Dagli Appennini a Saint-Tropez
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Michele Serra
Martedì 30 dicembre 2025

Dagli Appennini a Saint-Tropez

«Siamo davvero nell’ora tra il cane e il lupo, in bilico, sospesi»

Brigitte Bardot e un lupo nel parco francese Les Loups du Gévaudan (Bernard Bisson/Sygma via Getty Images)
Brigitte Bardot e un lupo nel parco francese Les Loups du Gévaudan (Bernard Bisson/Sygma via Getty Images)

Domenica mattina, alle prime luci dell’alba, i cani hanno cominciato ad abbaiare forte, come capita quando intorno a casa passa qualcuno, uomini o bestie. Prima di farli uscire dal loro dormitorio mi sono accertato che non fosse il lupo, ma i soliti caprioli, l’origine di quella fragorosa caciara canina. Erano i caprioli, che al risveglio della casa e dei suoi abitanti si sono allontanati senza troppa fretta, forti di un vantaggio incolmabile: sono velocissimi, e credo che ormai abbiano classificato i miei cani come tre inoffensivi cialtroni. Rumorosissimi, ma molto più lenti di loro.

Non era il lupo, ma poteva esserlo. Sono tanti, i lupi dell’Appennino Emiliano. E predano ciò che trovano, fauna selvatica, animali di allevamento e anche animali domestici, cani e gatti. Proteine e grassi, che specialmente in inverno valgono la sopravvivenza. Dunque è buona cosa monitorare, per quanto possibile, i dintorni di casa, e non lasciare i cani in giro quando cala il buio (il gatto, inutile tentare di farlo ragionare. Ragiona solo per conto suo). È la famosa “ora tra il cane il lupo”, che nei paesi mitteleuropei indica, proverbialmente e per esteso, una condizione di confine e di incertezza: l’ora sospesa tra luce e tenebre nella quale il lupo esce allo scoperto e il cane rincasa. L’ora nella quale il domestico prevale sul forastico, ci si rintana e si condividono – uomini e cani – i vantaggi della civilizzazione. Là fuori, nel nero notturno che continua comunque a tessere una fitta trama di odori e di suoni, forse transita il lupo, con il suo passo leggero e veloce e gli occhi dal colore di resina e ambra.

Vi ho già raccontato almeno un paio di volte dei lupi, che sono, nella mia vita di campagna, al tempo stesso un privilegio e un problema. (Quando sono in città ho altri privilegi e altri problemi). Un privilegio, perché avvistare un lupo è una grande emozione estetica, oltre che un’emozione “culturale”: non è solo un’apparizione, è una vera e propria resurrezione, quella del lupo, che l’uomo ha saputo organizzare, in extremis, dopo avere sterminato metodicamente i lupi, lungo i secoli, in tutto il pianeta. Vederne uno significa incontrare di persona Madre Natura e sentirsi trapassati (e oltrepassati) dal suo sguardo splendido e illeggibile. Un’allusione all’eternità.

Un problema perché condividere lo stesso territorio con un predatore di grossa taglia (più grosso di lui, in Europa, solo l’orso) richiede accortezza, per la serie: niente panico, ma adattamento alle nuove condizioni che il ritorno del lupo in Europa, da almeno due decenni, ci impone. La paura è un vizio, la prudenza una virtù.
Se vi riparlo, oggi, del lupo, un poco è perché negli ultimi giorni qui attorno ci sono stati diversi avvistamenti, e la mia testa è piena di orme e ululati. Un poco perché sto leggendo un magnifico libro, Il lupo solitario di Adam Weymouth (Iperborea) che contiene un impressionante numero di informazioni sul lungo e complicato rapporto tra uomini e lupi. Weymouth è inglese, ha scritto e pubblicato molto sugli ambienti naturali e il loro mutare per mano dell’uomo, e come spesso capita ai divulgatori anglosassoni unisce alla grande capacità di approfondimento scientifico e alla sensibilità naturalistica una scrittura “popolare” nel senso più alto: fa capire a tutti cose che di norma sono note solo agli accademici.

Mi ha impressionato, perché si sposa perfettamente ai miei pensieri di questi giorni, questa citazione storica. Nel 1843, ovvero nel pieno della sconquassante appropriazione dell’America del Nord da parte della civiltà dei bianchi, il colono e cacciatore Sewell Newhouse, inventore di una trappola per lupi, scrive che la trappola, assieme all’ascia e alla vanga, fa parte della triade “che scaccia la barbarica solitudine e fa spazio al campo di grano, alla biblioteca e al pianoforte”. È al suo culmine l’idea (diciamolo: non solo comprensibile, anche seducente) che il progresso sia una marcia trionfale e la natura, con i suoi spazi infiniti, le sue leggi pre-umane, le sue durezze micidiali, sia una bestia da domare e sottomettere. Come nelle immagini del cacciatore che poggia il piede sul capo della belva abbattuta. La natura non ha “biblioteca e pianoforte”: è uno stadio di barbarie da superare, da lasciarsi alle spalle.

Quell’idea di natura ha largamente prevalso, almeno nella civiltà europea (con le sue infinite propaggini coloniali, l’America più di ogni altra) fino a poco, pochissimo tempo fa. Fino a che il concetto di “limiti dello sviluppo” ha cominciato a fare capolino nella cultura umana, con il suo corollario di prove a carico: l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, i danni ambientali, la finitezza delle materie prime e delle fonti energetiche, il malessere che comporta vedere estinguersi migliaia di specie, e deteriorarsi centinaia di habitat. L’uomo ha dovuto (anche saputo; ma soprattutto dovuto, perché costretto) rendersi conto di essere parte della natura. Non suo padrone, semmai suo responsabile: che è tutt’altra cosa, perché il padrone vuole essere servito, il responsabile sa anche servire.

Il lupo, nel mutamento profondo del cammino dell’uomo e della sua cultura, è potentemente simbolico. Ci chiede, riapparendo, di decidere: siamo disposti a pagare un prezzo, anche minimo, per la salvezza della natura? O siamo così viziati e così avidi da non concepire costi, solo guadagni? Da non sopportare rischi, solo comodità? La sua intelligenza e la sua versatilità ne hanno fatto il ladro per definizione, l’assassino che viola il gregge, la stalla, perfino il focolare (nel caso dei “Tre porcellini”…). Il simbolo stesso della irriducibile vocazione predatoria della natura, vita che si nutre di morte, vita che non si piega ad altre regole che a quelle della sopravvivenza. Per questo è stato ucciso con implacabile accanimento per millenni, in qualità di nemico numero uno.
Fino a quando esseri umani più sensibili e più intelligenti di altri, e anche più istruiti, hanno capito che con la natura, con quella “barbarica solitudine” della quale il lupo è la star indiscussa, l’amico geniale, noi dobbiamo convivere, se vogliamo salvare noi stessi. Perché la natura siamo noi: e quanto a predazione, invadenza, pericolosità, lo siamo al massimo grado. Chissà dunque che non riusciamo a diventare, al massimo grado, anche previdenti e lungimiranti.

Gli anni che stiamo vivendo sono di drammatica, appassionante transizione. Siamo davvero nell’ora tra il cane e il lupo, in bilico, sospesi. Impregnati di orgoglio tecnologico, storditi dall’avidità predatoria (L’ora dei predatori, il breve e fortunato saggio di Giuliano da Empoli sul potere dei nostri giorni, parla di uomini, non di animali), e al tempo stesso coscienti di quello che rischiamo di perdere, perdendo noi stessi: l’ordine naturale che governa la vita. La scommessa è riuscire a tenerci stretti sia il cane, che è la domesticazione, l’umanizzazione; sia il lupo, che è la natura in purezza: i suoi denti e il suo spirito, il suo sguardo di resina e ambra.

*****

Vi chiedevo lunedì scorso: sapete dirmi dove sono i giovani, a quali fonti si abbeverano per capire meglio il mondo? Perché io ne incontro pochi, nei musei, nei teatri, nei luoghi di cultura, e sono abbastanza stufo di starmene in mezzo ai vecchi, a raccontarci le cose che già sappiamo. Mi avete risposto in tantissimi, in larga parte giovani. Per colpa delle Feste (mi sembra di non essere uscito dalla mia cucina per una settimana) non ho avuto il tempo di dedicare alle vostre mail il tempo che meritavano, e di fare la solita selezione ragionata. Riprenderò il tema nel prossimo Ok Boomer!. Nel frattempo, come introduzione, ne ho scelta una che mi è molto piaciuta. Di un docente, dunque non di un giovane. È molto lunga, nonostante i miei tagli. Ma parla, eccome, dei giovani.

“Sono il direttore artistico di un’accademia di recitazione, regia e drammaturgia.
È un’accademia privata, con mio grande ma inevitabile dispiacere, quindi parte non secondaria dei presenti lavorano per mantenersi e per pagarla. È totalmente inutile descrivere il non-metodo formativo su cui si basa l’accademia (una mescolanza di Montessori, Winnicott, Brook, Hillman e Bollea che, giuro, non sono un pastrocchio indigeribile) ma c’è un pensiero di fondo: le allieve e gli allievi sono la priorità assoluta, una scuola è una buona scuola se rimuove gli ostacoli alla loro espressione più o meno talentuosa. Gli ego delle docenti e dei docenti devono stare un passo indietro. Non desideriamo che diventino come noi, ma che siano migliori, più interessanti, più efficaci. Il nostro compito è indicare e sostenere, non giudicare, ma considerare la responsabilità personale un valore imprescindibile. Sono brave, sono bravi”.
“Sono quindi immerso nel mondo dei giovani, per quanto ristretto a persone con vocazioni specifiche, dall’alba a notte. Ho imparato molto più di quanto ho insegnato, temo. Qui sono i giovani. Nei luoghi che accolgono e amano la loro gioventù come un valore aggiunto, non come un problema da sventare in nome di una non meglio definita maturità. Poi, sono a lavorare, i giovani, a fare le cameriere e le maschere in teatro, ad amarsi e odiarsi, a fare gli aperitivi, al cinema tantissimi, a teatro meno, ed è difficile dar loro torto, se non a guardare spettacoli che davvero vogliono comunicare con loro. Sono ai concerti che li rappresentano, dove sono andato anch’io, per divertirmi. E mi sono divertito. Questo paese odia i giovani con sincerità, li disprezza o li mercifica, e quanto, oddio, quanto li sottovaluta. I giovani si nascondono, cercano di capire, di essere contenti insieme, nonostante la quantità d’informazioni manipolatorie a cui vengono sottoposti, la nenia che gli ripetono tutti i vecchi che i loro genitori hanno lavorato duramente e alla fine hanno meritato la tranquillità economica, quindi anche loro devono stare con la testa bassa e lavorare. No, i genitori non hanno lavorato duramente, non tutti, e no, non è andata a finir bene, guarda che paese ci è capitato in sorte”.
“Sono fragili, si dice. Come saremmo noi nelle loro stesse condizioni? Con un paio di guerre insensate e strazianti, con i corsi contro il bullismo e governanti bulli che dominano la scena? Come saremmo noi a gestire la quantità infinita di contraddizioni che viene loro propinata ogni giorno? I giovani cercano di evitare la noia, non aspettano altro di qualcuno che gli dica perché il Beato Angelico è un genio, che glielo spieghi, che gli faccia avvertire Dante nella carne, senza distanza”.
“Qualche anno fa dovevamo scrivere e mettere in scena uno spettacolo su Pasolini. L’avevo deciso io. Leggemmo le poesie, studiammo la sua biografia, alcuni aneddoti sulla madre, sul fratello morto, sulla vita del padre, quel piccolo truffatore, i primi anni a Roma quando Pasolini insegnava. Poi guardammo l’enorme quantità di video su YouTube dei suoi interventi. Moravia che grida dopo la sua morte. Visitammo l’Idroscalo di Ostia e poi li portai al Biondo Tevere, dove Pasolini mangiò con Pelosi il suo ultimo pasto. Il ristoratore, figlio della ristoratrice e del ristoratore originale, ci mostrò il tavolo dov’era seduto, che conserva come una reliquia. Accennò anche al fatto che a un altro tavolo, lì accanto, Elsa Morante aveva studiato e scritto La storia. Pagai io il pranzo, nonostante non potessi permettermelo: erano 14, ma glielo dovevo. Ne venne uno spettacolo strano, tenero e terribile, imperfetto. Non spiegava nulla, non razionalmente. L’avevano fatto loro, raccontava un poeta con immensi pregi e oceanici difetti. Due allieve s’innamorarono di Pasolini. Che alla fine, ingiustamente, moriva”.
“Ecco, erano lì, i giovani. Facemmo solo due repliche, trecento persone in tutto, i genitori, certo, ma anche un paio di centinaia di giovani. Lo so, il mio è un campione infinitesimale e non risponde statisticamente alla domanda che hai posto. Ma con i giovani che conosco io ci vivo. Non so, alla fine, se è possibile, dalla mia età, rispondere alla tua domanda. Hai ragione, devi chiedere a loro”.
Lorenzo Gioielli

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Dei lupi ho già detto prima. Di altrettanto rilevante, nella natura qui attorno, niente. È solo un dettaglio il ritorno (dopo anni?) di un paio di gazze, elegantissime, che fanno la ronda nel prato davanti alla cucina. Non è un dettaglio per cince e pettirossi, che quando ci sono le gazze si tengono alla larga. L’altra notte siamo andati sottozero e ormai è un fatto eccezionale, gli ultimi inverni sono stati, grosso modo, un prolungamento ostinato dell’autunno, con le giornate più brevi.
A proposito di giornate più brevi, devo ai lettori due correzioni di miei errori. Avevo scritto che subito dopo il solstizio d’inverno (21 dicembre) il sole arriva un poco prima al mattino e se ne va un poco dopo alla sera. È vera solo la seconda parte: il tramonto tarda di qualche minuto già nei giorni subito successivi il solstizio; invece l’alba, prima di anticipare, esita ancora un po’. Il sole aspetta i primi di gennaio, l’anno nuovo, per decidere di alzarsi un poco più presto. Cose astronomiche. Secondo errore, avevo chiamato “anfiteatro” quello antico e pietroso di Segesta. È invece un teatro, con i gradoni che fronteggiano la scena posti a semicerchio. Anfiteatro è quando i gradoni circondano la scena per intero. Rimane intatta, nonostante l’inciampo, la mia ammirazione totale per il teatro di Segesta.

Ieri siamo riusciti a smaltire (tra donazioni, congelamenti e consumo familiare) i resti gastronomici del Natale, che erano una montagna. Il frigo sembra finalmente sollevato, libero dall’eccessiva responsabilità dei giorni scorsi. Rilucono, sui ripiani, poche e rassicuranti mele e arance, qualche avanzo di formaggio, un paio di uova. Poco altro. Un paesaggio di sobrietà, finalmente, dopo la cuccagna. Ci si sente sollevati. In alto i cuori.

PS – Stavo quasi per dimenticare Bardot. Dire che era bella è davvero poco. Era spontaneamente, infinitamente libera, forse la prima star così libera dagli uomini che poté amarne quanti ne voleva. Quando è morto uno di loro, Roger Vadim, gli ha dedicato uno degli epitaffi più belli che io abbia mai letto: “Ci rivedremo a Saint-Tropez”. Si rivedranno a Saint-Tropez: lei in blue jeans, t-shirt e ballerine, non aveva bisogno di nient’altro per essere Brigitte Bardot.