Mettere radici
Una newsletter di
Mettere radici
Michele Serra
Martedì 19 marzo 2024

Mettere radici

«Quello che volevo raccontarvi è questo mio oscillare un poco schizofrenico tra uno sradicamento “di nascita”, che ho sempre vissuto come un privilegio, un antidoto perenne al provincialismo, una spinta alla libertà di pensiero e di azione. E però una profonda attrazione per il concetto stesso di “radici”»

(Christopher Furlong/Getty Images)
(Christopher Furlong/Getty Images)

“Sono arrivato a vedere me stesso come se stessi crescendo dalla terra, come gli animali e le piante nativi. Sono arrivato a sentire il mio corpo e i miei movimenti quotidiani come temporanee declinazioni e articolazioni dell’energia del luogo, che sarebbero ricaduti in esso come foglie in autunno”. Così scrive, nel suo ultimo libro Pensare in piccolo, di prossima uscita in Italia per Lindau, Wendell Berry, americano del Kentucky, poeta, contadino, professore, voce sonante dell’ambientalismo “storico” americano e della controcultura agricola, quella che si oppone alle pratiche intensive agroindustriali. (Mangiare è un atto agricolo è il titolo del suo libro più noto. Concetto difficile da capire nel nostro mondo così come è congegnato e specialmente negli Stati Uniti, laddove mangiare è diventato, sostanzialmente, solo un atto commerciale).

Mi piace, anzi mi emoziona l’idea che un essere umano riesca a sentirsi come “temporanea declinazione e articolazione dell’energia del luogo”. Un sentimento di appartenenza e di destinazione al tempo stesso, un viaggio che ha un capo e una coda. Ma la domanda che mi sono subito fatto – e quale mai sarebbe, il mio luogo? – ha una risposta secca: non ne esiste uno in particolare. O meglio, sì: ma è un luogo che ho scelto, insieme a mia moglie, nella maturità, sopra un crinale mai visto prima né da lei né da me, in uno dei pochi pezzi d’Italia nei quali non abbiamo parenti, o esperienze trascorse. È stata una decisione che definirei culturale e quasi artificiale, a farci mettere radici in un luogo “non nostro”. Una scelta felice, ma non una condizione naturale come quella di chi vive e muore dove è nato e dove sono nati e morti i suoi. «E non c’è lama che possa recidere la languida catena, generazione su generazione», come canta Giovanni Lindo Ferretti nella sua magnifica “Cronaca montana”.

Wendell Berry ha rinunciato al suo posto nell’establishment intellettuale e editoriale degli Stati Uniti: ovvero, diversi anni fa, ha rifiutato una cattedra a New York ed è tornato a vivere nel luogo dove è nato nel 1934 e dove è stato bambino, in una zona rurale del Kentucky. Si è riconsegnato alla sua “languida catena”. Le forti percezioni dell’infanzia, la meraviglia degli odori, degli spazi naturali, della promiscuità fisica tra gli uomini e le bestie, nell’ambiente piccolo e al tempo stesso “universale” in cui è venuto al mondo, lo hanno segnato al punto da riacciuffarlo, quel figlio transfuga, e farlo ritornare a casa.

Io vengo da una vita piuttosto mobile (prevalentemente milanese, ma romana per nascita e con un lungo tratto bolognese). Non sento catene che mi vincolino, radici che mi convochino e mi chiedano ragione del mio deambulare; e una madre apolide (Nizza, Roma, Parigi e New York le sue città di infanzia e giovinezza, parlava italiano, francese e inglese come tre lingue madri) può avermi trasmesso, semmai, il fascino, o la vertigine, dello sradicamento. Ci ho poi aggiunto, strada facendo, il convincimento politico che modernità e cosmopolitismo, democrazia e mobilità, vadano di pari passo; e negli ambienti chiusi, custoditi come tabernacoli, covino la diffidenza, la grettezza, il rifiuto degli altri. È un poco la vecchia storia di Parigi rivoluzionaria e della Vandea reazionaria. Declinata in svariate forme e svariati luoghi, lungo gli ultimi due secoli e mezzo, la cosa conserva una sua evidenza. Le grandi città votano quasi tutte “progressista”. Le zone rurali votano al contrario (se preferite: all’indietro). Se l’Iran fosse Teheran e la Turchia Istanbul e Ankara, per gli ayatollah e per Erdogan la partita sarebbe già perduta. Dunque lo so bene, quanto materiale anti moderno e perfino anti democratico ci sia, in ogni discorso che contiene la parola “radici”.

Eppure leggo Wendell Berry, ascolto Giovanni Lindo e avverto la profondità emotiva dell’appartenere fisicamente a un luogo. Nel quale la voce del tempo (generazione su generazione) diventa una specie di infrasuono come quello che evocano i tenores sardi quando si mettono in quadrato, braccia sulle spalle, ed è come se tirassero su da un pozzo, il pozzo del passato, quelle vibrazioni. L’idea che noi si possa “ricadere come foglie in autunno” nello stesso posto che ci ha visti nascere – l’albero è lo stesso – ha una circolarità che avvolge e consola. La morte sembra un poco meno insignificante, se si riallaccia alla nascita.

Dunque quello che volevo raccontarvi è questo mio oscillare un poco schizofrenico tra uno sradicamento “di nascita”, che ho sempre vissuto come un privilegio, un antidoto perenne al provincialismo, una spinta alla libertà di pensiero e di azione. E però una profonda attrazione per il concetto stesso di “radici”, per quel posto specifico e speciale nel quale ti senti te stesso con una nettezza, una precisione che altrove non avverti mai: l’altrove ti attira, ti affascina, ti cambia (spesso in meglio) ma se vuoi ritrovare un baricentro, uno specchio che ti riflette per davvero, il tuo posto è quello e solo quello.
Possibile chiusura del discorso: forse quel posto, per me, è la natura – che non è un luogo, è una condizione. Ha preso la forma e i nomi del luogo che mi sono scelto per vivere e spero per morire (avverrà nel 2652, secondo i miei calcoli). Avrebbe potuto essere anche un altro posto, ma mi va benissimo questo. C’è una vecchia grande quercia, ai margini del bosco, che mi vede passare davanti quasi ogni giorno, ormai da quindici anni. Non so se si sia accorta di me: deve averne visti passare tanti. Ma posso dire, con un certo grado di sicurezza, che assomiglia molto alle grandi vecchie querce del Kentucky.

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La mia dichiarazione di asettica neutralità sul “caso Ferragni”, dovuta a irrimediabile estraneità alla vicenda, ha riscosso notevoli adesioni. In diverse fasce di età, come per dire che vivere e formarsi nel ventunesimo secolo non costringe a prendere parte a tutte ma proprio tutte le sue vicende. Qui di seguito una scelta, molto tagliata, delle vostre mail.

“Premetto che Chiara Ferragni e tutto quello che ha costruito a livello social/mediatico mi lascia abbastanza indifferente. Banalmente: non sono in target. La cosa che mi sorprende è che se una decide di buttarsi nella fossa dei leoni (facendone un business di notevole successo) spogliandosi di qualsiasi protezione, poi non si capaciti del fatto che i leoni, per noia, per rigetto, per rivalsa, per fame (di protagonismo) al minimo passo falso decidano di farla a brandelli. Che fatica poi cercare di rimettere insieme i pezzi… Nella gogna che si è scatenata contro la influencer caduta in disgrazia (tralasciando torti o ragioni), il ‘sentiment’ che mi pare prevalga è ancora una volta quello dell’invidia sociale (certo, non che la Ferragni abbia fatto qualcosa per scongiurarla, eh…). Il successo sociale ed economico, magari raggiunto con merito, con il frutto del proprio ingegno o solo perché si arriva prima degli altri, da noi non è mai stato qualcosa da ammirare e tantomeno da riconoscere. Che l’arena faccia il tifo per i leoni non mi sorprende affatto”.
Marco

“Credo anche io che riguardo il ‘caso Ferragni’ mi manchino alcuni strumenti di lettura del nuovo mondo (nacqui nel 1952). Qualche anno fa, quando ancora bazzicavo su Facebook, osai scrivere che non capivo quale fosse la professione di Ferragni; fui travolto da un mare di insulti, anche da persone che non conoscevo per nulla, rimproverandomi di essere invidioso. A tutt’oggi non sono ancora in grado di capire che cavolo di mestiere faccia. Però piace(va) a una moltitudine di umani, gli stessi che ora che è caduta in disgrazia si spintonano per azzannarla alle caviglie. Per questo, solo per questo, mi sta diventando simpatica. A me le tricoteuses sotto il patibolo in attesa di teste rotolanti non sono mai piaciute”.
Mario Guanziroli

“Da millennial, classe 1992, mi viene da pensare che tutto questo interessamento all’affaire Ferragni sia da capire alla luce di un elemento che immagino avrai considerato: il voyeurismo che sta alla base del successo stesso di questa coppia, paradigma della instagrammabilità. Quel voyeurismo di chi ha rosicato per anni per l’erba sempre più verde del vicino, e quando gli si secca del tutto ne è ben contento. Fuor di proverbio: molti profili che vengono seguiti sui social apportano ben poco sul piano del contenuto, ma hanno successo perché si fondano su dinamiche sociali da vicini di casa. E quindi questa indagine in corso, questo “passo falso” dopo tutti i glitter, dà una segreta soddisfazione a chi ha guardato con invidia questa vita patinata per anni. Non ci bastano più i condòmini”.
Valentina (neoabbonata del Post)

“La tua riflessione sulla Ferragni mi ha fatto venire in mente un articolo che ho letto qualche anno fa (non troppi) su ‘Internazionale’. Era un breve saggio sui social e sul loro effetto livellante. Mentre idealmente ci si poteva attendere che garantire possibilità di espressione in maniera libera e facile a tutti avrebbe potuto fare emergere le eccellenze e chi avesse avuto qualcosa di veramente nuovo da dire, con l’effetto sperato di un progressivo aumento del livello dei contenuti, alla fine l’effetto dei social media si attesta in un senso non opposto, ma differente. Hanno fatto emergere ciò che più ci rassomiglia (intesi come massa) e rassicura, premiando la mediocrità e la banalità. Niente di nuovo, nessuna idea che cambia le cose, nessuna luce sul mondo o sui tempi che viviamo: i social sono uno specchio di noi. La chiacchiera da parrucchiere, ma a livello globale. Come ha chiosato (forse un po’ paradossalmente) una mia conoscente: la Ferragni mi piace perché è una persona normale, come noi… Forse i social media, al più, ci possono aiutare a capire qualcosa di più su chi siamo e come funzioniamo – e nel caso non sarebbe poco”.
Marco

“La sua ‘tirata’ sulla Ferragni la condivido solo in parte. In realtà io su di lei avevo puntato. Perfino Liliana Segre ci aveva investito qualcosa di importante come la sensibilizzazione dei giovani sulla shoah, e la Ferragni, forse senza rendersi completamente conto dell’investitura, aveva accettato. La signora Segre la definì una nipote affettuosa. Gli sbagli di Ferragni non sono roba ordinaria, purtroppo, perché i suoi follower ora saranno confusi, e tutto quello che poteva fare di utile al mondo, andrà perduto (come lacrime nella pioggia, tipo)”.
Gilda Liberatore

“Nessun effetto, odore o anche solo un accenno di emozione quando si legge o si sente ‘Ferragni’. E non è nemmeno una questione generazionale (sono del 1975): è proprio piatta merce da anni Venti del secolo in corso. Una domanda che mi è venuta in mente mentre riflettevo sul tuo essere uomo del 900: io che sono nato nello stesso tuo secolo e al momento ho vissuto mezza vita di là e (quasi) mezza dopo il 2000, a che secolo mi sento più vicino, a quello che mi ha dato le basi della vita adulta o a quello che ha rivoluzionato il nostro modo di comunicare, interagire e pensare? Temo di non avere (ancora) una risposta, magari il popolo della tua newsletter può aiutarmi. Saluti da Londra”.
Riccardo Cocco

“Condivido con lei l’assoluta indifferenza nei confronti della Ferragni, senza infamia e senza lode. Se si dovesse descrivere quale attività svolga, non saprei dire nulla. Sa solo approfittare delle frustrazioni di milioni di persone che la seguono e che si percepiscono vivi attraverso le vite degli altri. È un fenomeno che non capisco. L’unica capacità che le possiamo riconoscere è sapere ottimizzare le risorse provenienti dagli sponsor”.
Simonetta Cincinnati

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Nel caso qualcuno, dalle parti di Bologna, avesse del tempo da perdere, io questa sera, lunedì 18 marzo, alle ore 18 sarò al cinema Modernissimo di Bologna per parlare del mio ultimo libro, Ballate dei tempi che corrono, raccolta di tutte le mie poesie satiriche illustrate da Altan.

Torna Zanzare Mostruose. Per chi si fosse collegato con Ok Boomer! solo in tempi recenti: è una rassegna di titoli di giornale enfatici o sbagliati o sguaiati o strambi, eccetera. Il titolo deriva da una mitica prima pagina della Notte, quotidiano della sera di Milano, risalente a tanti anni fa. Titolo cubitale: ZANZARE MOSTRUOSE ASSEDIANO MILANO. Ineguagliabile negli anni, forse nei secoli.

Dario segnala, dal Gazzettino:

MALTEMPO A PADOVA, MUSEO DELLA NAVIGAZIONE: REPERTI SPOSTATI AL PIANO DI SOPRA PER EVITARE L’ACQUA

Qui non è il diligente titolista, è l’episodio in sé ad avere congegnato un titolo decisamente divertente (non per chi ha dovuto spostare i reperti al piano superiore).

Per via dell’ambiguità spesso possibile tra soggetto e complemento oggetto, si presta all’equivoco gastronomico un titolo di Repubblica.it segnalato da Mariella. È accompagnato dalla fotografia di un enorme pentolone messo sul fuoco, simile a quelli delle vignette sui cannibali che la Settimana Enigmistica pubblicava molti anni fa (ora forse, per correttezza politica, si è passati ad altri soggetti).

NELLA TRATTORIA DI NEW YORK DOVE CUCINANO LE NONNE DI TUTTO IL MONDO

Ancora una nonna è co-protagonista di un altro titolo di Repubblica.it. Che non è equivoco, è solo inverosimile come la maggior parte dei titoli strappalacrime sulle varie pet-stories. La segnalazione è mia.

IL CANE GREKA IN LUTTO PORTA LA PALLA ALLA FOTO DELLA NONNA MORTA PER GIOCARE ANCORA CON LEI DALL’ALDILÀ

Per gli animali la vita mediatica non è comunque mai facile. Gli orsi del Trentino, per esempio, ormai sollevano reazioni scomposte anche in fotografia. Alessandro segnala, dal Gazzettino:

UN ORSO FOTOGRAFATO NEL BOSCO, ALLARME SUL CANSIGLIO

Lo avessero fotografato a una pompa di benzina, o all’ufficio postale, o al bar, l’allarme sarebbe stato più condivisibile. Ma nemmeno nel bosco, povera bestia, può fare l’orso senza gettare nel panico l’intero Cansiglio?

Finale plebiscitario (nel senso che il titolo mi è stato segnalato da lettori e amici). Da Repubblica.it:

ROYAL FAMILY, IL RITORNO DELLA MARCHESA DI CHOLMONDELEY

Commento unanime: non sapevano che se ne fosse andata. E per dirla tutta, non abbiamo idea di chi sia.