Rifarsi una famiglia
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Rifarsi una famiglia
Michele Serra
Martedì 28 febbraio 2023

Rifarsi una famiglia

Una famiglia nuova e contemporanea, ma in cui qualcuno faccia il risotto al posto del ristorante (Alexander Hassenstein/Getty Images)
Una famiglia nuova e contemporanea, ma in cui qualcuno faccia il risotto al posto del ristorante (Alexander Hassenstein/Getty Images)

Milano, primi anni Ottanta del secolo scorso. Sera d’estate. Siamo in una casa di ringhiera in pieno centro, in via Bergamini, a due passi dall’Università Statale. Palazzo ancora non ristrutturato (tutte le case di ringhiera sono poi state “gentrificate”, come si dice: risanate, rifatte, e il prezzo a metro quadro è triplicato) e dunque la composizione sociale degli abitanti è ancora popolare, o semi-popolare. Studenti in coabitazione, coppie di anziani, famiglie con bambini, negozianti e artigiani con bottega vicino a casa – parlo degli anni in cui c’era un elettrauto ogni duecento metri, le auto si mettevano in moto una volta sì, una volta no. Io conoscevo tutti gli elettrauto di Milano. Quasi personalmente.

Una casa di ringhiera è la cosa più simile a un teatro all’italiana che si sia mai vista, a parte i teatri all’italiana. C’è un cortile quadrato al centro, e su tre lati, a volte tutti e quattro, i ballatoi dove la gente si affaccia. Si affaccia, in via Bergamini, anche un cameriere del prestigioso ristorante Savini, in pensione da qualche anno. È un vecchio signore magro, elegante, gay secondo canoni antichi, parla come la Mabilia dei Legnanesi, con una cadenza meneghina invincibile, stratificata nei secoli. Si affaccia e grida, modulando con grazia canora, ma con una certa solennità:

«È PRONTO IL RISOTTOOOOO…».

I quattro piani prendono vita. Chi con un piatto, chi con un recipiente, chi con una bottiglia in mano, si va da quel numinoso dispensatore di vita a prelevare la propria parte da un pentolone enorme, a occhio più grande del bilocale dal quale è appena uscito, fumante. Si stappano bottiglie, si chiacchiera, qualcuno mangia in compagnia, qualcuno torna a casa sua. Non abitavo lì, ero ospite del mio amico Guido, che non c’è più. Mi disse che il risotto collettivo era un rito con cadenza settimanale – sempre che la Mabilia fosse in buona salute e di buon umore.

Perché vi ho raccontato questa storia? Intanto perché è bella. Allegra, conviviale. E volevo condividere con voi quel remoto profumo di cipolla soffritta, di burro mantecato e di zafferano che invade un intero caseggiato. Trasformandolo, almeno per una sera, in una famiglia molto, molto allargata. Poi perché mi sembra che abbiamo parlato di lavoro, fin qui, e di come cambia la percezione individuale del lavoro con il passare dei decenni, trascurando, o sottintendendo, il teatro del nostro discorso. I posti in cui viviamo. Come sono fatte le famiglie. I rapporti tra le persone. Perché non è cambiato solo il lavoro. È cambiata la nostra maniera di stare al mondo.
Anche qui, per carità: nessuna idealizzazione di “come eravamo”. Voglio dire: magari in via Bergamini, dopo il risotto, si prendevano a forchettate inseguendosi lungo i ballatoi. E ridiscendendo giù giù nel tempo passato fino alle mitiche famiglie contadine, decine di persone e tre o quattro generazioni sotto lo stesso tetto, non è difficile immaginare le prepotenze e le umiliazioni che le regolavano. Padre padrone – il libro e il film – dicono quanto la nostra idea di libertà individuale discenda dalla rottura netta, irriducibile, con molti di quei vincoli e di quelle soggezioni. Io sono mia, io sono mio. Bene, ci voleva, almeno questo l’abbiamo conquistato.

E però, grosso modo, l’idea che adesso si viva, nel bene e nel male, “più da soli”, in famiglie sempre più piccole, con un aumento impetuoso dei single, non è solo un’idea. È un dato Istat del 2022. I single, in Italia, sono ormai un terzo del totale dei nuclei familiari – e “famiglia di una sola persona”, faccio notare, suona come un ossimoro. Per la prima volta il loro numero ha superato quello delle coppie con figli, la famiglia classica, anche lei parecchio ridotta nel numero dei componenti.

Sempre grosso modo, e rimandando ogni volontà di approfondimento a fior di trattati di sociologia e ai faldoni dell’Istat, il passaggio, in un paio di generazioni e con una netta accelerazione negli ultimi anni, è stato da case affollate, da famiglie-comunità, appesantite dalla promiscuità ma avvantaggiate dalla mutualità, a vite molto più appartate, ben difese da intromissioni e impicci – più libere, insomma. Però molto più esposte alla solitudine.

In molte delle vostre lettere, specie quelle delle donne, soprattutto quelle delle giovani madri, questa nuova fragilità – questa nuova solitudine – fa spicco. Non più affollamenti di persone, però affollamenti di “doveri”, di scadenze, di fatiche, che gravano tutti interi su una sola agenda, al massimo su due: single e famiglie mononucleari molto ristrette sono la stragrande maggioranza. Così che il lavoro e il “resto della vita” si contendono l’energia e il tempo di una sola persona, che spesso è anche una persona sola. Al massimo due. E il lavoro ne esce inevitabilmente più ingombrante, direi più antipatico. Più capace di usurpare “il resto della vita”.
Se molte delle incombenze e dei problemi quotidiani da affrontare hanno perduto ogni possibile soluzione “di gruppo”, nonché gratuita (il cortile con i bambini badati dai vecchi è l’esempio paradigmatico; il risotto condominiale, lo avrete capito, è solo un riferimento mitologico, anche se accadeva per davvero), allora l’alternativa tra “lavorare” e “vivere” si drammatizza. Si radicalizza. O puoi comprarti la libertà e l’autonomia, pagando babysitter, nido, pagando TUTTO – ovviamente anche il risotto e il tempo che occorre per cucinarlo – oppure l’ansia di non farcela prende il sopravvento. E il tempo ti sembra corto come il tuo fiato.

Il single, si sa, è il Cliente Perfetto, il cittadino ideale della Repubblica dei Consumi: non potendo condividere alcunché deve comperare tutto, per questo nei supermercati proliferano, come una Lilliput incellofanata, la porzioncina, la fettina, l’insalatina in bustina, tutto “ina”. Ma – accetto scommesse – il single è anche il più grande consumatore di ansiolitici, o forse si contende il primato con le madri di famiglia stressate.

Questo era per dire che se mai riuscissimo a inventarci, un bel giorno, nuove forme di socialità, di comunità, di condivisione delle fatiche, infine nuove forme di famiglia, in luoghi e modi meno promiscui e opprimenti che in passato, ma fatti per condividere certi pesi, per affrontare certe prove insieme, magari il conflitto tra lavoro e vita perderebbe almeno alcuni dei suoi spigoli.
In quanto boomer di almeno una cosa mi sento in colpa, ma sul serio: avere accettato che tutto diventasse soldi, anche il risotto, e avere fatto troppo poco per cercare di impedirlo.

*****

Chissà se la vittoria di Elly Schlein c’entra qualcosa, o meglio c’entra ancora qualcosa, con la speranza di una nuova socialità. Ovvero: chissà se la politica c’entra ancora qualcosa con le nostre vite quotidiane e soprattutto con il famoso futuro, che da qualche parte sarà pure andato a cacciarsi, e dovrà pure sbucare fuori, prima o poi.
Da un po’ di tempo se ne era persa quasi ogni traccia, del nesso tra politica e vita. Io sono andato a votare alle primarie e ho votato per lei, lo dico contando sulla comprensione di chi non ci crede più e sulla sopportazione di chi la pensa diversamente. La cosa più stupida da dire è anche la cosa più vera: “è una ragazza”. È una ragazza, e mentre faceva il suo discorso di insediamento e i pixel del mio computer componevano il suo viso ancora intatto, un sorriso contagioso, io che sono vecchio pensavo: com’è giovane! Accidenti, come è giovane! Per adesso, su di lei, è tutto quanto ho da dirvi. E guardate, non è poco.

*****

Anche questa settimana, me ne rendo conto, Ok Boomer! parla dei massimi sistemi. Ma è anche colpa vostra e delle vostre lettere: se mi prendete sul serio, il rischio è che mi prenda troppo sul serio anche io. Prometto dunque, per rimediare a questa incresciosa autorevolezza, di occuparmi, nel futuro prossimo, anche dei minimi sistemi. Nel frattempo, subissato dalle mail (grazie! grazie!) bisogna che ci diamo qualche regola di ingaggio. Forse ne basta una sola: nessuno si offenda se non riesco sempre a rispondere a tutti, me ne manca il tempo materiale (a proposito di lavoro). Una risposta è una cosa seria, è brutto cavarsela con due righe formali tipo “la ringrazio della sua lettera, mi ha fatto tanto piacere leggerla”, segue firma. È anche per questa ragione che non sono nei social: se fossi Lady Gaga mi sentirei in dovere di rispondere personalmente a ognuno dei 140 milioni di follower che ha su Twitter e Instagram. I social sono un’impresa superiore alle mie forze.

E ora, qui di seguito, un’altra sventagliata delle vostre lettere (da me selezionate e ridotte) sul lavoro, sulla vita e su tante altre cose.

MARZIA, 62 ANNI
“Ho passato gran parte della mia infanzia in campagna dai nonni, in Friuli, e sia loro che i miei genitori hanno trasmesso a me e a mio fratello quella che chiamiamo fra noi la metafisica del lavoro. Bisogna lavorare e lavorare bene, tutta la vita, così alla sera potrai fare un bilancio della giornata che sarà positivo e dormire il sonno dei giusti. Tutto bene dunque? Eh no, perché abbiamo identificato il nostro Io sociale nel lavoro e ora che mi hanno licenziato a cinque anni dalla pensione, con scarsissime possibilità di reintegro in qualche azienda e/o agenzia, mi trovo nuda, senza corazza e senza certezze. Fanno bene i ragazzi a cercare di dare al lavoro il giusto peso e contemporaneamente cercare di crescere e di sviluppare altri interessi. Li aiuterà a fare meglio anche il lavoro senza esserne assoggettati. Liberi dal dovere potranno dare un grande contributo alla stessa società perché, mi auguro per loro, avranno uno sguardo sicuramente più ampio su tutto ciò che compone la vita, sociale e personale”.

ANDREA, 42 ANNI
“Sono millennial per un pelo, visto che sono nato nel 1981. Laureato in architettura ho sviluppato per anni la fotografia fino a riuscire a farne una professione. Porto avanti questi due lavori, ci provo. Ho lavorato per 14 anni in un grosso studio di architettura, arrivando alla saturazione e alla nausea. Non c’era futuro, per noi povere false partita iva. E poi c’è sempre stata la fotografia a consolarmi, lavori a volte sottopagati che però mi rendevano felice. Poi il covid. Ho mollato lo studio di architettura e ora lavoro da solo. Lavoro non senza stress, gestendo meglio il mio tempo, regalandomi delle mezze giornate libere.
Ora una delle cose che più mi rendono felice è tornare a casa e rallentare.
Accendere la musica, sfogliare un libro, preparare con calma la cena e attendere la mia compagna. Com’è possibile che non mi interessi più lavorare come un mulo, fare le notti per le consegne ma attendere il weekend per andare a vedere il mare? Com’è possibile questo divario tra quello che facevano i miei genitori e la consapevolezza che io non voglio arrivare alla pensione per dovermi solo annoiare e magari ammalarmi? Non è meglio vivere la vita adesso, scegliendo di avere meno, ma essendo più felici?”

MARTINA, 33 ANNI
“Ho 33 anni e una bimba di 3 mesi, mi sono ritrovata molto nelle parole di Caterina. Ma non voglio elencare l’ennesima sfilza di lamentele della donna-mamma-eroina. Voglio dire che ho l’impressione di affrontare la maternità da donna solo in apparenza “risolta” in termini di parità, indipendenza, autodeterminazione, così come Dio Femminismo comanda. E forse neanche in apparenza. Perché la maternità scoperchia un abisso molto più profondo di quello superato dall’aver preso due lauree e guadagnare più del proprio compagno. Noi donne millennial, come è stato detto, siamo a metà strada tra il ‘dire’ di sentirci al posto giusto della donna, e il ‘fare’ dell’esserci veramente e solidamente, al posto giusto. Sono tanto stanca e afflitta da quello spauracchio che è il rientro al lavoro, impaurita dall’ignoto che mi aspetta e dal rischio di annientare me stessa, la mia ‘ME prima di lei’ che forse tante mamme boomer non conoscono. Ora però ho qualcosa di nuovo per cui lottare (o sperare): vedere come sarà il mondo delle donne quando mia figlia sarà donna, e provare a dotarla di tutti gli strumenti possibili, anche crearli se necessario, affinché lei possa passare definitivamente a quel ‘fare’ che forse io non farò in tempo a raggiungere. Viva le barche che volano”.

NICO, 26 ANNI
“Ho fatto l’istituto tecnico, che mi avrebbe permesso di lavorare subito senza grossi problemi in un’azienda metalmeccanica, oppure una facoltà di ingegneria. Alla fine ho scelto di tenermi il mio diploma e andare in fabbrica, perché da buon provinciale l’idea con cui ci hanno educato è stata lavorare e fare soldi, farli soprattutto in maniera costante nel tempo. Posto fisso alla Checco Zalone, per intendersi. Cosa fai è secondario, fallo bene e onestamente. Dopo nemmeno tre anni ho dovuto smettere, mi sentivo chiuso in gabbia, così in nome della libertà ho aperto un’azienda agricola”.
“Da sempre sono un gran lettore, da un paio di anni anche fruitore di podcast (sono diventati una sorta di droga che assumo regolarmente nella solitudine del mio lavoro). Mi piace informarmi, adoro la musica e la storia, seguo costantemente l’attualità e la cronaca, così ho pensato: ‘Ma se provassi a diventare giornalista?’. Per adesso continuo a lavorare la terra (poche soddisfazioni e pochi soldi, in compenso tanta libertà) e nel tempo libero scrivo per una testata sportiva online, la quale fondamentalmente mi sfrutta, ma perlomeno mi sta dando l’opportunità di imparare a scrivere, e farlo con regolarità. Mi manca la laurea, è importante. Sto pensando di prenderla online, ma quando avrò finito una triennale avrò quasi 30 anni”.
“La paura vera è quella di pagare cari gli errori di inizio percorso, il disinteresse dell’adolescenza. Non vedo un domani chiaro, se guardo più lontano intravedo il lavoro nei campi, ma è solo il mezzo per permettersi sigarette e viaggi, non ciò che vorrei fare. Quando è che diventa troppo tardi? Quando non siamo più giovani, ed è troppo tardi per intraprendere una strada in particolare? Chi mi restituirà il tempo che sto spendendo, probabilmente invano, per provare a fare un lavoro che possa darmi una minima soddisfazione? Non voglio una risposta a nessuna di queste domande. Mi sono sfogato e adesso sono più leggero, domani sarà un altro giorno”.

ALESSANDRA, 55 ANNI
“Ho 55 anni, sono traduttrice (non di libri, purtroppo) da 25 anni. Mi piace lavorare con le parole, mi piace trovare la frase più giusta per esprimere quel concetto. Ho avuto il lavoro che volevo da ragazza, mi sono ostinata finché non ci sono riuscita. Mi piace il mio lavoro, ma se potessi lo lascerei domani. Le soddisfazioni le ho avute, tante, ora avrei altre cose da fare. Sto seduta al computer per 10 o 12 ore a seconda dei giorni (spesso manco due ore per andare da mia madre) e penso che la vita è fatta di tante altre cose e che i fine settimana non bastano”.
“Mi dicono spesso che il lavoro autonomo è bellissimo perché ti puoi organizzare, ma alla fine resti incastrata in un ritmo che non hai scelto, le cose da fare sono tante, le tasse anche (odio chi si lamenta delle tasse, soprattutto perché spesso non le paga). Lavorando meno ore, con un marito che fa l’operatore sociosanitario e i prezzi che aumentano in continuazione, i soldi sarebbero insufficienti, quindi finisci per essere schiava di questo meccanismo, nonostante l’apparente libertà. Ho tanti cugini e affetti in giro per l’Italia, mi piace cucinare, mi piace leggere, camminare, andare al cinema. Vorrei dedicarmi alle cose e alle persone che amo. Il tempo della bellezza e della dignità del lavoro, e del fare le cose al meglio, l’ho ampiamente superato. O forse vorrei fare al meglio altre cose, altra vita”.

ALESSANDRO, MILLENNIAL
“Proprio pochi giorni prima dell’arrivo della tua newsletter discutevo con i miei genitori (boomer) e mio fratello (millennial come me) della concezione del lavoro. Mio fratello è abbastanza estremo e parla di “schiavitù del lavoro”, io sono un po’ meno duro e dico che ok, il mio lavoro mi piace, ma se avessi la possibilità di non farlo non lo farei, e farei tante altre cose che mi piacciono sicuramente di più. Sogno di essere in pensione per dedicarmi ad altro. I miei genitori sono molto stupiti di questo nostro rapporto col lavoro, dicono che ‘ai tempi loro’ non era proprio pensabile un approccio del genere, loro pensavano solo a lavorare, non era un peso. Una possibile spiegazione è che quando avevano la nostra età non c’erano tantissimi svaghi o mille cose da fare come oggi, e che quindi la vita era il lavoro. Non so se mi convince”.

CHIARA, 35 ANNI
“Non so se segue Stefania Andreoli, psicoterapeuta che fa divulgazione su Instagram. Ecco, lei alle madri con l’ansia per questioni inerenti ai figli ormai cresciuti consiglia di andare a giocare a padel. Ho 35 anni, un figlio di due anni e un percorso simile a quello descritto dai coetanei che le hanno scritto prima di me (lavoro figo in una multinazionale, mollato per vivere, sostanzialmente). Una cosa mi sono ripromessa, non caricare mio figlio del peso delle mie aspettative. Spero di farcela, nel frattempo mi sono iscritta ad un gruppo di lettura, mio figlio con il papà si diverte tantissimo e pazienza se ha cenato con pane e prosciutto”.

DARIO, 45 ANNI
“Sono Dario, classe 1978, ingegnere, ferroviere. Mi lamento periodicamente di tante cose, degli orari, dei soldi che sono pochi, delle responsabilità, della politica che inquina ambiente, lavoro e carriere, ma quando ne ho avuta la possibilità non sono mai riuscito a cambiare lavoro, anche se offerto da aziende grandi e prestigiose con offerte economiche migliori. C’è nel mio subconscio, e lo sto capendo solo ora, l’illusione dell’utilità di quello che si fa. Da noi ci sono un paio di detti che sono molto facilmente applicabili al pubblico. Uno di questi è ‘Chi fraveca e sfraveca non perde mai tempo’, che fa sentire anche sonoramente il fare e il disfare di cui parla, che avvelena le giornate di qualsiasi funzionario di aziende pubbliche. Forse la ‘salvazione’ sta nel lavorare per il bene Pubblico. Per far andare in giro persone in sicurezza, nonostante tutte le difficoltà, i sabotaggi, l’ottusità della politica, i soldi che non arrivano o che vengono sperperati”.

GIOVANNI, 61 ANNI
“Mi faccio una domanda: perché tutti (head-hunter, sociologi, giornalisti, gestori di risorse umane) fingono di dimenticare il problema di quanto viene pagato il lavoro? È circolato in questi mesi un grafico che ci mette all’ultimo posto della crescita dei salari in Europa: sarà perché non ci pagano che ci disamoriamo.
Sono boomer, innamorato del mio lavoro e pagato molto bene: quante persone possono dire lo stesso? E se non ti pagano perché dovresti lavorare, e lavorare bene? In fin dei conti ognuno di noi vende la propria capacità, qualsiasi cosa sappia fare: perché farlo gratis o quasi? Ho letto qualche giorno fa un report su LinkedIn relativo a lavoro e stipendi. Una executive assistant può arrivare a prendere 60mila euro lordi all’anno, un tornitore con almeno 10 anni di esperienza 55: perché quindi ci sono più segretarie che tornitori?”

UMBERTO, MILLENNIAL
“Grazie per aver pubblicato le risposte dei lettori, ho trovato molto interessante il dialogo che si è instaurato. Citando Caterina, ‘la ringrazio per l’opportunità di questa riflessione, vale una seduta dall’analista’. Sul tema da lei proposto delle paure, temo di non poter fare a meno di rivolgere un rimprovero ai (miei) genitori. Mi pare di vedere emergere le paure della mia generazione – intese come paure collettive e non individuali – dalle lettere di alcuni lettori, e penso che potrebbero essere riassunte in un generale senso di timore e spaesamento verso un futuro che i modelli climatici e sociali ci dicono peggiorerà nel medio termine (quello della nostra vita di millennial), qualunque cosa facciamo. Per quanto bravi saremo come specie umana, o anche solo come italiani, il clima continuerà a peggiorare nei prossimi anni (vedi meme di Homer Simpson e sue riedizioni in chiave siccità o calore) e al contempo saremo schiacciati dal peso dell’invecchiamento della società (modello pensionistico ingestibile, peso politico degli anziani numericamente insormontabile…), per dirne giusto due. Non presento questi dati con rassegnazione: faccio attivismo, mi impegno nel mio piccolo ambito per cercare di cambiare le cose, dentro di me e attorno a me, e lo faccio con ottimismo e con la coscienza che sia la cosa giusta da fare, ma al contempo con la consapevolezza realistica che probabilmente io non vedrò il frutto di nessuna mia battaglia, forse i miei nipoti. Allo stesso tempo, comprendo le persone che si sentono schiacciate da questa realtà plumbea e non trovano il modo di reagire, rifugiandosi chi nel cinismo apatico, chi nell’edonismo, chi in altro ancora. Quello che invece non capisco è la convinzione di mio padre, una persona intelligente, buona e piuttosto colta, che ancora afferma che “viviamo nel migliore dei mondi possibili”, nonostante il miglior mondo possibile ci stia dicendo in tutti i modi che non sta proprio benissimo. Forse noi figli non siamo in grado di capire le paure e le ansie proiettate dai genitori, ma ho l’impressione che una fetta dei genitori (o quantomeno, i miei, che sono quelli che conosco meglio) non riesca a visualizzare il fronte temporalesco che si avvicina veloce all’orizzonte”.

ANDREA, 70 ANNI
“Ho settanta anni freschi di certificazione anagrafica e di torta coi nipoti. Della mia infanzia ricordo tutto e la tendenza a confondere la nostalgia con il “si viveva meglio allora” è tanto forte quanto irrazionale. Anche perché sarebbe storicamente ingiusto: il cambio epocale non lo hanno fatto i nostri figli, lo abbiamo fatto noi. La prima generazione che ha studiato (da intendersi: quelli che venivano da famiglie povere), che ha parlato italiano e non dialetto (almeno al Nord, Veneto escluso), che non ha conosciuto guerra e fame e che aveva a disposizione una buona dose di giocattoli, mica solo la trottolina di legno ma una bella panoplia di strumenti guerreschi e di soldatini (parlo per i maschi). Però una nostalgia concreta la rivendico. Quando ero piccolo le pistole giocattolo erano pesanti e di metallo, dalle mitiche dodici colpi come la Susanna o la Colt 45 alle “mezzane” a sei colpi come la Giubbe Rosse o la Cobra fino a quelle più miserelle a un colpo. Poi, ma già molti anni fa, sono venute dall’oriente ridicole pistole a pila semispaziali di plastica con lucine e sibili prefabbricati. Un intollerabile scadimento. Ho conservato una collezione di soldatini e quando l’età lo ha consentito sono stato orgoglioso di trasmetterla a mio nipote. Il quale, preso in mano un indiano, mi ha gelato: “ma chi sono questi uomini nudi?”. Possibile che non avesse visto i western? Cerco di trattenermi, non voglio essere patetico, ma sulle pistole non transigo: aridateci la Susanna!”