Le cose che abbiamo in comune
Una newsletter di
Le cose che abbiamo in comune
Michele Serra
Martedì 25 marzo 2025

Le cose che abbiamo in comune

«La vera questione è la difficoltà (di molti, sicuramente anche mia) di uscire all’aperto, abbandonando la nicchia nella quale ognuno tende a rintanarsi per sopravvivere. Senza riuscire a immaginare il mondo come un posto molto, molto più grande del nostro circoletto, delle tre chat alle quali ci aggrappiamo per non sentire il suono di altre parole. Senza capire che esistono le faccende personali, tutte rispettabili, ma se alzi di qualche metro da terra il tuo sguardo vedi che il mondo è infinitamente più grande di te»

(Getty Images)
(Getty Images)

Credo di non avere saputo rispondere alle tre ragazze, giovanissime, che qualche giorno fa, con tempestosa passione, una anche in lacrime per l’emozione e lo sdegno, mi hanno affrontato in una assemblea piacentina molto affollata per dirmi (la sintesi è mia) che dell’Europa e della democrazia a loro importa ben poco, sono solo scatole vuote e, peggio, pretesti ipocriti per parlare d’altro e per nascondere forme di oppressione sociale, di discriminazione di genere, di ottusità patriarcale e di sfruttamento feroce. In sostanza: facciamo tanto i fighi, noi europei, ma siamo uguali agli altri anzi molto peggio, perché simuliamo libertà e tolleranza solo per nascondere, sotto un manto di belle parole, i nostri porci comodi.

Parlavano di noi tutte e noi tutti, qui e adesso, come se per loro fosse illeggibile la differenza tra noi tutti e noi tutte, qui e adesso, e Kabul o Teheran, e ci aggiungo Istanbul, e ci aggiungo Mosca che persegue come “antipatriottici” gli omosessuali e i transessuali; e infatti quando ho provato a chiedere loro se – a proposito di patriarcato – non fosse il caso, prima o poi, di manifestare per le bambine afgane che non possono andare a scuola, o per le donne iraniane alle quali è proibito mostrare i capelli, mi hanno guardato come se divagassi, come se imbrogliassi, come se non fosse quello, il punto. Come se ogni maschio bianco anziano cisgender (eccomi) sortisse dallo stesso sacco imputridito dal quale sono sbucati fuori Trump, o Putin, o Erdogan, o un ayatollah.

Poiché ognuno, quando parla, parla anche della propria vita, ho cercato di figurarmi le circostanze nelle quali quelle ragazze avevano elaborato un ripudio così netto, e così frontale, di quel paio di parole – Europa, democrazia – che a me, e a molti dei presenti in quella stessa sala, sembrano invece così importanti, e così messe a repentaglio dal subbuglio del mondo. Come suol dirsi: avranno avuto le loro buone ragioni. Di quelle personali, ovviamente, non è lecito discutere. Sono, appunto, personali. Di quelle politiche magari invece vale la pena parlare.

Perché quelle voci, così sprezzanti, così drastiche, così sprovviste di pacatezza, neanche l’ombra di un dubbio, di un qualche interesse per il pensiero degli altri, per l’esperienza degli altri, insomma per la vita degli altri; quelle voci non assistite, evidentemente, dall’attenzione e dall’amore di buone maestre, semmai irrigidite dallo sguardo intransigente, ideologicamente militarizzato, di qualche cattiva maestra; quelle voci, dicevo, sortivano dagli stessi ambienti politici (estrema sinistra, quella sinistra così poco di sinistra che al di fuori di sé vede solo vizio, inganno, tradimento, corruzione) e dalle stesse chat secondo le quali se il professor Vecchioni cita in piazza, con orgoglio, Socrate e la cultura classica, non lo fa perché considera Socrate e la cultura classica come fonte antica delle nostre libertà, prima tra tutte la libertà di pensare; lo fa perché è un suprematista bianco. E citare Socrate è dunque implicito disprezzo per il tanto pensare e scrivere, meditare e parlare che si è fatto nei secoli in giro per il mondo. Non si dica mai più: questo è giusto, perché qualcuno ti farà notare, severo e brusco, che stai facendo torto ad altre cose giuste.

Sono gli stessi ambienti politici, piccoli ma rumorosissimi, impopolari ma sempre con il popolo in bocca; e sono le stesse chat secondo le quali qualunque cosa io scriva su Repubblica – anche se scrivo, come ho scritto, che a Gaza e in Cisgiordania è in corso il tentativo di sfratto violento di un intero popolo da casa sua – la scrivo perché mi paga Stellantis, dunque la lobby pluto-giudaica, dunque l’industria bellica, dunque Mammona; e qualcuno aggiunge, senza alcuna ragione che non sia la voglia di aggiungerlo, che io sono “notoriamente un ebreo”, ed è una delle poche qualità che davvero mi mancano, essere ebreo. Per fortuna non hanno ancora scoperto, i Guardiani della Rivoluzione, che anche il Post è l’espressione di una lobby pluto-pisano-meneghina, con sede a Milano e tentacoli a Peccioli.

I Guardiani della Rivoluzione, per quanto pochi, e per quanto misteriosa sia la guardiania di una rivoluzione mai ben specificata, vaga eppure inflessibile, ingiudicabile eppure giudicante, non spendibile in società eppure feroce con chi in società si spende, sono come il polonio: poche gocce, eppure veleno costante per il grande corpo del dibattito pubblico. L’antidoto è la pazienza con la quale, a volte disperando, ognuno di noi aspetta che la realtà vinca la sua eroica guerra contro i fanatici che la torcono a vantaggio del loro fanatismo. Le cui vittime, come sempre, sono i più deboli, che al fanatismo sono esposti non come artefici, ma come carne da cannone.

Ma torno alle ragazze. Al mio disagio, anzi al mio dispiacere di fronte alla loro evidente sofferenza. Me ne sono andato via, alla fine, sentendo che avrei dovuto fermarmi a parlare con loro, ma sapendo, anche, che se mi fossi fermato a parlare con loro mi avrebbero visto, e pensato, come un vecchio paternalista, un uomo di potere. Non una persona: un ruolo. Non una persona: un nemico. Non uno scrittore in proprio: un venduto.

Quello che riesco a dire, con il senno di poi, è che la vera questione non è ideologica, o almeno lo è solo in seconda battuta. È psicologica e dunque umana. La vera questione è la difficoltà (di molti, sicuramente anche mia) di uscire all’aperto, abbandonando la nicchia nella quale ognuno tende a rintanarsi per sopravvivere. Senza riuscire a immaginare il mondo come un posto molto, molto più grande del nostro circoletto, delle tre chat alle quali ci aggrappiamo per non sentire il suono di altre parole. Senza capire che esistono le faccende personali, tutte rispettabili, ma se alzi di qualche metro da terra il tuo sguardo vedi che il mondo è infinitamente più grande di te. E il tuo ombelico non è l’ombelico del mondo: è solamente il tuo.

Sentendomi in debito con loro, proprio con quelle tre ragazze, provo a sperare che – nel caso remotissimo che leggano questa newsletter o qualcuno gliela segnali – trovino qualche appiglio “fuori di loro”, qualche utile traccia della vastità del mondo, nelle parole di due donne che mi hanno scritto negli ultimi giorni. La prima è una monaca benedettina (Benedetto da Norcia, 480-547, è stato proclamato patrono d’Europa nel 1964). Mi ha mandato un lungo intervento sulla manifestazione romana di sabato 15 marzo, già pubblicato in parte sull’Avvenire. Parla molto di Europa ma spero (o mi illudo) che non sia accusabile di eurocentrismo. Ne ho scelto qualche stralcio, e mi è dispiaciuto dover tagliare il resto.

“La Regola benedettina anticipò quanto di buono e di bello in Europa siamo stati capaci di mettere al centro del dibattito sociale, culturale, politico ed economico. Mentre il mondo imperiale romano era al declino, la Regola eliminò la differenza tra schiavi e liberi, tra concittadini e stranieri, eliminò il divario culturale tra i membri della sua comunità. Tutti potevano avere accesso alla cultura, alla lettura, all’ultimo arrivato viene dato lo stesso diritto di parola e di voto quanto il più anziano; tutti hanno il diritto e lo spazio per esercitare la propria ‘arte’, il proprio mestiere, e impararne un altro; tutti hanno diritto al cibo, al vestiario, a un letto e a un tetto sulla testa…”
“Benedetto fu ‘messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà’: così Paolo VI nel giorno della proclamazione di San Benedetto Patrono d’Europa, per affermare quanto siano profonde e dimenticate le radici di quanto oggi abbiamo necessità di riaffermare… Essere messaggeri di pace non è forse la grande responsabilità che ciascuno di noi oggi ha, lì dove è chiamato a vivere, a lavorare, a pensare, studiare, gioire, camminare, sostare? Essere messaggeri di pace vuol dire anche partire dalla parola e dalle parole, da quelle che usiamo e da quelle che non usiamo più, da quelle che ci inventiamo e da quelle che recuperiamo, da quelle che scriviamo, che inviamo tramite audio o mail, che messaggiamo, che punteggiamo, che leggiamo, ascoltiamo, parole che spesso non nascono dal silenzio e quindi perdono di profondità, di valore e di senso”.
“Realizzatore di unione: perché l’unità non è un dato di fatto, ma la si costruisce. Unità che non è uniformità, unità che si realizza anche attraverso una rete di luoghi, persone, culture, società diverse e simili, come quelle che tra i secoli IX e XI permisero ai monaci e monache benedettini di fondare migliaia di monasteri in tutta Europa. Unità, così come monaco, deriva da uno, non come primo gerarchicamente, ma come primo senza il quale tutto il resto non sussiste, se manca unità è come se mancasse la base, mancasse la terra sotto i piedi…”
“Maestro di civiltà: perché se oggi possiamo ancora sfogliare Platone, Aristotele, Seneca, è perché qualcuno nel suo scrittorium ha cominciato a copiare e a conservare, a creare biblioteche, tradurre, creare memoria, fabbricare cultura, costruire archivi, narrare la storia, educare, trasmettere, insegnare, comunicare e diffondere. Favorire la costituzione di una civiltà non deve essere stata cosa facile, eppure i monasteri in Europa diventarono centri culturali importantissimi nel corso dei secoli, e si occuparono spesso, lì dove si trovavano, di ciò che in quel momento era specificamente necessario, dalla bonifica dei terreni al copiare i libri, dal costruire mulini e frantoi a realizzare mura di protezione e ponti di comunicazione”.
“E oggi? Quello che sento di poter offrire è forse un criterio che da sempre ha caratterizzato la vita monastica, il criterio profetico della comunità. Il criterio del ‘comune’ come luogo in cui privato e pubblico si incontrano e negoziano, contrattano, come in una grande piazza, luogo di movimento, di percorsi, che abilita al riconoscimento dell’altro come altro, di equilibrio e misura tra il particolare e l’universale… Nel comune l’ascolto genera il dialogo, la riflessione, il pensiero critico, affinché si creino ponti e non muri o fili spinati, affinché l’altro possa essere riconosciuto come fratello e non nemico, perché non mi sta togliendo niente, anzi è una opportunità da convocare, nel senso etimologico della parola, vocare con, chiamare insieme…”
“Il comune ci consente di riconoscere ciò che abbiamo sempre scartato, messo da parte, ghettizzato, perché al centro ha sé stesso e il suo bene, e tutti noi siamo come le stelle della bandiera europea, fautori di circolarità, abitando il paradosso di dover essere tutti equidistanti dal centro, per poterlo custodire; un centro capace di mettere insieme interdipendenza, diversità, conflitto e generatività, criteri con cui si è costituita una piazza che inizia ad ascoltarsi, e che mentre piovono le bombe deve scegliere verso dove orientare, per un ‘arriverai’ comune, che non lasci indietro nessuno, perché ha scelto di andare al passo del più lento. Ah dimenticavo: come tutti quelli saliti sul palco di Roma che si sono presentati, sono Suor Myriam, ho 40 anni, vengo da Napoli e sono una monaca benedettina”.

Segue invece questa riflessione molto diretta, molto partecipe, sulla pace e sulla guerra non come dilemma filosofico, ma come una scelta che ci coinvolge, ci riguarda, ci chiede di non fare finta di niente.

“Caro Michele, sui temi roventi della guerra e del riarmo vivo un per fortuna soltanto metaforico squartamento emotivo. Mi ci è voluto un po’ per decidere di scriverne. Putin è un criminale ossessionato dal suo sogno imperiale e dal suo desiderio di rivalsa, che non esita a nutrire con il carburante incendiario di una ideologia suprematista e passatista, omofoba, misogina, autoritaria. Le analogie con alcuni aspetti del nazismo sono così forti che è difficile rimanere lucidi e ancorati al presente senza deragliare in scivolosi anacronismi. Non esiterebbe a prendersi diversi pezzi di Europa se solo potesse, o glielo lasciassero fare. Il rispetto del diritto e la democrazia non solo per lui non contano, ma sono disvalori contro cui portare avanti la sua operazione speciale culturale (e armata).
Riarmarsi significa arricchire produttori di morte: è innegabile. Significa sottrarre risorse, ancor prima simboliche che materiali, alla cura della vita sulla terra, alla salute, alla mitigazione del cambiamento climatico, alla cultura, all’istruzione: è innegabile. Ed è orribile. Eppure esiste anche il diritto all’autodifesa. In giro per il mondo e per la storia molti e molte hanno scelto di resistere all’oppressione di regimi autoritari, alle invasioni e alle prese di potere armate e violente, impugnando le armi (come nella nostra Resistenza). Hanno faticosamente cercato di costruire eserciti non militaristi, mobilitazioni partecipate e in qualche misura democratiche, pratiche militari che tenessero conto di un uso non sadico, non gratuito, proporzionato, non genocidario e non vendicativo della violenza. È per me il cammino più stretto, più difficile e scivoloso che esista, e non è detto abbia successo. Ma di fronte all’avanzata di un peculiare fascismo militarmente aggressivo come quello di Putin, io non riesco a vedere che tre strade: praticare una autentica scelta di resistenza civile non violenta, per la quale provo un sincero e profondo rispetto umano, morale e politico, ma che comporta comunque accettare l’estremo rischio personale, fino alla morte; preparare una difesa armata democratica, che però comporta una opinione pubblica europea vigile, esigente, informata, pronta a vigilare su ogni passo e ogni parola d’ordine per evitare il rischio di scivolare nel pantano del militarismo, della disumanizzazione del nemico, e il restringimento degli spazi di dissenso e discussione. Quello che resta dopo queste due prime strade non è in definitiva che acquiescenza e complicità. Ognuno di noi, temo, sarà chiamato o chiamata a scegliere, e lo farà secondo coscienza. Ma ha il dovere di onestà intellettuale di non mentire a se stesso e agli altri sulle conseguenze delle proprie scelte”.
Paola Zappaterra

*****

È con sollievo, dopo cotanto cimento intellettuale (ho mal di testa, per quanto mi sono spremuto le meningi nelle ultime settimane), che tornano, con allegra fanfara di sottofondo, le Zanzare Mostruose.
Per affinità tematica con l’argomento del giorno, apre le danze questo bel refuso che Ottavio ha scovato su Fanpage:

IL CONIGLIO EUROPEO SENZA L’UNGHERIA
ADOTTA LE CONCLUSIONI SULL’UCRAINA

È un titolo destinato a rinfocolare le polemiche sulla reale consistenza dell’Europa sulla scena mondiale. Sempre rimanendo in ambito geopolitico, ho trovato notevole questo titolo di Repubblica.it (segnalazione mia):

ELEZIONI IN GROENLANDIA:
GLI INUIT GELANO TRUMP

Se ne deduce che Trump abbia sottovalutato le rigide condizioni climatiche di quella terra ambìta: non azzardi l’invasione, le truppe potrebbero surgelarsi in pochi secondi.

Dal Mattino di Napoli, quasi subito corretto ma non sfuggito a Tommaso, questa pagina importante della medicina forense:

L’UNICA CERTEZZA È CHE HACKMAN SIA DECEDUTO
PRIMA DEL RITROVAMENTO DEL SUO CADAVERE

Passando ad argomenti meno macabri, e anzi molto vitali, Renato segnala, sull’Arena di Verona, questo titolo:

TRASFERIMENTO DEL MERCATO
IN CONSIGLIO COMUNALE

Vorrebbe dire, credo, che all’ordine del giorno, in Consiglio comunale, c’è il trasferimento del mercato. Ma ci piace immaginare i suoni allegri e i colori vivaci delle bancarelle che finalmente approdano in quell’aula. Infine, la potenza dei numeri, e al tempo stesso la loro enigmaticità. Franco si è meravigliato leggendo, in coda al “quiz della settimana” su Corriere.it:

HAI DATO 11 RISPOSTE GIUSTE SU 10. BRAVISSIMO!
SEI UN LETTORE MOLTO INFORMATO E NON PERDI UNA NOTIZIA

Nemmeno il più secchione dei lettori del Post avrebbe potuto ottenere uno score così lusinghiero. Fa riflettere anche questo titolo sulla Stampa, segnalato da Anna Roberta: smentisce tutte le dicerie e i mugugni sul ritardo con il quale si realizzano le opere pubbliche nel nostro paese:

PARTITE LE DEMOLIZIONI DELL’EX OSPEDALE DI LUNGO DORA
AL SUO POSTO SORGERÀ UNO STUDENTATO, SARÀ PRONTO NEL 2016

*****

Ha smesso di piovere, quassù nell’Appennino settentrionale, quello che fronteggia spavaldo la Padania e nei giorni di tramontana la sorvola proprio, e guarda diritto verso le Alpi. Il mandorlo è in fiore, le viole e le primule occhieggiano (il verbo occhieggiare deve essere stato inventato proprio per le viole e le primule), qualche dente di leone – piscialetto per gli intimi, tarassaco per i botanici – è già in fiore. È tornato il primo codirosso e già si è messo nei guai, infilandosi nella veranda e non trovando più la via d’uscita, mi ci è voluto un bel po’ per avviarlo cortesemente all’esterno. La primavera è nelle cose, l’erba cresce in fretta, le rose anche, i campi sono fradici e non ci si può entrare con il trattore. Appena asciuga un poco, rimetto in moto il Landini e comincio a pulire i campi di lavanda e di elicriso. In cielo le poiane, attorno al campo i cani che sniffano e qualche lepre che scappa. Sarà un bel momento. In alto i cuori.