Errante, Storia del vecchio cognome
Una newsletter di
Errante, Storia del vecchio cognome
Michele Serra
Martedì 8 luglio 2025

Errante, Storia del vecchio cognome

«La rivendicazione identitaria non mi piace, non mi ci ritrovo, mi sento orgogliosamente meticcio e una delle poche cose che ho imparato nella vita è che il mito della purezza sarebbe, potendo, da cancellare»

Domenica 29 giugno, nella sala comunale di Polizzi Generosa, bel borgo pietroso nel cuore delle Madonie, ero più emozionato del previsto. Accadeva questo: poiché la famiglia di mio nonno materno veniva da Polizzi, la municipalità aveva deliberato di darmi la cittadinanza onoraria (prima di me era accaduto a Martin Scorsese, se ve lo dico è per pura vanteria).

Ora, non è che le radici siano un tema che mi appassiona particolarmente. Un poco perché le mie sono un garbuglio inestricabile: un nonno siciliano, una nonna francese, l’altro nonno sardo e una nonna piemontese. Mia madre ha fatto le elementari a Roma e a Parigi, poi è cresciuta a New York. Sua sorella, rimasta americana anche per convinzione, ha sposato un ebreo austriaco e di quei due zii stravaganti e girovaghi, che bevevano come Bukowski e fumavano come Gianni Mura, sono stato intimo quasi come un figlio. Ho un sacco di cugini sardi che non ho mai incontrato, un poco mi dispiace non conoscerli, ma non la considero una negligenza. E molti altri cugini torinesi e romani che non vedo e non sento quanto vorrei, ma quando accade è bello e abbiamo parecchie cose da raccontarci.

Nelle mie memorie infantili si incrociano il francese, l’inglese, l’italiano molto teutonico di mio zio, il patois nizzardo. Che volete che pensi, dunque, delle mie radici? Posso solo dire di sentirmi milanese per approdo: per studi, formazione, direi per mentalità. Ma, se devo proprio essere sincero, gli amici, nel mio percorso umano, hanno contato più dei parenti. E così accade, credo, a molti. Anche a voi, vero?

Per giunta “radici” e “identità” sono parole che, negli ultimi tempi, hanno assunto un significato provinciale, pavido, escludente. Con il rifiorire dei nazionalismi, brandire le radici e l’identità contro il resto del mondo è diventato uno sport piuttosto diffuso. L’odioso “Make America Great Again” è un poco il sunto di questa miseria: l’America è il 5 per cento dell’umanità, chi se ne frega, per dirla papale papale, dell’America? La rivendicazione identitaria non mi piace, non mi ci ritrovo, mi sento orgogliosamente meticcio e una delle poche cose che ho imparato nella vita è che il mito della purezza sarebbe, potendo, da cancellare. La vita è impura, promiscua. È contaminazione, incrocio, cambiamento. La vita è imperfetta, per questo è interessante viverla. Diffidate dei puri: o non hanno vissuto, o preparano una pulizia etnica, un pogrom, un repulisti.

Perché dunque ero così emozionato, nella sala comunale di Polizzi Generosa? Per due ragioni almeno. Una era l’accoglienza affettuosa, non formale (generosa, appunto) di una comunità piccola e vivace, molto attenta alla cultura: le vie del borgo sono piene di citazioni del polizzano Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), critico letterario, intellettuale e scrittore notevole (il suo Rubè è considerato uno dei romanzi più importanti del primo Novecento italiano). E chiunque veniva a salutarmi mi regalava un libro, oppure tanti libri: su Polizzi, sui polizzani, di polizzani, su Borgese, sulle Madonie, su tutto. Tanto che alla fine, di fronte al mezzo quintale (almeno) di carta rilegata che avevo avuto in dono, ho dovuto pregare il sindaco di spedirmi un quasi-container a casa, perché ammesso che fossi riuscito a trasportare all’aeroporto di Palermo tutti quei libri, non mi avrebbero imbarcato neanche pagando. Libri e pietre, pietre e libri, questo mi porto a casa da Polizzi: se nel resto di Italia si producessero libri in proporzione, la penisola sprofonderebbe per il peso, ma sprofonderebbe meno ignorante di come è ora.

La seconda ragione della mia emozione è che il sindaco, Gandolfo Librizzi (non poteva che chiamarsi Librizzi, il sindaco di Polizzi: è una crasi tra Libri e Polizzi), nel suo discorso molto bello e con un solo difetto (troppo generoso con me), a un certo punto ha detto che il mio rapporto con Polizzi è “germinale”. La parola mi ha colpito nel profondo. Nella sua evidenza biologica. Nella sua oggettività. Effettivamente il mio rapporto con quel posto così lontano da dove vivo e così lontano da come sono, un posto nel quale sono stato in tutta la vita per tre volte, è germinale. Vuol dire che ognuno di noi deriva da genitori – due corpi. E ogni genitore da altri due genitori. E quando mi hanno fotografato sotto il ritratto di mio trisnonno Vincenzo Errante, hanno effettivamente fotografato una matrice e un suo prodotto.

Ho ripensato a Giovanni Lindo Ferretti (già qui citato: è uno dei pochi miei reazionari di riferimento) e a quel suo verso formidabile, “non c’è lama che possa recidere la languida catena, generazione su generazione”. Effettivamente Vincenzo Errante, da Polizzi Generosa, senatore del Regno, fu, tra le tante altre cose, mio trisnonno. Suo figlio Celidonio era mio bisnonno; il figlio di Celidonio, Guido, era mio nonno; e la figlia di Guido, Anna Maria, era mia madre. Io poi, come è evidente non solo per me, ma per tutti, mi sono fatto la mia vita del tutto indipendentemente dai Vincenzo, dai Celidonio, dai Guido, e perfino da mia madre Anna Maria, la mia generatrice diretta, il corpo che mi ha partorito. Ma insomma, è stata un’emozione vera sentire che una delle mie radici mi tirava per i piedi. Mi diceva: qui attorno, cento, duecento, trecento anni fa, si preparava fisicamente il tuo arrivo. Non potevo oppormi a quella evidenza, e mi è piaciuto non oppormi.

Mi restano da dirvi due cose. Una è che gli Errante di Polizzi (pare arrivati sulle Madonie da Pisa; e a Pisa dalla Catalogna, nel Trecento, mercanti di cavalli; il mondo, da sempre, è un andirivieni pazzesco, un caos entusiasmante) hanno generato parecchi sovversivi, liberali turbolenti, qualcuno anche carcerato; e parecchi preti e suore. Per dire che gli orientamenti politici non sono genetici, sono personali. I sovversivi e i devoti possono derivare dagli stessi lombi.

La seconda cosa è molto divertente, e anche abbastanza istruttiva. Mi fu spiegato, da ragazzo, che io mi chiamo, all’anagrafe, Michele Serra Errante perché mio padre Franco Serra, per poter sposare mia madre Anna Maria Errante, doveva prendere anche il cognome della moglie: mia madre e sua sorella Mary erano le ultime della stirpe, e dunque, per non estinguere il cognome, il maschio Serra fu pregato di assumere anche il cognome della femmina Errante. Sono cresciuto nel mito di questo atto proto-femminista: io porto entrambi i cognomi, quello di mio padre Serra e di mia madre Errante, perché nel lontano 1949 il matrimonio tra i miei genitori poté essere celebrato solo a patto che mio padre accettasse di prendere anche il cognome di mia madre.
Bene. Peccato che non sia vero. A Polizzi, e anche negli anni immediatamente precedenti, ho scoperto decine di cugine e cugini Errante. Non è per niente vero che il cognome era in via di estinzione. Era una fola di mio nonno, una vanità presa per vera. Così è la tradizione: una invenzione che si perpetua. E le radici? Anche le radici vanno prese per quello che sono. Qualcosa di germinale. Di biologico. Di vero. Ma guai a costruirci sopra un’ideologia. Al massimo, ci si può costruire un cognome.

*****

Venerdì 4 luglio era annunciato, da tutti i siti meteo, come il giorno più caldo della famosa “ondata africana”. Esattamente in quel giorno avevamo programmato da tempo, con mia moglie, un trasloco a Milano, città notoriamente soggetta a canicole implacabili. Doverose avvertenze delle autorità, nonché vere e proprie delibere regionali, sconsigliavano o vietavano esplicitamente attività fisiche faticose nelle ore più calde, così che agricoltori, edili, giardinieri, manutentori stradali fossero al riparo dal caldo porco (per gli infiniti sinonimi di “caldo porco”, rinvio alla penultima e terzultima puntata di Ok Boomer!).

E i traslocatori? Alla vigilia, colti da scrupoli, e domandandoci se non fosse da scemi fare un trasloco il 4 di luglio (sì, è da scemi) abbiamo suggerito al traslocatore di rimandare. Io, che sono legalitario fino al ridicolo, già immaginavo l’irruzione della forza pubblica nell’androne; i traslocatori che depongono il divano della zia e si allontanano fischiettando; la mia identificazione come mandante del crimine; una sghignazzante campagna giornalistica di Qui Quo Qua (chiamo così, da decenni, i tre quotidiani di destra non tanto per dileggio, ma perché non sono mai riuscito a distinguerli l’uno dall’altro, dico sul serio) sul solito ipocrita di sinistra che mette a repentaglio la vita dei lavoratori.

Il traslocatore mi ha riposto più o meno così: “Rimandare? E perché? Mica lavoriamo sotto il sole. Certo si suda parecchio, ma siamo abituati. L’importante è finire presto così possiamo andare a casa presto per fare la doccia e riposare. Si fidi. Sappiamo quello che facciamo”. Ma la mia ansia, benché mitigata, non si è dissolta del tutto. Il trasloco arroventato (titolerebbero nove quotidiani su dieci) nella morsa dell’afa (titolerebbero dieci quotidiani su dieci) mi metteva una certa agitazione. Anche per me medesimo, che per una di quelle stupide attitudini dimostrative tipiche dei maschi, almeno un paio di lampadari, qualche sedia e una decina di scatoloni di libri (il peso della cultura è spaventoso) li avrei sicuramente trasportati personalmente.

Il giorno fatidico è arrivato e tutto è andato bene, direi meglio del previsto. Il caldo c’era, e picchiava duro. Ci si sentiva come ci si sente in quelle occasioni: fradici, appiccicosi e puzzolenti. E spossati come se con ogni stilla di sudore se ne andasse un pezzetto di te. Ma lavorare, in fondo, è anche una maniera di non soccombere al caldo. Di dire al caldo: “sono io che decido il da farsi, non tu”. Alle tre del pomeriggio di un luglio come questo è meglio non asfaltare strade, non lavorare nei campi, non salire su un tetto; ma trasportare il divano della zia invece sì, si può fare.

Conclusione: ho registrato un gap notevole (forse misurabile, ma non saprei come) tra la mia “ansia da caldo” e l’effettivo, concreto ostacolo che il caldo opponeva ai miei piani. L’ansia era eccessiva, da “prova estrema”, da sfida temeraria, e lo era, voglio aggiungere, per procurato allarme mediatico. Se si vive per un mese in mezzo a un coro che ripete “moriremo di caldo”, “caldo insopportabile”, “non uscite di casa”, “bevete molto” (come se, d’estate, la gente fosse incline a bere poco), si perde la giusta valutazione del problema. Che c’è, beninteso, e si chiama riscaldamento del pianeta. È oggettivamente vero, e dimostrato, che fa più caldo di prima. Detto questo, non credo che l’ansia, men che meno il panico, siano un buon metodo per affrontare le contrarietà, gli ostacoli e anche i pericoli. Non so più chi disse che la prudenza è una virtù, la paura un vizio.
Morale della favola. Ho stabilito definitivamente di non essere un negazionista climatico, ma di essere un negazionista mediatico. Il trasloco, in ogni modo, è andato bene, e il divano della zia fa ancora la sua figura.

*****

Le nuvole domenicali, con tuoni e lampi in lontananza, e certe ventate fresche che fendevano l’afa, confermavano l’annunciata rottura della cappa di caldo. Grandinata a Milano, temporali e trombe d’aria su quasi tutto il Nord, ma nella mia vallata ancora niente. Con qualche trepidazione per i vigneti attorno, e per il grano ancora da trebbiare, si aspetta l’acqua come una benedizione – ci si identifica con i prati riarsi, con la terra screpolata, con l’erba medica rinsecchita: il rapporto con il cielo, quando si vive in campagna e in montagna, è fisico.

Nel corso della giornata svariate telefonate con il vicino, devoto di tutti i siti meteo disponibili, alimentavano il dubbio che la pioggia potesse dimenticarsi di noi. A sera, nel crepuscolo, seduto sul prato davanti a casa con i tre cani attorno, è arrivata una zaffata inconfondibile: terra bagnata. Era il bagnato degli altri, però molto vicino, a portata di vento. La pioggia era in arrivo. Ho avuto l’impressione che lo stesso fremito unisse i cani e me, quattro bestie in attesa dello stesso sollievo: acqua dal cielo.
La notte ha piovuto parecchio, e stamattina, lunedì, il termometro segnava 18 gradi. Tutto era terso e fresco, tutto sembrava rinascere. Il canto degli uccelli mi è sembrato più giubilante del solito. In alto i cuori.

PS – Mi rendo conto di avervi parlato, questa settimana, solamente dei fatti miei. Niente lettere, niente Zanzare, niente politica, mi sono preso una vacanza dal resto del mondo. Ogni tanto ci vuole. Conto sulla vostra comprensione.