Gli scheletri dei Clash nel mio armadio
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Gli scheletri dei Clash nel mio armadio
Michele Serra
Martedì 26 marzo 2024

Gli scheletri dei Clash nel mio armadio

«Quel mio articolo, pubblicato con rilievo non nella pagina degli Spettacoli, ma nelle cronache nazionali del giornale del partito comunista, è zeppo di luoghi comuni e pregiudizi. C’è tutta la presunzione e la rigidità ideologica dei miei venticinque anni».

(© Future-Image via ZUMA Press)
(© Future-Image via ZUMA Press)

“Ma cosa diavolo hai scritto nel 1980 sul concerto dei Clash a Bologna?”, chiede mia moglie. Siccome da quando faccio questo lavoro – cioè da sempre – ho il costante terrore di scrivere scemenze, mi preoccupo. Quarantaquattro anni dopo, ancora mi preoccupo di quello che posso avere scritto quarantaquattro anni fa.
“Non ne ho la minima idea, di che cosa ho scritto nel 1980 sui Clash. Perché me lo chiedi?”.
Mi mette sotto il naso un articolo di Giuliano Santoro sul Manifesto. Presentando il prossimo concerto dei CCCP (è la reunion dell’anno) in piazza Maggiore, Santoro rievoca quello storico dei Clash, quasi mezzo secolo fa. “A testimonianza della poca apertura mentale di certa sinistra – scrive Santoro – resta la cronaca dell’esibizione vergata da un giovane cronista dell’Unità di nome Michele Serra. Gli passò davanti la storia e non se ne rese conto, consegnando alle stampe un testo pieno di luoghi comuni e pregiudizi. Serra scrisse: ‘Il concerto dei Clash nella sua ritualità scontata e sclerotica, nella sua violenza da dépliant alternativo, nei suoi isterismi risaputi, ha confermato tutti interi i limiti paurosi e l’ostinata chiusura della cosiddetta cultura rock”. Caspita, ragazzi… Ero davvero strano, nel 1980…

Vado a cercare quel mio remoto reportage da piazza Maggiore (nota bene: rileggerlo oggi è come se negli Ottanta del secolo scorso qualcuno avesse riletto un articolo degli anni Trenta). Se proprio volete farmi uno sgarbo, potete dargli un’occhiata anche voi nell’archivio on line dell’Unità. Perché Giuliano Santoro ha ragione: quel mio articolo, pubblicato con rilievo non nella pagina degli Spettacoli, ma nelle cronache nazionali del giornale del partito comunista, è zeppo di luoghi comuni e pregiudizi. C’è tutta la presunzione e la rigidità ideologica dei miei venticinque anni – i ventenni di allora, quasi tutti, avevano posizioni molto animose su quasi qualunque argomento. Un brutto articolo, dal quale Santoro, con suo pieno diritto, ha estratto le righe peggiori, quelle più sentenziose (quelle migliori non parlano di Joe Strummer, parlano di Bologna e delle sue vecchie pietre).

La rilettura mi è comunque servita. Non tanto per la piccola e forse ovvia soddisfazione di scoprire che le mie parole, strada facendo, hanno perso, appunto, quella detestabile sentenziosità, e spero guadagnato qualcosa in umanità (la morte delle ideologie qualche vantaggio lo ha portato). Quanto perché ho ritrovato una traccia ancora molto viva di quegli anni così accesi e così aspri – anche un brutto articolo può restituire memoria.
Il concerto dei Clash fu una specie di tentativo di pacificazione tra la Bologna istituzionale (la capitale del comunismo italiano) e i resti del movimento giovanile del Settantasette. Tre anni prima, in un tremendo marzo, c’erano stati i mezzi blindati militari in piazza. Negli scontri, molto violenti, era morto uno studente che era stato di Lotta Continua, Francesco Lorusso, colpito dalla pallottola di un carabiniere di leva. Per ragioni ancora oggi di non facile comprensione Bologna, nelle settimane che precedettero quei disordini, era stata nominata “capitale mondiale della repressione” dal movimento detto “del Settantasette”, fiancheggiato da un manipolo agguerrito di intellettuali gauchistes parigini (Guattari e Macciocchi i più loquaci). Città semmai consociativa e pigra (preti, comunisti e massoni molto ben disposti alla sopportazione reciproca), Bologna non meritava quella nomea assurda. Era ipocrita, ma non cattiva. Molti dei suoi oppositori “da sinistra” non erano ipocriti, ma cattivi.

Un mese prima dell’uccisione di Lorusso, il capo del sindacato social-comunista Cgil, Luciano Lama, era stato cacciato dalla Sapienza, a Roma, dai militanti di Autonomia operaia, più sparsi manipoli del nuovo movimento studentesco. Il clima era di resa dei conti tra sinistra istituzionale e sinistra radicale, tra il Pci di Berlinguer e le molto irrequiete frange politiche e intellettuali che lo trattavano da principale ostacolo di una imprecisata, eppure potente, rivolta antisistema. Un partito di burocrati traditori, sordo al vento impetuoso della rivoluzione. Chi era comunista del Pci – come me – visse con forte ostilità quell’accanimento “rivoluzionario” contro il maggiore partito comunista in Occidente. Sbagliare bersaglio, del resto, è da sempre l’attività prediletta degli estremisti; e questo lo penso, uguale uguale, anche quarantaquattro anni dopo. Anzi, quarantasette, se facciamo il conto partendo dal Settantasette.

Dei tanti capitoli dell’interminabile libro “sinistra fratricida”, quella fu forse, in Italia, la pagina più tragica e più imperdonabile. Un sordo urlarsi addosso senza mai capirsi, che introdusse gli anni della lotta armata. Divise persone, lasciò cicatrici. La cicatrice che segnava, anzi imprigionava quella mia remota cronaca giovanile, era appunto la frattura politica dolorosa, feroce, del Settantasette. Dei Clash non mi importava niente. Mi importava, tre anni dopo, ripetere la mia lezioncina “riformista” (dopo essermi sorbito un bel po’ di lezioncine “rivoluzionarie”) agli spiriti incendiari per altro oramai ridotti in cenere: stavano arrivando i festosi anni Ottanta, con Berlusconi e le sue televisioni in testa al corteo, a rimetterci tutti in riga, la sinistra di palazzo e quella dei tumulti. “Sarà il carisma di Mastro Lindo a organizzare la fila”, chioserà Francesco De Gregori nel 1989 in Bambini venite parvulos. Qualche segnale se ne era già avuto, in quel marzo del ’77, quando manifestanti gaudenti avevano innalzato sulle barricate il carrello dei bolliti appena rubato dal ristorante Al Cantunzein.

Io nel frattempo, siccome la vita è generosa, lungo gli anni Ottanta incontrai la satira, prima Tango e poi Cuore, che mi cambiò la testa, lo sguardo, la vita e anche la scrittura. Lavorai con Andrea Pazienza, lo spirito più poetico, beffardo e talentuoso di quella libera città, e con diversi altri artisti di area “settantasettina”, parecchi provenienti dal Male. Nella redazione di Cuore in via Castiglione, sotto i portici pacificati di Bologna, laddove ci eravamo trasferiti da Milano, convissero felicemente comunisti, anarchici, radicali, menefreghisti, profughi a vario titolo. Nessuno chiedeva a nessuno se era rivoluzionario o riformista. Nessuno pensava più che Bologna potesse essere, o essere stata, “capitale mondiale della repressione”. Una stronzata, consentitemi il termine vivace, tra le più rilevanti pronunciate in Italia nel corso del secolo ventesimo. Il solo vero difetto, deciso all’unanimità, era che la cucina bolognese fosse troppo unta.

A Cuore (grazie, grazie, grazie satira!) potemmo congedarci dagli anni di piombo rivoltandone qualche attitudine. Invece dell’esproprio proletario lanciammo, come pratica rivoluzionaria, l’Aggiunta Proletaria: invitavamo i lettori a restituire agli scaffali dei supermercati le merci in eccesso, acquistate compulsivamente. Ci arrivarono molte fotografie di ferri da stiro deposti tra i surgelati, calze da donna in mezzo alle pere, e nel caso di lettori più ordinati (riformisti?), calzini rimessi proprio nello scaffale dei calzini. Educatamente. Se avessimo potuto riportare al Cantunzein il carrello dei bolliti, lo avremmo fatto volentieri.

E in ogni modo, per dire che la politica passa, ma la vita rimane: Giuliano Santoro del Manifesto si definisce “comunista tendenza Joe Strummer” (Joe Strummer era il leader dei Clash). Fossi proprio costretto a definirmi, direi che sono di sinistra tendenza club Tenco. Nella mia interminabile, promiscua playlist, che va dai Nirvana a Massimo Ranieri a Miley Cyrus, ho controllato: le canzoni dei Clash sono solo due (le due più ovvie: London Calling e Rock the Casbah), quelle di De Gregori una quarantina. Édith Piaf ne ha quattro, il doppio dei Clash. Certi umori, certe inclinazioni, certi incontri orientano gli umani almeno quanto le idee politiche, e forse anche di più. Con un vantaggio – enorme – rispetto alla politica: che i Clash, De Gregori e Piaf possono convivere nella stessa playlist senza sgridarsi a vicenda. L’epoca delle lezioncine è finita. Almeno per quanto mi riguarda: è finita per sempre.

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Restiamo per un attimo a Bologna. Franco Grillini da Pianoro (un bolognese di montagna), presidente onorario di Arcigay, è uno dei leader storici del movimento gay in Italia. Racconta spesso, ridendo, che, in una delle prime assemblee di sinistra nelle quali si osava parlare di omosessualità, si alzò un vecchio comunista e gli disse, conciliante: “compagno, vorrei che fosse ben chiaro che io non ho niente contro i busoni” (termine popolare spregiativo usato in Emilia per gli omosessuali).
Grillini (che è del ’55, boomer al cubo) è tenace e spiritoso, qualità entrambe decisive per reggere l’urto del pregiudizio, e ribaltare il tavolo quando serve. In un’intervista di pochi giorni fa su Repubblica racconta a Maria Novella De Luca: “In Parlamento un leghista, che si chiamava Luigi Vascon, pensando di farmi un dispetto disse nel microfono: ‘Grillina, non fare la cretina’. E io: ‘Luisella, non fare la scema tu’. Risate in aula. A volte basta una battuta per cambiare il mondo”.
Temo che non basti una battuta per cambiare il mondo (chissà se “Luisella” è cambiata, per esempio). Certo, serve a non mostrare a chi offende una ferita, e a contrapporgli una risata. A non mostrarsi vinti, ma reattivi. Lenisce la suscettibilità e la mortificazione, li trasforma in un sorridente e legittimo senso di superiorità rispetto alla vera parte debole, che è chi offende.

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Tante, tantissime le vostre mail sulle radici (e/o la loro mancanza), il mio argomento della settimana scorsa. Storie di vita, di famiglie, di viaggi e di ritorni. È stata dura scegliere, ma come sempre ci ho provato. Le pubblicherei tutte se non avessi rispetto per il vostro tempo. Qui sotto ecco la mia selezione.

“Arrivo da un contesto familiare e sociale in cui l’appartenenza a un luogo (e la relativa identità?) hanno molta importanza, ma sono sempre stata insofferente all’idea di non potermi sentire libera di muovermi. Il mio equilibrio (o meglio, la sua ricerca) sta tutto nel riconoscere che entrambe queste dimensioni mi appartengono, e trovare il modo di farle convivere è l’unica salvezza possibile. La migliore sintesi che abbia mai trovato l’ho letta tanti anni fa, scritta con lo spray nero, su un muro di Milano: ‘Ho bisogno di una casa per poter girare il mondo’.”
Serena

“Siciliana (da uno spigoletto sul mare, Licata), ho vissuto tredici anni a Parma e due a Bari, ma il mio cruccio, già terminata la laurea triennale, era trovare il modo di tornare ‘a casa’. Mi mancava la mia terra arsa dal sole, il mio mare, ma soprattutto sentivo un peso, un senso di responsabilità: come fa a crescere qualcosa se nessuno se ne prende cura, se tutti coloro che hanno coscienza di cosa sia il bene pubblico scappano altrove? Della Sicilia cosa resta? Nulla resta! Un deserto, con promontori formati da rifiuti tossici. E dunque da un anno, anche grazie allo smart working e a una storia terminata, sono tornata alle radici, per mettere radici, anzi, per provare a piantare quanti più semi possibili. A volte mi sembra di essere una versione moderna di Don Chisciotte ma sono felice perché ci provo, e se riuscirò a influenzare anche solo una giovane mente, avrò fatto il mio dovere”.
Valentina Canta

“Io penso che esista eccome una efficientissima lama per tagliare ‘la languida catena’ delle generazioni: il tempo. Anch’io sono uno sradicato per cultura familiare e per scelta. Ho vissuto in Italia, Cina e ora in Norvegia. I luoghi lasciati per ansia di conoscenza smettono di esistere nella realtà e si annidano, congelati in un preciso lasso temporale, nelle nostre menti, di solito come piacevoli ricordi ripuliti da ogni stortura. Ma tornarci fisicamente è tremendo. Non sono più quelli che ricordavamo, tutto è cambiato o forse i nostri occhi non sono più in grado di vedere quel che c’era prima. Ci si trova dunque ad avere tante ‘memorie’ e nessun ‘luogo della memoria’. È il nirvana dei luoghi della memoria, dove la fisicità non ha più rilevanza e ci si trova a poter ricadere come foglie in autunno quasi in ogni luogo. Credo che il viaggiare ampli all’infinito la sensazione di casa, restituendoci la dimensione veramente universale della ‘energia del luogo’, che in fondo è questo nostro minuscolo globo terracqueo perso nel buio dell’universo”.
Aldo

“Comincio con una citazione che mi piace un sacco: ‘Il compito dei rami è di allontanarsi dalle radici’, da Il cinico degli Uochi Toki. Ma anche l’immagine del tornare al proprio terreno come foglie in autunno è altrettanto evocativa e attraente. Un ciclo di crescita e allontanamento, invecchiamento e ritorno. Questo racconto risuona con il fenomeno del ripopolamento delle aree interne da parte di giovani, che provano a portare/riportare in questi contesti la linfa accumulata lontano. Sono anche io vittima del richiamo rurale e agogno la semplicità e il contatto diretto con le cose che nella folle e assurda Milano mancano. Poi mi rimane la paura che la semplicità diventi sempliciotteria e che mi mancherà la biodiversità culturale cittadina. Ma tanto il problema non si pone perché mia moglie è ben radicata qui a Milano e quindi aspetto solo la prossima pandemia o il prossimo schianto di questo mondo”.
Stefano

“Sono Luca, classe ’93. In pieno Covid sono tornato nella piccola città di provincia dove sono cresciuto, dopo un periodo di lavoro all’estero tra realtà internazionali. Ho fatto la cosa giusta? È stato un fallimento? Ho sbagliato qualcosa? Mi sono giocato ‘la carriera’? Sono tanti gli interrogativi, ma la tua riflessione mi ha rincuorato e rassicurato: io qui mi sento a casa, incontrare le persone che conosco da sempre, vedere come cambia la mia piccola città, tutte queste cose mi danno un senso di comunità e di appartenenza”.
Luca

“Classe ’52, nata a Milano ‘per sbaglio’, veneziana da parte di padre, friulana da parte di madre, non mi sono mai sentita milanese, anzi! Ho sempre difeso le mie origini venete, con un certo orgoglio e molta testardaggine. Eppure il luogo dove da sempre sto bene, dove mi ritrovo, dove ho finalmente pace, è Ischia, che conosco dalla primissima infanzia e in cui mi sono definitivamente trasferita 14 anni fa. Non so perché. Certo c’entra la bellezza dei luoghi e soprattutto il calore della gente (che ha ovviamente i suoi bravi difetti), ma di tutti i luoghi in cui, anche per poco, ho vissuto, questo è l’unico in cui sono riuscita e tutt’ora riesco a posare la mente e… a non fare nulla, senza frenesia e senza sensi di colpa. Questo per dirti che non sono per forza le radici di nascita a farti trovare il ‘luogo perfetto’.”
Gina Menegazzi

“Nata a Parigi da genitori nati sui confini belgi e svizzeri e cresciuta in Vandea ma trapiantata in Italia da molti decenni, vorrei umilmente consigliarle di leggere Les mouchoirs rouges de Cholet dell’anarchico dichiarato Michel Ragon. Sono stanca di vedere nominare la mia regione come terra essenzialmente reazionaria. Le reazioni di poveri contadini alla leva obbligatoria decretata da un potere centrale distante hanno forse molto da insegnare, e lo dico da elettrice di sinistra indefessa. Chiuso questo capitolo, mi ritrovo francese per gli italiani e italiana per i francesi e va bene così. Aggiungerei che noi sradicati abbiamo forse un certo centro di gravità che ci spinge a scegliere i nostri luoghi del cuore, visto che (umorismo del destino) vivo nel Veneto, che un manifesto degli anni Settanta qualificava ‘la Vandea italiana’!”.
Sylvie Mazurelle

“Lo sradicamento e ‘la languida catena’ non si escludono. Credo che tutti quelli che sono partiti avvertano come, in queste due sensazioni, non ci sia contraddizione. Vivo in Alto Adige da sette anni e sono ormai sufficienti per non sentirmi piú cremasco, ma non abbastanza per sentirmi altoatesino. Eppure non mi sono mai sentito cosí lombardo (ocio, non lumbárd…) come ora. Credo sia proprio quella, la languida catena, e alla fine mi sta bene cosí. Grazie per aver condiviso il particolare biografico delle diverse case e diverse lingue della tua mamma. È una nota che ho ritrovato spesso: la propensione al trasloco ricorre in molte famiglie e cosí anche nella mia. Sarei meravigliato se i miei figli tra qualche anno non volessero partire. La voglia di scoprire il paese delle meraviglie e insieme la persistenza delle catene: questa volta la coerenza non serve”.
Matteo

“Fiorentino di nascita e di vita fino ai trent’anni, ho avuto l’opportunità di ‘sradicarmi’ ricevendo un’offerta di lavoro in zona Milano. Dai primi anni Novanta vivo in Lombardia, felicemente sposato. Mi sono trovato sempre benissimo in tutti i sensi, e mai un briciolo di rimpianto per com’è andata.
E poi? Poi….le radici all’improvviso. Alla vigilia della pensione quasi per caso ho comprato una casa nella campagna Toscana, non in quella campagna rileccata e pettinata che è diventato il Chianti, parlo del Mugello, Appennino, Toscana ancora vera, a mezz’ora da Firenze in un paesino di 800 abitanti. La faccio breve, si sono ‘scatenate’ le radici, c’è una inspiegabile aria di casa, sensazioni, odori, luoghi, parole e espressioni che avevo dimenticato, il gusto di ritrovare la natura che ricordavo, il piacere di ‘annusare’ i miei luoghi, tutto il repertorio completo di sensazioni che definirei avvolgenti. E la cosa principale è che io qui mi sento felice”.
Fabio

“Non solo sono un ‘senza radici’ in termini geografici (cresciuto tra Lombardia, Piemonte, Puglia, Lazio, Toscana, Veneto e Sardegna, in una famiglia con radici che arrivano fino all’Albania e a Strasburgo), ma anche in termini sociali, nobili da una parte, contadini dall’altra, non ho una casta di riferimento. Mi sono sempre trovato bene, sempre in bilico fra mondi diversi, capace quindi di capire terroni e polentoni, ricchi e poveri, saper vivere un po’ nelle scarpe degli altri, perché quelle innumerevoli scarpe sono state vestite dai genitori, dai nonni e dai bisnonni. Non nego però che sotto sotto ho sempre un po’ invidiato quel senso di appartenenza anche solo di chi ha un dialetto, di chi ha il suo ‘dove’ a cui tornare per sentirsi a casa. Il dove caldo e accogliente, un grembo culturale che ti calza a pennello, ti nutre e ti scalda con la sua prevedibilità. È un po’ come vedere per l’ennesima volta il tuo film preferito, è quel piacere lì, non devi preoccuparti di dove e come andranno a finire le cose. Perché vivere sempre sui confini e sui bordi è faticoso, quando tutto il mondo è casa, casa non c’è più, dopotutto”.
Stefano

“Condivisibile l’analisi del tuo sentire. Non vorrei però che le tue conclusioni oscurassero il detto (medievale?) ‘l’aria delle città rende liberi’. Segnali anche tu l’importanza delle città ma poi la lasci scivolare in secondo piano rispetto alle radici. La morte sembra insignificante se hai vissuto intensamente, al centro del mondo, circondato dall’umanità, in un cambiamento continuo. Queste condizioni le offrono solo le città”.
Giorgio Saracco

“Ammetto che più passa il tempo (a maggio saranno 67 anni) meno sento l’esigenza di avere punti di riferimento. Bisogna avere avuto infanzia e adolescenza felici, forse, per ricordarle come momento fondante a cui tornare; oppure esser dotati di una sensibilità poetica che mi è estranea. Sono e spero di diventare sempre più ‘sradicata’ dalle vicissitudini pratiche della mia vita, semplice eppure unica: nulla rinnego o rimpiango. Pochissimo ho viaggiato: trenta anni fa negli USA da turista intuii di sentirmi profondamente europea/italiana e questo tutto sommato non mi pare poco. Allora come ora sono i miei affetti – vicini o lontani – le mie radici. La fine arriverà quando vorrà; ovunque sia il luogo sarà la serenità del mio cuore a dare un senso. Spero che questa serenità cresca sempre più, come una grande quercia che dà ombra e sollievo”.
Maria Rita

“Sono nato in Monferrato, ho vissuto quasi la mia intera vita nella provincia di Novara, per poi pendolare come studente universitario a Milano e infine approdare a Piacenza dove vivo, lavoro e ho costruito la mia famiglia insieme a mia moglie, anche lei ‘fuggita’ da una Milano che sentiva sempre più opprimente. Per quanto ogni cosa sia più complicata (crescere due bambini senza nonni a portata di mano si sta rivelando molto più sfidante di quanto avremmo immaginato), continuiamo a sentire come prevalente il senso di libertà del poter costruire il nostro futuro in coerenza con i nostri progetti, le nostre ambizioni e le nostre necessità. Tuttavia, anche io non posso che pensare con un misto di invidia e nostalgia al concetto di radici: quante volte, dalla scuola d’arme di scherma storica alla squadra di rugby, passando per le varie associazioni ludiche, mi capita di confrontare lo stato ‘superficiale’ delle mie nuove amicizie con i legami pluriennali che legano le persone nate e vissute qui, legami che scorrono saldi e profondi come le radici delle querce da te citate! A quasi 37 anni, mi capita non di rado di chiedermi se le piccole radici che abbiamo piantato qui saranno in grado di resistere a eventuali periodi di maltempo”.
Marco

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Vale, per Zanzare mostruose, anche un titolo dell’agenzia di stampa della Corea del Nord, segnalato da Edoardo? Certo che vale.

LE GRANDI GUIDE, INSIEME AI QUADRI DEL PARTITO, DEL GOVERNO E DELL’ESERCITO, HANNO FATTO IL GIRO DELLA FATTORIA

Edoardo annota: sembra un film dei Monty Python. Concordo. L’articolo celebra la promozione della giovane figlia di Kim al prestigioso ruolo di “grande guida”. Gli appellativi ufficiali dei leader comunisti nordcoreani, che si succedono per via dinastica, fanno parte, meritatamente anche se inconsapevolmente, della storia della satira. Il fondatore, Kim Il Sung, è il solo che può fregiarsi dell’appellativo “Stella Polare dell’Umanità”. I suoi successori sul trono devono accontentarsi del titolo “Grand’uomo senza eguali”. “Grande guida”, al confronto, è appena un primo, timido step.

Francesco segnala, dal sito dell’Ansa, questo titolo (poi rivisto) aperto a ogni possibile interpretazione sportiva:

TENNIS: LIEVE MALORE PER BERRETTINI
INTERVIENE IL MEDICO E GIOCA

Il regolamento lo consente? E il medico, sarà all’altezza di sostituire Berrettini?

Infine, per la serie “contraddizioni della politica”, Lorenzo segnala questa locandina del Resto del Carlino (anche online):

NUOVI AUTOVELOX AD APRILE,
IL COMUNE ACCELERA

Andate piano, mi raccomando. Alla prossima.