento “maschietti e femminucce”, come nella sciagurata dizione bamboleggiante del ministro Nordio, merita ben altre trattazioni. In ogni modo l’argomento più efficace, a correzione del mio “preferisco Rama”, è quello contenuto nelle due lettere che seguono.
“Anch’io mi sento “banalmente di sinistra”, ma per farmi invitare a cena forse sceglierei Melania. Uscire con persone della mia stessa estrazione politica non mi sembra di interesse. Mi sembra di specchiarmi nei miei stessi pensieri, e dato che quelle idee sono già le mie (e le conosco), non sento il bisogno di farmele ripetere con altra voce. Mi piace ascoltare qualcuno diverso da me. Questo a volte rafforza soltanto le mie idee, ma credo fermamente che in mezzo a quel groviglio di concetti “lontani da me” ci sia comunque qualcosa di buono, qualcosa di valido e condivisibile a cui non avevo mai pensato. Credo fermamente in questi “fleur du mal”, forse perché immagino che, come scrivi tu, la natura viene prima di tutto. Quella base biologica comune non può inimicarci più di tanto (anche se i focolai di guerra dicono il contrario)”.
Stefano Chirico
“Beh, se si trattasse di una cena, secca, preferirei Melania. Intanto per curiosità antropologica, non sono mai entrato nel mondo di Barbie, poi per curiosità della distanza umana che ci divide, anche solo per sondarla, e poi con la speranza che venga senza il cappello a larghe falde, per poter vedere, se capita, un sorriso con gli occhi aperti più della fessura che le si vede nelle foto. Certo la cena con Rama potrebbe essere più intensa; creare magari l’occasione di rincontrarla assieme al marito sarebbe una prospettiva appassionante; ma una cena con Melania Trump non me la farei scappare”.
Paolo
Quanto alla saga dei cachi, ormai alla ribalta da un paio di settimane, alle tante considerazioni sulla bellezza estetica di quell’albero e di quel frutto, e sullo scialo che se ne fa lasciandolo appeso ai rami senza raccoglierlo, si aggiunge il prezioso e sorprendente uso locale che ci racconta questa mail.
“Qui a Castel di Sangro, ma credo un po’ in tutto l’Abruzzo montano, i cachi vengono comprati (o rubati), più che per il loro gusto, per essere utilizzati come vaticinio sulla stagione invernale in arrivo. Da queste parti la riuscita della stagione turistica è direttamente collegata alla neve, quindi si aspetta l’arrivo dei cachi con ansia. Modalità della divinazione: una volta aperto il frutto si preleva il seme al suo interno e lo si apre, così come si fa con un seme di zucca, in modo da ricavarne due metà più o meno ovali. All’interno, quasi sempre visibile su ambo i lati, apparirà una sorta di ‘anima’ più chiara, dalla forma che ricorda le posate che usiamo per mangiare. Se la forma sarà a cucchiaio dovremo aspettarci neve a palate, se sarà a guisa di forchetta sarà una stagione molto mite, se invece avrà le sembianze di un coltello sarà un inverno lungo e rigido, caratterizzato da freddo tagliente. Inutile dire che io la prova la faccio sempre, quando mi capita un cachi tra le mani. Quando poi arriva l’inverno non ricordo mai com’era andata la predizione, ma ti garantisco che la forma ‘a posata’ c’è sempre, chiara e intelligibile”
Duccio (Castel di Sangro)
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Eccoci alle Zanzare, e il primo titolo, segnalato da Michele e tratto dalla Provincia di Como, potrebbe aprire un ampio dibattito politico/religioso, di quelli che non si finisce più di accapigliarsi:
IL MASSO FINITO IN CHIESA:
«È STATO UN MIRACOLO, MESSA DI RINGRAZIAMENTO»
Sotto il titolo una eloquente fotografia mostra la piccola chiesa di Brienno sventrata e quasi sbriciolata da un enorme masso caduto dal monte. Il miracolo starebbe nel fatto che la chiesa, in quel momento, era vuota. Ma ringraziare Dio perché un masso ha distrutto una chiesa, non sarà un eccesso di zelo? Albino e Giuliano mi mandano questo titolo da Repubblica on line. Un caso di crudele accanimento:
TORINO, MALORE DAVANTI AL FAN VILLAGE
SETTANTENNE IN ARRESTO
Forse “cardiaco” non c’entrava per ragioni di spazio. Sul Piccolo Costanza ha trovato conferma della gravità dell’epidemia di aviaria:
MORIA DI UCCELLI MORTI DA GRADO A TRIESTE:
CONFERMATI I CASI DI AVIARIA
Uccelli che, già morti, rimuoiono: le autorità sanitarie si rendono conto della gravità estrema di questo virus? Chiudiamo con un ulteriore allarme sanitario. Vilma ci manda la fotografia di un cartello che, in un negozio rispettabile, promuove cibi decisamente pericolosi:
SPATOLA E FORMINA IN LEGNO
PER BISCOTTI IN ACCIAIO
Fate attenzione: se li comprate, non mangiateli assolutamente, teneteli solo per bellezza.
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Domenica sera sono andato da Fazio per provare ad aggiungere qualche parola alle tante già dette su Ornella Vanoni. Nessuna delle quali triste – anche se la morte è triste per definizione – perché quella signora brillante, spiritosa, talentuosa, e soprattutto irriducibilmente libera, lascia una scia formidabile di vitalità. La coda delle milanesi e dei milanesi che volevano salutarla, di mattina, andava dal Piccolo Teatro quasi fino al Castello Sforzesco. Ieri ho sentito una giornalista della Rai, in un tigì, chiamarlo “il teatro Piccolo” e mi sono detto, classicamente, da vecchio borbottone, “dove andremo a finire”.
Stamattina, lunedì, la luce radiosa del fine settimana è stata sopraffatta da una nuova perturbazione, questa volta dall’Atlantico. A Milano, dove mi trovo adesso, il grigio è un’abitudine e alla fine quasi un vanto. Non stona mai, fa parte della scenografia e forse anche della sceneggiatura. Franco Fortini in una sua poesia definì “dagherrotipica” la luce di Milano. Dunque, per sempre, precedente il technicolor. Quando poi piove il grigio si fa lustro, in qualche sua maniera si illumina. Mi sento fortunato, posso alternare questi marciapiedi consumati dai passi e pieni di gente, rumori, vetrine, ai monti spalancati al cielo ai quali tornerò già questa sera. Adesso vado dal corniciaio e in lavanderia. In alto i cuori.




