Tra Toto Cutugno e il Cielo
Una newsletter di
Tra Toto Cutugno e il Cielo
Michele Serra
Martedì 29 agosto 2023

Tra Toto Cutugno e il Cielo

La sala stampa del teatro Ariston di Sanremo durante l'edizione del 2006 del Festival (FRANCO SILVI/ANSA/COC)
La sala stampa del teatro Ariston di Sanremo durante l'edizione del 2006 del Festival (FRANCO SILVI/ANSA/COC)

La trinità della canzonetta popolare molto andante, molto kitsch, molto da ridere, per noi della sala stampa era ben chiara: i Ricchi e Poveri, Al Bano e Romina, Toto Cutugno (tra i rincalzi faceva spicco Pupo).
La sala stampa di cui vi sto parlando è quella del Festival di Sanremo negli anni Ottanta e Novanta, centinaia di giornalisti musicali e “di costume”, in maggioranza ragazzacci e ragazzacce nati nei Cinquanta e anche prima, tutti boomers e pre-boomers cresciuti a Platters, Presley, Beatles, Dylan, Rolling Stones (e Piaf, Brassens, Brel). Devoti al beat e al rock dei 45 giri, con l’Equipe 84, Patty Pravo e la Berté tra i pochi italiani amati e rispettati; e naturalmente devotissimi ai cantautori, che però con il Festival e con il pop televisivo c’entravano come i cavoli a merenda.
Il suicidio di Luigi Tenco (1967) in una stanza dell’hotel Savoy, in pieno Festival, era sembrata la tragica e definitiva prova che tra l’Arte e Sanremo (come luogo comune dei gusti di massa) non potesse esserci armistizio. Il Festival meritava di essere, per definizione, il regno dei Ricchi e Poveri, di Al Bano e di Toto Cutugno.

Eravamo un poco stronzi? Ripensandoci, forse sì. Gli sghignazzi e gli applausi beffardi che accoglievano l’esibizione di quegli onesti artisti popolari avevano qualcosa di snob, di discriminatorio? Forse sì. C’era già, in quelle allegre gazzarre, traccia dell’implacabile snobismo culturale che lentamente, inesorabilmente costruì un solco di incomprensione tra la Sinistra e il Popolo? Volendo sì, mettiamoci anche questa.
Proprio in quegli anni ruggenti, del resto, Claudio Villa, detto il Reuccio, vero e proprio titano della canzone popolare melodica, voce da tenoretto leggero e umori da romano pesante, venne a cercarmi alla redazione dell’Unità di Milano per menarmi (poi non mi menò, ma è troppo bella per raccontarla in due righe, ve la racconterò meglio a tempo debito).
E dunque in morte di Toto Cutugno mi sono venuti dei pensieri. Sono riemersi dei ricordi. Non dico dei rimorsi (ne ho in altri campi, meno leggeri). Però, ecco, qualche pensiero ce l’ho avuto. Questa bella lettera li ha alimentati.

“Caro Serra,
sapevo quasi a memoria L’italiano ancor prima di mettere piede in Italia: per dire quanto Toto Cutugno fosse famoso. Toto Cutugno fa parte di quella schiera di personaggi di cui si sente con forza la presenza solo al momento dell’annuncio della loro dipartita. È come se la loro assenza finalmente svelasse il loro talento, mondandolo in qualche modo dalla loro ingombrante figura. Per quanto Toto Cutugno sia stato baciato dal successo, il personaggio veniva sempre accolto con una certa freddezza. Non gli venivano certo lesinati gli applausi ma mai la standing ovation. Non era accettato ma, come si direbbe oggi, solo tollerato. I tributi in suo onore erano sempre con riserva. Nonostante il successo mondiale non è mai assurto allo status di star, forse nemmeno a quello di vip. Spesso in vetta alle classifiche con la sua arte, ma come persona non ha mai raggiunto l’apice del gradimento […]
Grandissimo talento ma dolente. L’oro gli era precluso per destino. Le sue medaglie erano tutte d’argento. Perché lui in fondo era un vero italiano: una specie di media sociologica di tutti i tipi di italiano. Medietà che spesso veniva erroneamente scambiata per mediocrità, laddove invece era solo semplicità. Quella particolare semplicità che è prerogativa solo dei grandi per davvero. Coloro che, nonostante gli allori conquistati in mezzo mondo, non sanno o non vogliono smettere i panni del frequentatore assiduo dei dopolavoro. Snobbato dall’intellighenzia italiana e osannato all’estero. Ecco, si potrebbe dire che Cutugno era un provinciale di successo. Anche all’estero. Dove appunto gli italiani sono visti come una sorta di provincialotti d’Europa. Era complice anche quella fisionomia da nordafricano, che ha finito per incarnare tutti i cliché che caratterizzano ‘l’italiano’. Il caso singolare di Cutugno è che pure in patria era visto con lo stesso sguardo con cui si guarda l’italiano all’estero. Con l’aggravante dell’effetto specchio da cui i suoi compaesani rifuggono. Cutugno di tutto questo sembrava cosciente, e forse anche da questa consapevolezza derivava quell’espressione sempre corrucciata, con ‘gli occhi dolci di malinconia’. Ciononostante rivendicava con orgoglio la sua italianità: sono un italiano, un italiano vero. Forse è anche per questo che ne scrivo. Perché un po’ mi ricorda i tanti ‘nuovi italiani’ e la loro sofferta italianità”.
Mohamed Malih

Caro Mohamed, grazie per la sua commemorazione così insolita e così sentita. Non avevo mai pensato che l’aspetto “nordafricano” di Cutugno potesse avere condizionato la sua storia artistica, facendone in qualche maniera una specie di migrante in casa propria (condizione che, del resto, fu condivisa da milioni di italiani del Sud negli anni del boom industriale). Né avevo mai pensato che la sua canzone più famosa, L’italiano, potesse diventare, letta con altri occhi – per esempio quelli di un “nuovo italiano” quale presumo lei sia – la rivendicazione di una italianità “sofferta” perché non abbastanza riconosciuta.
Sarei però ipocrita (nelle commemorazioni si rischia sempre di esserlo) se non aggiungessi a questa sua interpretazione di Cutugno l’idea, ingombrante ma ineludibile, che il problema della qualità pesi, nell’arte, anche quando, come nelle canzonette, la “semplicità” è un pregio. Già ne parlammo, proprio in questa newsletter, a proposito di Al Bano, venerato maestro della canzonetta a gola spiegata che però probabilmente non figura in alcuna delle playlist dei miei lettori (comunque non nella mia). Non per discriminazione e tanto meno per antipatia. Ma perché esistono gli ambiti, esistono i livelli, esistono le differenti ambizioni e i differenti esiti, i differenti pubblici e le differenti aspettative. E chi di mestiere fa critica (sia pure la critica volatile e distratta dei giornali) ha il dovere di non dimenticarlo mai.
Se ascolto Nick Cave e non ascolto Cutugno, se ascolto Fossati e non ascolto Al Bano, non credo sia per snobismo. Tanto meno perché non amo la “semplicità”, che, ha ragione Mohamed, è un pregio. È che le mie orecchie, nel tempo, canzone dopo canzone, mi hanno portato qualche passo più in là rispetto al punto di partenza, al motivetto, alla frase musicale risaputa. Se a otto anni avessi ascoltato Nick Cave, mi avrebbe fatto schifo: mi piacevano Marcellino pane e vino e la sigla di Topo Gigio. Ora, viceversa, preferisco ascoltare Nick Cave: perché l’orecchio, insieme a tutto il corpo, cresce e impara tante cose.

Senza arrivare a Schoenberg (che, come Al Bano, non credo faccia parte delle playlist dei miei lettori), e dunque senza presumere che la musica e l’arte debbano essere densità intellettuale allo stato puro, io canticchio altre cose. Che sono sempre pop, sempre di massa, sempre disponibili a quasi qualunque orecchio, sempre soggette al ricatto sentimentale della melodia. Ma mi sembrano un poco meno piatte, un poco meno déjà entendu, un poco meno “già fatte” dei tre o quattro giri armonici ormai consumati dai secoli.
E dunque: onore alla memoria di Toto Cutugno, artista del popolo, italiano di successo nel mondo. (Aggiungo, a proposito di semplicità, che “buongiorno Italia, buongiorno Maria” mi è sempre sembrato un verso genialmente sintetico). Ma un grato riconoscimento anche alla sala stampa di Sanremo, nella quale, al netto delle gazzarre anti-melodiche alle quali presi parte, ebbi la conferma che La vie en rose è meglio di Felicità, e Tom Waits piuttosto diverso da Pupo.

*****

Adesso tenetevi forte. Irrompe in questa newsletter, già gravata da argomenti di un certo peso (sperando che peso non sia sinonimo di pesantezza) il più complicato dei temi, il più etereo e sfuggente tra i dibattiti. Colpa di Luca, merito di Luca, la cui lettera dice così:

“Gentile Michele Serra,
ho deciso di scriverle dopo aver letto questa sua considerazione: L’idea che il buon Dio non esista, oppure non sia per nulla bendisposto nei confronti dell’uomo, e che dunque spetti a noi essere all’altezza del cambiamento (climatico e non), per ora sfiora solamente piccole avanguardie. Da credente, provo a esprimerle brevemente il mio punto di vista in merito. Credo che fede e scienza non siano necessariamente in contrasto tra di loro. La Bibbia dedica solamente un paio di capitoli alla creazione, senza scendere troppo nei dettagli. Sono però sorti nel corso dei secoli i soliti estremismi: alcuni che interpretano ciò che è scritto sulla creazione in modo esclusivamente letterale, altri che utilizzano la scienza per dimostrare che la Bibbia ha torto e/o la non-esistenza di Dio. Personalmente, vedo la scienza come un bellissimo modo per scoprire la bellezza e la perfezione di quanto Dio ha creato e messo a nostra disposizione […]
Fatta questa premessa, se come società credessimo davvero in Dio, questo ci spingerebbe spontaneamente a rispettare maggiormente l’ambiente e ad essere più responsabili nei suoi confronti. Sempre nei primi capitoli di Genesi, vediamo infatti che l’uomo ha ricevuto, insieme al privilegio di godere del giardino di Eden, anche la responsabilità di curarlo e amministrarlo al meglio, compito in cui abbiamo evidentemente fallito (e continuiamo a fallire). È quindi possibile credere che Dio esista e sia anche ben disposto nei nostri confronti, senza tuttavia deresponsabilizzarci e aspettarci che sia lui a risolvere con uno schiocco di dita i problemi che con la nostra arroganza e mancanza di lungimiranza abbiamo creato. Se solo fossimo un po’ più umili e consapevoli dei nostri limiti, potremmo piuttosto cercare e trovare in lui la saggezza e l’intelligenza necessarie per poter davvero cambiare rotta (anche nel campo dell’agricoltura, che personalmente amo, essendo orgogliosamente figlio di un trattorista). Spero con queste poche righe di non averla fatta addormentare in questa torrida (o neroniana?) settimana di agosto”.
Luca (1991)

Caro Luca, che hai l’età dei miei figli, il boomer miscredente accetta volentieri il confronto con il giovane credente, anche se corriamo entrambi quel rischio di vaghezza e di magniloquenza che è insito in questo genere di discorsi.
Provo a farla semplice. Il mio pensiero, sintetizzato qui nel format “amici al bar”, è che se Dio esiste non ha molto a che fare con quello storicizzato dalle varie religioni. Le religioni e i Libri sono un prodotto della storia umana, con tutti i suoi limiti territoriali. Sono diventato miscredente a quattordici anni quando mi sono reso conto che, a seconda del luogo dove fossi nato, sarei stato musulmano, buddista, cristiano (in una delle sue tante declinazioni, molto disposte a scannarsi l’una con l’altra), scintoista, animista, eccetera. Mi dissi: tanto vale considerare le religioni come un fatto culturale, certo non trascendente. Ed è quello che penso tutt’ora. Non esiste Verità Rivelata, non esiste Parola di Dio, e chi se ne arroga il copyright inganna se stesso e gli altri. E ostacola la crescita psicologica e culturale dell’umanità. La parola, minuscola, è sempre e solo dell’uomo.
Detto questo, il tuo pensiero si accompagna bene a quello di papa Francesco e della sua enciclica Laudato si’ (Francesco è francescano, e non era scontato che un Papa lo fosse). Dobbiamo essere responsabili di ciò che ci è stato donato, e fin qui non lo siamo stati. Dobbiamo costruire una vera cultura del limite, e fin qui non lo abbiamo fatto. Dobbiamo avere una visione olistica (tutto è in relazione) della vita sulla Terra, uscendo dal vecchio antropocentrismo.

Ma è un pensiero, questo, che vale anche per gli atei, e forse a maggior ragione: la vita è una sola, la Terra una sola (anche se Musk sta progettando Terra Due, come fece Berlusconi con Milano Due). Non ci saranno seconde occasioni, risarcimenti o salvazioni oltre la nostra morte fisica. Mi butto, lo dico: credere nella vita eterna è la più grande effrazione che possiamo fare alla “cultura del limite”. Il primo limite con il quale ci tocca fare i conti è la nostra fine. Il mito della vita eterna è stato costruito dall’uomo per rimediare all’idea, terribile, della morte. Cresceremo (diventeremo sul serio umani) quando accetteremo di morire. Saremo capaci di costruire una vera cultura del limite solo quando vivremo nella piena coscienza della nostra finitezza.
Questo penso, caro Luca ’91, e adesso mi guardo bene dal rileggere quello che ho appena scritto perché ci troverei tante di quelle falle, e di quelle approssimazioni, che cancellerei quasi tutto. Per giunta (segno divino?) sta cominciando a piovere forte, dopo un mese di siccità implacabile, e tutto qui attorno ricomincia a vivere e a respirare.

*****

Per farmi perdonare l’eccesso di serietà dei precedenti paragrafi, chiudo con l’ultimo techetechetè di agosto. È una “satira preventiva” del 2020. L’argomento è, in un certo senso, ancora religioso: il metaverso.

Mark Zuckerberg sta mettendo a punto la strategia del metaverso, e successive evoluzioni. “Le relazioni umane sono il nostro scopo – ha detto a Johanna Sbrendall, conduttrice del popolarissimo Johanna Sbrendall Show – e faremo di tutto per renderle migliori, più intense e più credibili. Io per esempio non vedo nessuno da dodici anni, ma conto al più presto, grazie agli sviluppi del metaverso, di ristabilire contatti con gli altri. Grazie al metaverso avremo l’impressione di stringere una mano, fare una passeggiata con il cane, fare due chiacchiere con il benzinaio. Non è straordinario?”. “Ma per ristabilire contatti umani, non sarebbe più semplice uscire di casa?”, ha replicato la Sbrendall, molto apprezzata dal pubblico americano per la sagacia delle sue domande. “Sì, sarebbe più semplice – ha risposto Zuckerberg – ma io poi come guadagno?”.

Il metaverso – Permette di inviare un proprio avatar alle riunioni di Ultima Generazione. Per esempio, una riunione aziendale per stabilire il prezzo dei fermagli da cartoleria, potrà svolgersi in un’atmosfera immersiva, una nuova dimensione sensoriale. Si tratterà sempre di una riunione sul prezzo dei fermagli da cartoleria, ma dal punto di vista esperienziale il salto di qualità sarà formidabile. Quando il ragioniere (accounting chief manager) dirà “sedici centesimi mi sembrano troppi, fisserei il prezzo a quattordici, massimo quindici”, tutti i partecipanti potranno, in tempo reale, vedere un fermaglio fluttuare al centro della stanza (virtual meeting room), circondato dai diversi prezzi possibili. Un oggetto apparentemente banale, nella sua veste avatar, assumerà una nuova, eccitante dimensione: sembrerà sempre un fermaglio da cartoleria, però rinato. “Il mondo intero – spiega Martho Loomswald, uno degli art director del metaverso – potrà riconsiderare il suo rapporto non solamente con i fermagli da cartoleria, ma anche con tutto il resto”.

Metasound – Il metasound è una delle più affascinanti applicazioni del metaverso. Anche se siete orribilmente stonati, il vostro avatar, con un semplice rewarding dello smitz, senza alcun rischio di overwooping (basta ricordarsi di waxare solo dopo avere sconnesso il foom) sarà intonatissimo, e potrete cantare qualunque genere musicale avendo l’impressione di essere proprio voi a farlo. Lo stesso Zuckerberg, con lo pseudonimo di Zuckerberg Fornaciari, interpreterà, per il lancio della nuova applicazione, un disco blues.

Metabosco – Meraviglia del metabosco! Alberi fronzuti di diverse specie, uccellini che volano, insetti che galleggiano nell’aria profumata, i colori che cambiano di stagione in stagione. Identico a un bosco normale, il metabosco sarà visitabile da casa propria, immersi in uno scafandro pieno di una soluzione di cristalli liquidi, con un respiratore artificiale e occhiali speciali al litio, ogni settimana al prezzo di soli due dollari a visita.

Metasesso – È la frontiera più affascinante. Acquistando un po’ di giga in più, con modico sovrapprezzo, non solo il proprio avatar può dotarsi di organi sessuali supplementari, femminili e maschili, ma potrà pronunciare frasi oscene in tutte le lingue conosciute, con forte incremento dell’eccitazione. Nell’attuale, delicata fase della sperimentazione, si sta cercando il modo di trasmettere l’esperienza del piacere dall’avatar all’utente che lo ha creato, ma il sindacato degli avatar non sembra disposto a collaborare. Problemi anche per la regolamentazione dei comportamenti metasessuali: un avatar è stato arrestato dalla polizia postale mentre importunava i passanti seduto su una metapanchina del Central Park virtuale, mostrando un fallo fluorescente di ottantacinque centimetri. Si è giustificato dicendo che il suo autore aveva caricato troppi giga: un banale errore tecnico, dunque, che troverà sicuramente rimedio grazie alla nuova policy aziendale di Facebook.