Gentili signori
«Ci sarebbe qui da chiedersi se la gentilezza di Vessicchio è risultata così rimarchevole anche perché i nostri tempi non sono gentili»

Era così gentile… Non c’è ricordo di Peppe Vessicchio, il direttore d’orchestra reso molto popolare da decenni di Festival di Sanremo, che non sottolinei questa qualità: la gentilezza. Fabio Fazio, che gli voleva molto bene, specifica: “la grazia e la pacatezza”. Leggo anche: sempre sorridente. Mai sopra tono. Maestro di understatement.
Effettivamente, avendolo conosciuto quasi bene, incrociandolo negli stessi ambienti di lavoro: era una di quelle persone che, quando entrano in una stanza, creano “good vibrations”. Nessuna tensione. Piacere di vederlo. Una cordialità non ruffiana, non ostentata, non obbligatoria. Una normale condizione di non belligeranza, come se stare insieme non richiedesse sforzi fuori dall’ordinario, capacità di sopportazione, speciali doti psicologiche, traumi da competizione: al contrario, fosse un piacere naturale.
E sì, per dire tutto questo può andare bene proprio “gentilezza”. Che dovrebbe essere, nei rapporti sociali, una dote di base, una condizione di partenza: e invece, evidentemente, non lo è. Altrimenti del maestro Giuseppe Vessicchio, nato nel marzo del ’56 a Napoli e portato via da una maledetta polmonite, si ricorderebbero prima di tutto la grande cultura musicale, l’ottimo curriculum professionale, lo humour, le doti di arrangiatore e orchestratore. Invece tutti, per prima cosa, dicono: che persona gentile era, Vessicchio… quanto ci mancherà, il suo modo di fare.
Per capire meglio ho guardato la Treccani, come faccio spesso quando cerco di mettere a fuoco una parola. E già la definizione numero 1 aiuta a capire che forse non stiamo parlando solo di una qualità “formale”, della buona educazione, del garbo nei rapporti sociali. Ma di qualcosa di più profondo: “Nobiltà, sia ereditaria sia (secondo l’interpretazione degli stilnovisti) acquisita con l’esercizio della virtù e con l’elevatezza dei sentimenti”. Ovvero: gentile puoi avere la fortuna di nascerci – se, nell’accezione latina, discendi da una “gens” conosciuta e facoltosa, e mica sei figlio di lombi qualunque. Ma gentile puoi diventare, chiunque tu sia, “con l’esercizio della virtù e con l’elevatezza dei sentimenti”.
Dunque non è solo una questione di classe, anche se nascere benestante e senza troppe ansie sociali dovrebbe, almeno in teoria, favorire la tua “gentilezza”: avresti qualche ragione in meno per essere sgarbato (e questo aggrava la disistima per chi, pur essendo nato ricco, è cafone e arrogante). È, la gentilezza, anche e forse soprattutto una questione di attitudine, di volontà di essere: si è gentili perché non si vuole essere ignobili. Perché gentilezza e nobiltà sono quasi sinonimi.
Ora: infinite sono le variabili di questo schemino. Quelle psicologiche per prime: qualcuno magari è rude, o incazzato, o maldisposto verso gli altri, per via del rapporto col padre, con la madre, per via dei traumi infantili, delle pene amorose, dei buchi di personalità, eccetera. Non è tutta colpa sua, insomma. Ma nella media, e fatte salve tutte le rispettabili eccezioni alla regola: è perfettamente vero che la gentilezza rivela un’ambizione a dare il meglio di noi stessi, a comportarci in maniera che la differenza tra l’aggressività e la tolleranza, tra il bello e il brutto, tra il nobile e l’ignobile (dolcestilnovisticamente parlando, e credo sia l’avverbio più lungo mai scritto dopo precipitevolissimevolmente) sia messa in evidenza, perché niente come i comportamenti gentili fa risaltare, per contrasto, la brutalità, la grettezza, la prevaricazione.
Ci sarebbe qui da chiedersi se la gentilezza di Vessicchio è risultata così rimarchevole anche perché i nostri tempi non sono gentili. E spero non sia una risposta troppo da boomer ma sì, credo di sì: c’è un’aggressività, una smania di apparire, una mancanza di esitazione, nei comportamenti diffusi, abbastanza evidente. Non è certo il passo indietro, non l’understatement, non l’esitazione rispettosa (“prego, prima lei”) a dominare la scena. Forse è la spinta ipercompetitiva del tardo capitalismo, forse il quasi obbligato esibizionismo della società dello spettacolo, fatto sta che si ha l’impressione di vivere tra sgomitanti e vocianti – e la depressione, lo scansarsi fino a sparire, sono perfettamente speculari a questa bolgia di “io sono io, fatemi largo!”.
Così alla fine accade che il gentile faccia spicco, che la sua luce pacata brilli più solidamente dei tanti fuochi di paglia che ci circondano. La gentilezza è rivoluzionaria, scrivevo su Cuore quando avevo trent’anni. A settant’anni, mi sembra ancora più vero.
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È piaciuto a parecchi di voi il mio “elogio della nebbia” di lunedì scorso. Mi ha sfacciatamente aiutato, devo ammetterlo, pubblicare quella meraviglia che è la poesia di Auden Grazie, nebbia. Maria Grazia Dallera me ne segnala una di Giovanni Pascoli che non conoscevo, o avevo completamente dimenticato (se non perché mi risuona, da chissà quale remota lettura scolastica, lo “stanco don don di campane”). La condivido volentieri con voi. Tra i poeti “scolastici”, quelli che si studiano (studiavano?) a scuola fino dalle elementari, Pascoli è sempre stato il mio preferito. (Messo Leopardi, ovviamente, in una categoria a parte). Anche qui, proprio come nella poesia di Auden, la nebbia è un benvenuto impedimento a guardare troppo lontano, nel mondo dove “le cose son ebbre di pianto”. Anche se non basta per dimenticare la morte, che in quasi tutta l’opera di Pascoli è una specie di fondale permanente.
“Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che danno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane”.
Tra le tante e i tanti, mi scrive Laura da Torino:
“La nebbia vera, bianca e spessa, è quasi scomparsa, da bambina era paesaggio abituale dalla finestra, ne ricordo soprattutto l’odore, odore di umidità scomparso pure lui. A mia figlia cinquenne la mostrai una mattina dalla finestra di una pousada, al tempo abitavamo in Brasile, con meraviglia, nostalgia e stupore per uno spettacolo che ho sempre associato alla brumosa Padania piuttosto che alla rude e aspra serra del Minas Gerais. E lei, mia figlia, guardando fuori, mi rispose “mamma, dov’è la nebbia? non vedo niente!”. Per fortuna che ogni tanto, grazie alla penna e alle parole di alcuni come te a cui siamo affezionati, possiamo ancora permetterci di dimenticare gli orrori reali e perderci, per qualche minuto, nel nulla di ciò che non vediamo e che, come tale, ci fa sperare in meraviglie nascoste”.
Cristina Di Lernia mi ringrazia per “la celebrazione della nebbia. È una sensazione che ho spesso provato da giovane, quando a Milano la nebbia spessa si vedeva ancora. Ho sempre vissuto la nebbia come una coperta che ci accompagna nell’autunno verso il riposo dell’inverno, ma a causa della vita frenetica di città ho un po’ perso quel senso di pace ed isolamento che lei descrive così bene. Grazie per avermelo ricordato”.
Quasi tutte le altre lettere parlano della nebbia con forte accento di nostalgia. La nebbia che non c’è più, la nebbia che a Milano, in pieno centro, cancellava la casa di fronte alla tua, la nebbia dalla quale sbucava l’autobus quasi a tradimento, e se non stavi attento rischiavi di perderlo. La nebbia così fitta che il tuo amico precedeva la macchina a piedi per seguire la striscia bianca che delimita la carreggiata. La nebbia dell’infanzia. Dev’essere per davvero svanita, la nebbia, perché nessuno dei miei lettori più giovani ha voluto raccontarmi la sua.
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A meno di clamorosi colpi di scena (tipo: un abilissimo ipnotizzatore mi convince che la riforma di Nordio è un gioiello inestimabile) ho già scelto di votare “no” al referendum confermativo, perché non vedo alcun nesso tra il miglioramento e l’umanizzazione della macchina giudiziaria e la greve intromissione della politica nell’autonomia della magistratura. Ciò detto, avendovi parlato nella scorsa puntata dell’odissea giudiziaria dell’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, pubblico volentieri questo racconto autobiografico (tagliato per necessità di spazio) di una lettrice siciliana di Ok Boomer!. La vicenda è remota ma ci parla, ancora oggi, di qualcosa che non funziona come dovrebbe funzionare.
“Siamo in piena Manipulite. Nella società regionale dove lavoravo da undici anni si erano addensate brutte nuvole. Tutte furono poi fugate, ma dopo anni ed anni. Una di queste mi investì in pieno: io, diventata quadro dopo un inizio da segretaria, ero senza potere di firma. Eppure fui accusata di immonde turpitudini tese a orientare finanziamenti per fiere e similari. Che tecnicamente non sarei mai stata in grado, anche volendo, di fare.
Per fortuna mi trovavo in Spagna, a Girona, per un incontro internazionale di formazione. Una mattina all’alba arriva una telefonata di mio marito: alle cinque del mattino erano arrivati i carabinieri in casa per arrestarmi, e cercare eventuali documenti che io avrei potuto portare dall’ufficio. Ovviamente non c’era alcun documento, solo un marito e due bambini, una di 5 e uno di un anno soltanto, e una ragazza alla pari. Io resto attonita: non butto nemmeno una carta a terra, insegno le regole ai miei figli, non ho mai posteggiato in seconda fila…
Non mangio, non bevo, non dormo… L’avvocato mi consiglia di volare su Malta e da Malta a Catania, dove risiede il giovane PM che mi arrestò, sinceramente ancora oggi mi rifiuto di comprendere perché. Il motivo: “se torni su Roma poi ti traducono in treno con le manette”. Arrivo a Catania con lo spazzolino e il pigiama nella borsa, formalmente sono in stato di arresto. Un fantastico carabiniere pacchionello (a Palermo “pacchione” significa grassoccio, a Catania significa bello, e lui era entrambe le cose) è il mio “arrestante”: quando non sono in Tribunale devo restare con lui. Nella pausa porta me e mio marito in trattoria: “signora l’ho capito subito che Lei non c’entra nulla, ma il PM giovane troppo giovane è”. Un arresto, per mia fortuna, sui generis.
Dopo ore di interrogatorio (ma lei conosce un tale Siino? Certo, rispondo, è il ragioniere del quarto piano del palazzo… ma il PM invece intendeva il famoso mafioso), il mio accusatore va dal GIP il quale mi rimanda a casa. E il PM, urlando: “ma nemmeno i domiciliari diamo alla signora?”.
Tanti amici. Avevo in tasca una carta della mia amica pediatra che attestava come mio figlio piccolo avesse un difetto cardiaco (guarì poi a due anni e mezzo) e quindi non potevo andare in carcere. La mia amica giornalista di Rai Tre storpiò volutamente il mio nome al telegiornale per non dire che ero io… ma è stato un trauma terribile. Ancora più terribile quando il GIP si ammalò e quello nuovo, per non prendersi la fatica di derubricare, mandò tutti a giudizio. Il processo è andato avanti per anni, io non ci sono mai andata, ho cercato di cancellarlo e di continuare a vivere. Alla fine tutti assolti, e io assolta con le scuse. Rimborsi nulla, d’altra parte non avevo fatto nemmeno un giorno di prigione… Ma se sono sana di mente lo devo a mio marito, ai miei, agli amici e soprattutto al fatto che cercai di non pensare mai al processo. Ero certa di essere innocente, però fiduciosa nella giustizia no. E infatti durò dieci anni… che tristezza”.
Roberta Messina
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Refusi davvero notevoli nobilitano questa puntata di “Zanzare mostruose”. (Per i nuovi lettori: è una rassegna di titoli di giornale “sbagliati”, involontariamente comici o tragicamente incomprensibili. Prende il nome da un mitico titolo di prima pagina sul quotidiano milanese del secolo scorso La Notte: “Zanzare mostruose assediano Milano”).
Francesco ha trovato su Televideo:
ASSOLTO TRENO GB, NON RISULTANO ITALIANI
Trattavasi di un assalto, basta una vocale per trasportarci (in treno) dalla cronaca nera a quella giudiziaria. Lorenzo riferisce di un iniziale sommario dell’intervista di Gaia Piccardi a Pierfrancesco Favino, sul Corriere della Sera, laddove psicologia e geometria si confondono:
FAVINO: SONO STATO UN BUGIARDO CONICO
Sarà più o meno incorreggibile, il bugiardo conico, rispetto a quello cubico, o sferico? Sempre sul Corriere, edizione on line, Piero si è imbattuto in una variante imprevedibile dell’annosa questione altoatesina:
SCHÜTZEN: CHI SONO E QUANTI SONO I CAPELLI PIUMATI
Se piumare un cappello richiede pazienza e buone mani, piumare i capelli dev’essere davvero un lavoro da certosini. Passiamo a Repubblica on line. Dopo l’accoltellamento di piazza Gae Aulenti, il ministro degli Interni, come si usa dire, brancola nel buio:
PIANTEDOSI: DOPO LA CHIUSURA DEI MATRIMONI SERVE UNA TERZA VIA
Voleva dire i manicomi. Interessante, sul sito Primocanale, notato da Aldo, questa reiterazione, forse per i lettori duri di comprendonio:
TAMPONAMENTO A SAVONA: CORRIERA CONTRO AUTO
TRA I FERITI DUE DISABILI CON DISABILITÀ
Di non facile interpretazione, infine, questo titolo di cronaca sul sito di Valdelsa.net, del quale Marco manda lo screenshot:
CADE DA UN CAVALCAVIA SULLA FIRENZE-SIENA
TRENTADUENNE DOPO UN VOLO DI SETTE METRI
Ha compiuto trentadue anni mentre cadeva? Ne aveva solo trenta, e per lo spavento è invecchiato di due anni? Non lo sapremo mai.
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Fa freddino, ormai quasi freddo. I caki dei miei due caki (l’albero dei caki si chiama caki) sono di un magnifico arancione lucente, con sfumature ruggine e picchiettature di nero, e quasi dispiace doverli raccogliere. Se cadono dall’albero rischiano di spiaccicarsi, meglio prenderli poco prima della maturazione e farli ammorbidire in cantina, o in casa, bene adagiati su un supporto asciutto e poroso. Finché sono lucenti vuol dire che sono “indietro”, appena l’arancione diventa più diafano e più scuro, sono pronti da mangiare. A me non piacciono, sono troppo dolci, ma qui attorno ci sono degli estimatori, capeggiati da mia moglie.
Non ho mai capito perché tutti gli alberi di caki del mondo (ce ne sono tantissimi), ovunque si trovino, nei giardini, ai bordi dei campi, sono stracarichi di caki che nessuno raccoglie. Non ho mai visto nessuno raccogliere caki dagli alberi di caki. Da dove vengono dunque i caki dei fruttivendoli e dei supermercati? Dalla Cina? Da Marte? È una domanda del tipo (dal Giovane Holden): dove andranno le anatre di Central Park in inverno? Che poi si scopre che rimangono a Central Park. I caki dei supermercati sono dunque gli stessi caki degli alberi di caki: solo che qualcuno, da qualche parte, si è preso la briga di raccoglierli. Li vendono confezionati tre a tre, non saprei dire perché. Per coppie con figlio unico? Per coppie aperte, triangoli per fare arrabbiare Pillon? Perché quattro peserebbero troppo, si romperebbe il contenitore e si spiaccicherebbero?
Comunque sia: non lasciate cadere per terra i caki, che poi pulire è un disastro. E in alto i cuori.




