La valigia del ciclista
«Lorenzo, in arte Jovanotti, deve essere caduto da piccolo in un enorme alambicco dove si distillavano erbe benefiche, e irradia energia positiva da ogni poro e perfino da ogni frattura»

Ero tra i cinquemila ciclisti saliti fino al lago superiore di Fusine (sopra Tarvisio, estremo oriente italiano) per il concerto di Jovanotti. Rimontato in bici dopo una decina d’anni per l’affettuosa imposizione di mia moglie, che dalla bici non è mai smontata e pedala forte. Ho dovuto vincere il mio irriducibile disgusto per l’abbigliamento del ciclista, che riesce a trasformare in un ridicolo insaccato dai colori pacchiani anche giovanotte e giovanotti in forma, figuratevi me.
È stato bellissimo. Già la montagna è come se, di suo, rincivilisse chi la frequenta; poi il fatto di essere solo persone in bicicletta, di tutte le età compresi i bimbi piccoli trainati in quei fantastici carriolini coperti che mi fanno pentire di avere avuto tre anni negli anni Cinquanta, quando queste meraviglie non erano ancora state inventate e forse nemmeno il seggiolino da sistemare sul manubrio; poi la persona Lorenzo, in arte Jovanotti, che deve essere caduto da piccolo in un enorme alambicco dove si distillavano erbe benefiche, e irradia energia positiva da ogni poro e perfino da ogni frattura (visto che in bicicletta si è sbriciolato, un paio d’anni fa, per poi ricomporsi come nuovo); insomma per una somma di cose si è formata una comunità sorridente e contenta, sana e gentile, che respirava a pieni polmoni e cantava a gola spiegata racchiusa in una spettacolare chiostra di monti, roccia e conifere. E i prati verdissimi della montagna.
Eravamo nel punto di incontro tra le Alpi Carniche e le Giulie, nella porzione più orientale dell’arco immenso che parte dalla Costa Azzurra e arriva a digradare docilmente sull’Adriatico, inanellando un numero impressionante di popoli e di lingue diverse. Romanze, retoromanze, germaniche e slave. Sperando di non averne trascurata alcuna nella mia breve ispezione in rete: italiano, francese, occitano, francoprovenzale, ladino, tedesco, svizzero-tedesco, cimbro, mòcheno, walser, sloveno, friulano, resiano, più svariati dialetti regionali e idiomi di valle parlati da comunità ridottissime. Tutti differenti. Tutti alpini.
Le mie Alpi, quelle del cuore, sono le Marittime, dunque il vertice opposto dell’arco, molto più a occidente. Con forti tracce linguistiche occitane anche nei nomi delle montagne. Queste, le più orientali, non le conoscevo e le ho trovate bellissime, ospitali, ben custodite e a misura d’uomo. E con un fascino “politico” speciale che deriva dallo scioglimento di frontiere un tempo arcigne, segnate e ridisegnate dalla carneficina della Grande guerra, portatrici di divisioni etniche antiche, persecuzioni e ritorsioni, oppressioni e vendette.
Qui si incrociano Italia, Austria e Slovenia, eppure, ai nostri giorni, per accorgerti in quale Nazione stai pedalando, o camminando, devi affidarti a Google Maps oppure accorgerti del suono differente della chiamata telefonica. Chi dice che l’Unione Europea non serve a niente si sbaglia su almeno un punto, non trascurabile e anzi clamoroso: è servita ad annullare i confini interni, ad avvicinare popoli che si scannavano da generazioni, a sentirsi in un Ovunque multilingue, a passare tre giorni tra Tarvisio e Kranjska Gora senza che trovarsi in Italia o in Slovenia contasse alcunché.
Si chiama No Borders, del resto, il bel Festival, ormai trentennale, che ha ospitato il concerto montano di Jovanotti e tanti altri (Ben Harper, Mika, Lucio Corsi; il 2 agosto ci sarà Goran Bregovic, il 3 i Kings of Convenience). E dunque, a conti fatti, sperando non sia stucchevole questo mio resoconto: in mezzo alle Alpi, scavalcando confini e dimenticando frontiere, pedalando sereno tra pedalatori sereni, vedendo la pioggia allontanarsi poco prima del concerto, e il sole far brillare i prati e gli alberi, ascoltando buona musica (Jova è in grande forma, saggio come un senatore e saltellante come un ragazzino, il suo gruppo è sontuoso e Saturnino il suo profeta), si può perfino dimenticare di essere vestiti in modo ridicolo.
Volendo rendere un poco meno idilliaco il quadro. Se proprio in quel frangente ricevi un paio di telefonate su Gaza – come è possibile che nessuno faccia niente per Gaza, e noi che accidenti facciamo per Gaza, Gaza è una vergogna storica e noi ce l’avremo per sempre sulla coscienza; e tu sei con la tua bicicletta sulla riva di un lago alpino e ti è passata la voglia di vantartene; e a un centinaio di metri Jovanotti sta cantando L’ombelico del mondo e cinquemila cantano con lui: ti fai delle domande.
La risposta – forse – è che la condizione della nostra epoca, implacabilmente interconnessa, rende evidente (molto più evidente che in passato) che la felicità e il dolore, la libertà e la prostrazione, il benessere e la fame, sono spalmate, sulla faccia della Terra, senza un briciolo di equità. Non che mi sentissi in colpa – il senso di colpa è la più inutile delle zavorre. Certo, mi sono sentito faccia a faccia con la mia fortuna (“Sono un ragazzo fortunato”). Sono, siamo, nel novero degli scampati: quello attuale, almeno. Al riparo dalla dannazione che è vita quotidiana di molti, a Gaza e non solamente. I bambini, in mezzo al pubblico, erano belli e protetti. Incolumi per definizione. Ne ho visti un paio che dormivano, e i decibel gli passavano addosso senza sfiorarli. Ho pedalato in discesa con qualche affanno in più, rispetto alla salita.
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Molto si è parlato e si parla di Milano. La mia – grosso modo – l’ho detta, ed è che il reato di eccesso di edilizia non è nel codice; nemmeno quello di gentrificazione; ma che bisognerebbe approfittare di questa occasione per parlare un poco di più, e un poco meglio, di come vorremmo che fossero le città in generale, e questa in particolare, così dinamica e ricca; e di che cosa fare per renderle più accessibili anche a chi – in questo momento – non può permettersele. Già mesi fa parlammo, in questa newsletter, di come è diventata dura, economicamente parlando, abitare a Milano. Mi avete scritto in tanti, vecchi e giovani, per dire la vostra, e ben pochi dicevano che le cose vanno bene così come sono. Ora mi arriva, a ridosso delle note vicende, una lettera che mi è piaciuta per il bel po’ di vita che contiene. È la lettera di un immigrato (quasi tutti i milanesi lo sono). Eccola.
“Gentile Serra,
sbarcai a Milano nel 1974, non avevo compiuto vent’anni. Ho abitato a San Siro, in via Don Gnocchi; a Piazza De Angelis, a due passi dal teatro della rapina di Banditi a Milano; a Corvetto, via Marco D’ Agrate, in testa ad un night club un po’ malfamato e dove il sabato mattina molto presto, in primavera, portando a passeggio mio figlio in carrozzina, incrociavo qualche ragazza del locale appena smontata dal turno o chissà che era, che si inteneriva a vedere un ragazzo di 23 anni che portava a spasso il piccinin. Che poi mi facevo la domanda sul perché le chiamavano donnine allegre visto che con la vita di merda che facevano c’era poco da stare allegri”.
“Ho lavorato a viale Piave, dalle parti della stazione, e poi a Cordusio. Milano, non c’ è bisogno che lo dica a te, mi accolse e nonostante qualche difficoltà di retaggio (fu lì che cominciai a parlare in dialetto napoletano, che a casa mia a noi ragazzi era rigorosamente proibito, in un anelito di promozione sociale credo, e cominciai ad interessarmi di cultura napoletana e appassionarmi all’ antropologia culturale). La sentii presto come la mia seconda città. Mio figlio è nato alla Mangiagalli, per dire.”
“Ho conosciuto, credo bene, quella città dove le persone si collocavano in un grafico cartesiano occupando tutte le possibili caselle, dall’ ubriaco, inoffensivo, da bar, ai bauscia arroganti collocati in tutte le possibili posizioni della scala sociale. E con molti mi sono sentito “compagno”, che vuol dire persone con le quali dividevo il pane, cum panis, e non erano sempre miei colleghi di lavoro, in buona parte napoletani che volevano solo tornare dalle mamme e dalle fidanzate, nel grande ventre di quella che neppure sapevano fosse una sirena. Me ne andai da Milano nei primissimi anni Ottanta, appena cominciava la degenerazione della Milano da Bere, una città che non era più e non sarebbe mai più stata una comunità, coi suoi quartieri, ancora popolari quando ci vivevo, che sparivano divorati dall’ ansia di una modernità che nasceva già vecchia, non solo ingiusta”.
“Questo per dire che le notizie di questi giorni mi addolorano ma non mi sorprendono, ho seguito questa degenerazione anche se da lontano, visto che lì ho qualche amico e pochi oramai compagni. Posso ancora dirti che, da abitante di Bagnoli, sono terrorizzato dalla prospettiva di quello che combineranno qui in nome dell’America’s Cup. Quelle risorse che non si vogliono trovare per affrontare i problemi causati alle famiglie e alle piccole imprese artigiane dal bradisismo, so già che usciranno miracolosamente fuori per i mega progetti, che gentrificheranno un quartiere ed un territorio che conserva un minimo di identità. Cordialmente, fra milanesi adottati, il flegreo”
Rosario Frattini
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Chi più chi meno siamo abbastanza in vacanza e lo sento anche dal rarefarsi delle vostre segnalazioni di Zanzare. Ne ho solo due, le tengo per la settimana prossima, l’estate deve servire anche a variare le abitudini, interrompere le routines. Non so dove siete, ma qualche racconto (non troppo minuzioso, mi raccomando) del posto dove amate fuggire, o dove siete o sarete costretti a passare qualche giorno nella cattività degli obblighi familiari, mi farebbe piacere. A volte le due cose coincidono: si finisce per amare il posto nel quale si è “costretti” a passare le vacanze.
Di me posso solo dirvi che non potrei più reggere l’idea “classica” di vacanza, il mese che si passava al mare o ai monti o – le famiglie benestanti – “in villeggiatura”: tre mesi, anche quattro nei casi più efferati, una mia bisnonna piuttosto ricca lasciava Nizza a metà giugno per trasferirsi in montagna e tornava a casa solo ai primi freddi, metà settembre. Per me una settimana è già tanto, dunque “faccio vacanza” a pezzetti, i tre giorni in Carnia per il concerto di Jovanotti sono una dose quasi perfetta. La dimensione della valigia mi rassicura: se è piccola, vuol dire che tutto va bene, se è grande mi viene un poco di ansia.
Sono, insomma, uno stanziale che ama viaggiare, purché il viaggio sia in modica quantità. Capisco i grandi viaggiatori, anche li ammiro. Però non biasimatemi se mi sento felice soprattutto a casa mia. Specie stasera, che sono appena tornato dalle Alpi, disfo le valigie e metto nel cesto dei vestiti da lavare quelli, improponibili, del ciclista. Sono di nuovo a casa e dunque di nuovo nei miei panni. Grosse nuvole bianche sormontano queste basse montagne che non saranno le Alpi, ma sono pur sempre l’Appennino. Domattina (lunedì) pioverà. In alto i cuori.




