Qualche scrupolo culturale e civile
«Tanta ira deve pure avere avuto, da parte mia, un qualche innesco. Una qualche responsabilità. Ho detto, ho fatto qualcosa che non va?»

Se una persona culturalmente solida ti definisce «sintomo della bancarotta intellettuale» della sinistra, uno che «ha accettato il neoliberismo economico e l’atlantismo geopolitico», uno che è «contro chi viene dalle scuole tecniche invece che dai licei», qualche domanda te la fai. Va bene che è una caricatura messa insieme appiccicando le peggiori dicerie social su di me – la verità è che ho scritto anche troppo contro il neoliberismo; mi sembra che l’atlantismo sia un morto da non rimpiangere; non ho mai scritto mezza riga contro gli studenti delle scuole tecniche. E capisco che chi non mi legge, e magari legge i post di Chef Rubio e di altri animosi Guardiani della Rivoluzione, possa pensare di me ciò che non sono, e credere che io abbia scritto ciò che non ho scritto. Però insomma, tanta ira deve pure avere avuto, da parte mia, un qualche innesco. Una qualche responsabilità. Ho detto, ho fatto qualcosa che non va?
Forse sì. Ho scritto un’Amaca, il 30 novembre, un po’ troppo nervosa (capita) nonché rischiosamente sintetica come tutte le Amache (1.700 battute circa), non solo e non tanto per deplorare il ripugnante assalto alla Stampa da parte di alcuni studenti pro Pal (etichetta al tempo stesso troppo limitata e troppo vaga: sono pro Pal pure io, ma come moltitudini di pro Pal non ho mai assaltato giornali, nemmeno a vent’anni; e oltre a essere pro Pal sono pro e anti un sacco di altre cose; contro lo sterminio di Gaza mi sono espresso, come tanti altri, fino alla nausea e all’impotenza; sulla differenza tra l’antisemitismo e la denuncia dell’imperialismo biblico di Netanyahu, idem; sulla mia profonda repulsione per i fondamentalismi religiosi, il più attuale dei quali è quello dei coloni israeliani, basti la scorsa Ok Boomer!. Fine della lunga parentesi).
Se ho scritto quell’Amaca è soprattutto per sostenere che tra quei manipoli temo prevalga, come “lettura del mondo”, una rigidità ideologica “antioccidentale” che cancella ogni altro criterio di giudizio. Ripeto: ogni altro criterio di giudizio. Cosa che porta a sottovalutare gravemente alcuni benefit della nostra parte del mondo (per esempio la libertà di espressione e la parità di genere, almeno sulla carta); e a sottovalutare altrettanto gravemente alcuni demeriti degli attuali antagonisti del campo occidentale (oggi per altro disgregato), tra i quali mi permetto di annoverare, insieme al fascismo pan-russo di Putin e al bullismo tecno-finanziario di Trump, anche l’intolleranza religiosa e la violenza patriarcale di parti non trascurabili del mondo islamico.
La persona che si è molto arrabbiata con me si chiama Tahar Lamri, è algerino e vive in Italia, a Ravenna, da molti anni (potete trovare il suo post a me avverso sulla sua pagina Facebook). Traduttore, scrittore, esperto di politica internazionale, scrive sul Manifesto e su Internazionale e ha lavorato in teatro con il mio vecchio amico Luigi Dadina, eccellente uomo di palcoscenico: e tanto mi basta per considerare con rispetto il suo lavoro. Ma come i lettori avranno già capito, tanto la persona di Tahar Lamri quanto la mia sono del tutto trascurabili ai fini di quanto sto scrivendo. Molto rilevante è invece l’argomento in questione – se cioè una parte del nuovo movimento studentesco, ricalcando i passi del più incallito estremismo di sinistra, rischi di sbagliare bersaglio, o lo abbia già sbagliato. Ed è per questo che concedo molto spazio a quella che potrebbe sembrare – e non lo è – una bega personale.
Per prima cosa devo ringraziare Lamri perché corregge un mio errore. Ho definito sbrigativamente “radicale” Mohamed Shahin, l’imam di San Salvario la cui espulsione è stata l’innesco delle proteste civili (maggioranza) e degli scontri violenti (minoranza) di Torino. È una definizione imprecisa, Shahin è persona nota per il dialogo interreligioso, apprezzato da cattolici e valdesi, ed è stato espulso ingiustamente per avere espresso, sul massacro del 7 ottobre, opinioni indulgenti, ma non apologetiche. Avrei dovuto scrivere che una democrazia liberale smentisce se stessa punendo le opinioni sgradite (e sgradevoli). Lo faccio ora, in ritardo, ma lo faccio volentieri. Anche due lettori del Post mi hanno scritto per segnalare la stessa omissione, ringrazio anche loro.
Detto questo. Lamri mi rimprovera di avere affastellato, con approssimazione, aspetti molto diversi (geograficamente, culturalmente) dell’Islam, e ha ragione. Vero, quasi nessuno, qui in Europa, ha conoscenza bastante di quella cultura e di quelle società. Per altro devo confessare a Lamri che so di sapere altrettanto poco, per esempio, sul cosmo delle Chiese cristiane americane e sudamericane, che sono un’infinità. So però che l’integralismo cristiano dei teocon ha avuto ed ha un notevole ruolo nel trionfo della cultura reazionaria negli Stati Uniti, e diede grande appoggio a Bolsonaro: e tanto mi basta, e mi avanza, per considerarlo poco amichevolmente. Più in generale, sono un laico molto diffidente contro l’abuso politico della religione, e l’odioso alibi di agire “per conto di Dio” mi sembra offensivo e violento a tutte le latitudini. E tanto mi basta per aspettarmi dalle ventenni e dai ventenni “di sinistra” del mio paese, se decidono di fare politica, che mettano in agenda anche qualche sussulto di orgoglio laico – forse la principale forma di orgoglio legittimo che noi europei possiamo sbandierare – e qualche forma di opposizione, anche intermittente, contro i regimi femminicidi di Teheran e di Kabul. O sono questioni minori e ne basta una sola – Gaza – a percorrere in sicurezza le strade della liberazione degli oppressi? O magari tirare in ballo i problemi di intolleranza di parte dell’Islam è una scomodità perché potrebbe incrinare il rapporto con le varie comunità palestinesi e filopalestinesi in Italia? E dunque, nella lunghissima strada della sinistra, la laicità e il pensiero libertario sono diventati arnesi inutili e perfino imbarazzanti, con il risultato di lasciare agli islamofobi di destra il compito di usare malamente, e razzisticamente, l’argomento? Qualcuno legge ancora Voltaire, Feuerbach, Bertrand Russell, Christopher Hitchens, o sono da rottamare nel mucchio infetto del suprematismo bianco?
Lamri sorvola (perché non se la pone? perché non gli appartiene?) sulla domanda fondamentale che ponevo, forse sgraziatamente, in quell’Amaca. Esiste oppure no una monocorde attitudine ideologica “antioccidentale”, colpevolizzante fino alla cecità e alla sordità politica, che impedisce di valutare con equanimità i torti e i soprusi contro la dignità e la libertà di tutte le donne e di tutti gli uomini? Esiste un vizio ideologico che impedisce di considerare l’umano e il disumano uguali ovunque? Quell’intrupparsi dei “buoni” contro i “cattivi” che io conosco e detesto da una vita, e a sinistra consegna alla stupidità, al fanatismo e all’intolleranza parecchie persone, aiuta a capire come funzionano le cose o serve solo a bruciare bandiere e assaltare giornali?
Non è un dettaglio, è un macigno. E non è una sentenza pronunciata ex cathedra perché sono un intellettuale spocchioso, come scrive Lamri: è esperienza quotidiana, chiacchiere con amici, vita sociale, voci e opinioni raccolte nelle scuole dove mi invitano, pensiero corrente. Non ho cattedre e vivo lontano dalla politica e da Roma, frequento persone di tutti i ceti sociali e la frase “mia figlia, mio figlio manifesta per Gaza e io ne sono orgoglioso: ma non vuole sentire nemmeno mezza parola che metta in discussione le sue certezze” è una delle più ascoltate negli ultimi mesi. L’adulto, se ha uno straccio di responsabilità (Lamri, per inciso, è quasi mio coetaneo), deve limitarsi a esultare perché i giovani sono tornati in piazza o ha il dovere di trasmettere, con la noiosa prevedibilità degli adulti, e fronteggiando l’altrettanto noioso schematismo dei giovani, anche qualche osservazione critica, qualche scrupolo culturale e civile?
Dunque sopporti, gentile Tahar Lamri, i miei dubbi su un pezzo credo minoritario, ma rumoroso e invadente, del movimento cosiddetto pro Pal. Sono dubbi e timori, glielo assicuro, condivisi “dalla gente”, come si usa dire in ambienti non intellettuali e non spocchiosi. Se ho tanti lettori quanti non avrei mai sognato di averne, quando ho cominciato a scrivere mezzo secolo fa, è perché insieme alle poche certezze sono sempre riuscito a usare, per scrivere, oltre alle mie poche certezze, anche i miei tanti dubbi. I dubbi sono molto più popolari di quanto si creda.
Quanto alla “bancarotta intellettuale della sinistra”, non le so dire più di tanto. Ho cercato di occuparmi prevalentemente, in tutti questi anni, della bancarotta non solo intellettuale in cui ci trascina la destra. Veda lei se non sia il caso di cambiare bersaglio polemico: mentre la sinistra sgrida se stessa senza sosta, e con speciale acidità se si tratta di indicare il “nemico interno”, come ha fatto lei con me, la destra se ne frega, e fa i suoi comodi indisturbata.
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Giorni fa sono stato a Piangipane, accanto a Ravenna, per una grande festa in onore dei cinquant’anni di Copura (Cooperativa Pulizie Ravenna), fondata nel 1975 da un gruppo di donne delle pulizie intelligenti e orgogliose che decisero che anche un lavoro umile può e deve dare forma alla dignità, al riscatto sociale e al benessere materiale di chi lo fa. Oggi Copura ha 1.200 soci (un quarto dei quali immigrati) ed è un piccolo colosso della cooperazione italiana, uno di quei pezzi luminosi della storia del movimento operaio e della sinistra che nel pieno della tempesta sociale e politica dei nostri anni continua a brillare e a sembrare importante – tutt’altro che residuale. Eravamo nel Teatro Socjale (si chiama così), costruito da una cooperativa di contadini e inaugurato nel 1921. Tutto – a partire dai muri che ci ospitavano e dalle facce delle persone – parlava di solidità e di appartenenza. Dovessi riassumere in due parole la sensazione prevalente: mi sono sentito al sicuro.
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Il lettore Fabio Acerbi (che ringrazio davvero di cuore, e capirete poi perché) mi manda questo brano di George Orwell su un tema che i lettori di Ok Boomer! riconosceranno come mio. L’ho letto con grande condivisione e godimento, e sentirmi fratello di Orwell mi lusinga assai. Spero altrettanto di voi.
“È forse malvagio provare piacere per la primavera e gli altri cambiamenti stagionali? Per essere più precisi, è politicamente riprovevole, mentre tutti gemiamo, o almeno dovremmo gemere, sotto le catene del sistema capitalista, sottolineare che la vita è spesso più degna di essere vissuta grazie al canto di un merlo, a un olmo giallo in ottobre o a qualche altro fenomeno naturale che non costa denaro e non ha quello che i redattori dei giornali di sinistra chiamano un’angolazione di classe? Non c’è dubbio che molti la pensino così. So per esperienza che un riferimento favorevole alla “Natura” in uno dei miei articoli rischia di attirarmi lettere offensive, e sebbene la parola chiave in queste lettere sia solitamente “sentimentale”, due idee sembrano confondersi.
La prima è che qualsiasi piacere nel processo reale della vita incoraggia una sorta di quietismo politico. Le persone, così si pensa, dovrebbero essere scontente, ed è nostro compito moltiplicare i nostri desideri e non semplicemente aumentare il godimento delle cose che già abbiamo. L’altra idea è che questa sia l’era delle macchine e che non apprezzarle, o anche solo volerne limitare il predominio, sia retrogrado, reazionario e leggermente ridicolo. Questa tesi è spesso supportata dall’affermazione che l’amore per la Natura è una debolezza delle persone urbanizzate che non hanno idea di cosa sia realmente la Natura. Chi ha davvero a che fare con la terra, così si sostiene, non la ama e non nutre il minimo interesse per uccelli o fiori, se non da un punto di vista strettamente utilitaristico. Per amare la campagna bisogna vivere in città, limitandosi a qualche occasionale passeggiata nel fine settimana nei periodi più caldi dell’anno.
Quest’ultima idea è palesemente falsa. La letteratura medievale, ad esempio, comprese le ballate popolari, è piena di un entusiasmo quasi georgiano per la Natura, e l’arte di popoli agricoli come cinesi e giapponesi è sempre incentrata su alberi, uccelli, fiori, fiumi, montagne. L’altra idea mi sembra sbagliata in modo più sottile. Certamente dovremmo essere scontenti, non dovremmo semplicemente trovare il modo di trarre il meglio da un lavoro mal fatto, eppure se uccidiamo ogni piacere nel processo stesso della vita, che tipo di futuro ci stiamo preparando? Se un uomo non può godersi il ritorno della primavera, perché dovrebbe essere felice in un’utopia che risparmia lavoro? Cosa farà del tempo libero che la macchina gli darà? Ho sempre sospettato che se i nostri problemi economici e politici saranno mai veramente risolti, la vita diventerà più semplice invece che più complessa, e che il piacere che si prova nel trovare la prima primula sarà più grande di quello che si prova nel mangiare un gelato sulle note di un Wurlitzer. Penso che conservando l’amore infantile per cose come alberi, pesci, farfalle e rospi, si renda un po’ più probabile un futuro pacifico e dignitoso, e che predicando la dottrina secondo cui non c’è nulla da ammirare se non l’acciaio e il cemento, si renda semplicemente un po’ più certo che gli esseri umani non avranno altro sfogo per la loro energia in eccesso se non nell’odio e nell’adorazione del leader”.
George Orwell
Che aggiungere? Il brano di Orwell è del 1946, pubblicato sulla rivista Tribune, ed è parte di un articolo più lungo intitolato “Pensieri sul rospo comune”. Ma sembra scritto adesso: a conferma che la Natura, che Orwell scrive maiuscola, scavalca il tempo, anzi li comprende tutti, i tempi. Diventerà una specie di mio piccolo manifesto, il manifesto di chi imbambolandosi davanti agli uccellini si sente parte del mondo tanto quanto additando i mali degli uomini. Quando il dito indica il pettirosso, sta indicando proprio il pettirosso. In alto i cuori.
PS – Zanzare rimandate alla prossima settimana. Sono in Sicilia per tre giorni di quasi lavoro e di vacanza, ho visto le pietre di Erice chiuse nella nebbia con i loro antichi misteri erotici e il tempio di Segesta che se la ride dei secoli, oggi andrò a Mozia dove furono i fenici e vedrò – mi assicurano le amiche e gli amici – “il culo più bello del Mediterraneo”. Suspense: a quale creatura apparterrà? Lo saprete nella prossima puntata.




