Atreju è un’altra cosa
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Atreju è un’altra cosa
Michele Serra
Martedì 7 ottobre 2025

Atreju è un’altra cosa

«La politica ci vuole, la politica va rispettata. Ma uguale rispetto la politica, quando parla in veste ufficiale, con le sue cravatte e i suoi tailleurini, dovrebbe avere, almeno formalmente, per l’avventuroso fai-da-te di Flotilla»

Una barca della Global Sumud Flotilla davanti alle coste tunisine all'inizio di settembre del 2025 (Hasan Mrad/ZUMA Press Wire)
Una barca della Global Sumud Flotilla davanti alle coste tunisine all'inizio di settembre del 2025 (Hasan Mrad/ZUMA Press Wire)

È stata una settimana emotivamente intensa – forse anche troppo – perché l’avventura di Flotilla è stata molto intensa: forse anche troppo. Per me è stato impossibile non provare ansia e solidarietà per quelle persone, e per ragioni pre-politiche. Direi, banalmente, per ragioni umane. A partire dal fatto che mentre pensavo a loro, in mezzo al mare e ai droni, stavo con il culo al caldo, a casa mia.

La vita in barca è spesso severa e promiscua, sei lì, in pochi metri, e a quei pochi metri hai affidato te stesso. Se poi devi condividere, in quei pochi metri, anche un costante sentimento di pericolo, la quasi certezza dell’arrembaggio e del rapimento a mano armata, la percezione di un nemico al quale non hai dichiarato guerra, ma lui l’ha dichiarata a te, e ti chiama terrorista anche se sei la persona più pacifica del mondo, beh, deve essere stato un viaggio carico di tensione, oltre che di coraggio.
Sempre rimanendo in campo pre-politico, penso che gli sghignazzi e lo spregio che certi giornalisti e certi militanti governativi hanno dedicato a quei viaggiatori siano solo una conferma di ignobiltà. Liberi di considerare nemici, o poveri illusi, i pacifisti e gli attivisti a bordo, non di deprezzarne il valore e la generosità personale. Se è la logica della guerra, quella che occupa la scena, beh gli inermi di Flotilla, proprio perché disarmati, sono stati valorosi combattenti. Questo valore è stato ampiamente riconosciuto da milioni di persone, in tutta Europa, e tanto basta per dire che Flotilla ha vinto.

Poi arriva la politica, ovviamente. Con i suoi legittimi calcoli, i suoi compromessi, la sua freddezza e la sua razionalità. Le sue valutazioni, le sue trattative di pace (la pace neocoloniale di Trump e Netanyahu, meglio di niente se servisse, e ancora non è certo, ad allentare la stretta di distruzione e sterminio su Gaza). Non sono stati i trecento della spedizione di Carlo Pisacane (1857), massacrati dalla plebe filoborbonica a Sapri, è stato Cavour a costruire l’unità d’Italia. (In qualche momento di nero pessimismo si è temuto di dover paragonare la rotta suicida dei mazziniani verso Sapri a quella verso Gaza).
La politica ci vuole, la politica va rispettata. Ma uguale rispetto la politica, quando parla in veste ufficiale, con le sue cravatte e i suoi tailleurini, dovrebbe avere, almeno formalmente, per l’avventuroso fai-da-te di Flotilla. Ce l’ha avuto Macron, che sicuramente non annoverava, tra i francesi imbarcati, suoi elettori, ma ha intimato a Israele di non alzare un dito. Non ce l’ha avuto Meloni, incapace di uscire dal suo piccolo mondo militante. Tanto cianciare di “valore” e “coraggio”, purché non sia il valore e il coraggio degli altri. Atreju, l’intrepido ragazzino della Storia infinita diventato un gadget di partito, è solo una piccola trovata retorica prêt-à-porter, buona per far contenti i militanti. Poi la fiera chiude i battenti e si torna a fare dichiarazioni scontate nei telegiornali. Quando Atreju sono gli altri, basta un’alzata di spalle.

Infine, a proposito del ritorno alla necessaria lucidità della politica: lo striscione inneggiante al 7 ottobre, visto a Roma in coda alla magnifica manifestazione di sabato, faceva ribrezzo. C’è gente che ama il sangue, purché sia quello degli altri. Invece paragonare Hamas a Sandro Pertini, come qualcuno ha pubblicamente dichiarato l’altro giorno, faceva solo ridere. Per fortuna che, in mezzo alla tempesta e al dramma, c’è chi si fa carico del lato comico.

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La prima volta che ho visto Massimo Cavallaro è stato una trentina di anni fa, forse qualcosa di più. Era sul palcoscenico e suonava il sax, non ricordo in quale teatro milanese. Insieme a Piero Guerrera (alle percussioni) accompagnava Antonio Albanese nei suoi primi, fortunati tour teatrali. Massimo e Piero erano la colonna sonora di Epifanio e Alex Drastico. Io cominciavo a scrivere i miei primi testi per Albanese, tutto quello che accadeva sul palcoscenico mi sembrava meraviglioso e intenso, come se una luce d’oro accendesse le persone e le parole.

Eravamo giovani e quasi belli, Cavallaro bello per davvero, un siciliano biondo e gentile, signore come solo certi siciliani sanno essere. Ci siamo persi e ritrovati, con Massimo, lungo le varie stanze della vita (mamma mia quanto è lunga, la vita), e con lui era sempre facile ristabilire il piacere di abbracciarsi, e passare del tempo insieme. Continuava a fare musica ed era diventato l’organizzatore di un bel festival di suoni, parole e arte varia a Salina, la “sua” isola. Ricordo un bagno interminabile, davanti agli scogli, immersi in un’altra luce d’oro, durante un tramonto mediterraneo. Massimo era un grande nuotatore, mia moglie gli teneva dietro, io un poco meno, ero già tornato a sedermi sugli scogli quando loro ancora nuotavano al largo. Mi salutavano ridendo – pigro, sei pigro – a trecento metri dalla riva, in mezzo alle onde blu cobalto. La sera pesce e vino bianco, ci fermammo a Salina una settimana e tutti lo conoscevano, tutti lo salutavano, gli volevano bene.

Lo prendevo in giro perché – unico al mondo dopo gli anni Novanta – portava ancora il costume da bagno a slippino (rosso, se non ricordo male). Poteva permetterselo. Sorrideva di sé e sorrideva a tutti quanti, non gli ho mai sentito dire una cosa aspra o meschina, preferiva parlare solo delle cose belle. Se ne è andato pochi giorni fa, dopo una lunga malattia che ha sopportato, da par suo, sorridendo anche per conto di tutti quelli che non ci riuscivano. Lo vedo ancora che nuota al largo di Salina. Lascia, dietro di sé, una scia bionda, che si fa e si disfa nella luce del tramonto.

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Venerdì sera sono stato a Padova, alla Fiera delle Parole che Bruna Coscia organizza da anni con grande successo di pubblico. Sono salito sul palco brandendo la mia sola stampella residua (presto potrò fare a meno anche di quella) e ho letto un po’ di brani di Osso, il mio racconto sul rapporto antico e impagabile uomo-cane. Mentre leggevo, Alessandro Sanna disegnava (uomini e cani; e anche alberi, un mare di alberi) e Davide Antonio Pio stava al pianoforte. Bravissimi tutti e due, siamo stati bene e credo anche il pubblico, molto numeroso e attento, molto affettuoso (forse anche per merito della stampella).

Alla fine, durante il rito del firmacopie, più di una persona mi ha chiesto, con gli occhi lucidi, di dedicare il libro al suo cane, che non c’è più. È difficile, per chi non ha mai vissuto con un cane, capire quel genere di lutto. È un lutto fisico, perché la simbiosi con il cane è intensamente fisica. Vicinanza di corpi, di passi, di fiati, di odori, di giochi, di corse. E di riposi sull’erba. Niente a che vedere con il vuoto “filosofico” che lascia la morte umana. Il cane lascia un vuoto materiale, corporeo. I cani non conoscono metafisica, conoscono solo il mondo e i suoi odori. Li si ama per questo.

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Le Zanzare osservano un turno di riposo, come gli atleti quando sono stanchi. Vorrei dirvi quanto sono rosse e succose, quest’anno, le melagrane. Direi, così a occhio, che pomodori, funghi, more di rovo e melagrane si sono giovati assai, più di ogni altro frutto o fiore, di una primavera piovosissima, e come loro tantissimi fiori di campo. Se state pensando: adesso questo qui ricomincia con la solfa di quanto è bella la vita in campagna, state pensando giusto. Se invece state pensando che la vita in campagna è un privilegio da radical chic, state pensando sbagliato: ci si fa un notevole mazzo, a meno che ci si vesta da farmer della Louisiana e si passi su un calesse tra le maestranze chine nei campi che cantano il blues. Qui il blues lo canto io, e ogni lavoro ha un suo peso e pretende il suo tempo.

Le melagrane per esempio vanno sgranate, è un lavoro lungo e noioso ma fatto in compagnia può anche essere divertente. Importante un grande grembiule che copra magari anche le spalle, perché la melagrana, quando la apri e cominci a sgranarla, schizza un liquido rosso sangue, che macchia come poche altre cose. Ma è anche una delle cose più buone e più sane del mondo, il succo di melagrana fatto con l’estrattore, e riuscire a metterne in freezer una dozzina di litri è una delle solennità del mio anno agricolo. (Solenne: dal latino sollemnis, ciò che ricorre ogni anno, tutti gli anni).
Sì, la natura è solenne e il suo tempo è circolare. Appena passata una cosa, non fai in tempo a rimpiangerla che ne ritorna un’altra, e ci si sente giovani come l’anno prima. In alto i cuori.