Ricomincia l’NBA, dopo una pagliacciata

«Diciamo che un vostro vecchio amico dell’università sta separandosi dalla moglie. Voi lo portate fuori a bere e gli chiedete cos’è successo. “Pensa che io lavori troppo, non mi vede mai, è sempre sola, voleva che rallentassi i miei ritmi ma io non posso”. Siccome il vostro amico lavora in borsa 24 ore al giorno, ha senso. Voi dite le cose giuste, lo fate sentire meglio, lo ascoltate sfogarsi per due ore e finite pure per pagare il conto. Non lo vedete per altri cinque mesi, e quando accade il dialogo è questo:
Voi: Come sta andando col divorzio, è già ufficiale?
Lui: Nah, non se n’è fatto niente, sono rimasto a casa con lei.
Voi: Davvero? Pensavo ti avesse dato un ultimatum per lavorare meno…
Lui: Nah, va tutto bene, ora. Piuttosto, dimmi, che ne pensi dei Packers?
Pensereste che tutto questo sia strano, no? Benvenuti al lockout NBA 2011».

Le parole non sono mie, ma di quel genio di Bill Simmons (ne avevamo già parlato, ai tempi del lancio di Grantland). Però, giuro, non trovo un modo migliore per descrivere i 160 giorni di contrattazioni più o meno frenetiche risoltesi all’alba del 26 novembre scorso con la firma dell’accordo che finalmente riporta in campo la NBA, con la prima palla a due prevista per il giorno di Natale. Centosessanta giorni riassumibili in tre parole: “una”, “discreta”, “pagliacciata” (e, vedremo più avanti, neppure l’unica).

Semplificando: scaduto l’accordo collettivo che regolava la NBA, proprietari e Lega da una parte, giocatori (e agenti) dall’altra si ritrovano a doversi spartire una torta da 4 miliardi di dollari, ovvero l’ammontare – a spanne – del business NBA. Nel vecchio accordo, il 57 per cento del dessert finiva nelle tasche dei giocatori, sotto forma di stipendi, il 43 per cento alla Lega. Che al tavolo delle trattative, lamentando grossi buchi nei bilanci di 22 delle 30 squadre, lancia una proposta all’Associazione Giocatori: dal prossimo anno facciamo il contrario, 57 a noi, 43 a voi. Salute!

Ora – in medio stat virtus – un approccio ragionevole poteva suggerire un salomonico fifty-fifty e via, tutti in campo. Macché. Seguono giorni e giorni di contrattazioni, meeting interminabili, minacce e controminacce, tavoli abbandonati e poi di fretta riconvocati, perfino l’intervento di un mediatore esterno. Tutto inutile. Ancora il 25 novembre la disputa del campionato 2011-12 sembra in forte pericolo, con le due parti un po’ più vicine ma sempre arroccate sulle loro posizioni. Finché… Finché non si realizza che per rimettere in strada il carrozzone ci vuole almeno un mese e che il Natale passato in campo (cinque-partite-cinque in programma il 25 dicembre, in una giornata di festa, davanti a un pubblico televisivo, americano e globale, enorme) è un gran bel business che non ci si può permettere di perdere. Alle 3 di una fredda alba newyorchese ecco allora il gran capo NBA David Stern e il presidente dell’Associazione Giocatori Billy Hunter emergere stremati dall’ennesima riunione-fiume (15 ore) e stringersi, più o meno sorridenti, la mano, a favore di telecamere. L’accordo? Fifty-fifty, ovviamente (decimale in più, decimale in meno).

Così ora – per rimanere con Simmons – si può passare a parlare “dei Packers”. Ovvero di un campionato che inizia, come al solito, con mille temi interessanti: la difesa del titolo dei Dallas Mavericks (un po’ snobbati per essere i campioni in carica: i bookmaker di Vegas quotano la vittoria dei Miami Heat 2:1, quella dei Chicago Bulls 6:1 e mettono i Mavs solo alla pari con Los Angeles Lakers e Oklahoma City Thunder, 7:1); l’ennesimo assalto di LeBron James al suo primo anello di campione NBA; l’attesa di una conferma da parte delle due squadre più in ascesa della Lega, Bulls e Thunder; la reazione dei Lakers di Kobe Bryant umiliati (4-0) nei playoff dello scorso maggio dai futuri campioni; l’ultima chance per due squadre dal roster esperto (vecchio?) come Boston e San Antonio; la curiosità attorno ai nuovi New York Knicks. E poi i Clippers, certo – come dimenticarsi dei Clippers! Da sempre i cugini “sfigati” dei Lakers – con cui condividono la città e perfino il palazzetto, normalmente pieno di VIP per Kobe e soci, semi-deserto per loro – di colpo sono diventati l’argomento di tendenza nei circoli NBA. Il motivo? Un nome, Chris Paul, e una seconda (o quasi) “pagliacciata”.

Anche qui un passo indietro è necessario, almeno fino allo scorso dicembre, quando il proprietario dei New Orleans Hornets annuncia di voler passare la mano, e mettere in vendita la franchigia. Non ce la fa più: c’è stata Katrina, c’è la crisi, ci sono sempre meno soldi. Piccolo problema: non trova un acquirente. Nessuno. Se vendere non è possibile, l’alternativa ha una “s” davanti, svendere, ma poco piace al commissioner NBA David Stern che, piuttosto di veder deprezzare il valore di una delle 30 squadre della sua Lega, accetta che la stessa NBA diventi proprietaria degli Hornets. Il tutto, si intende, ad interim, in attesa di dare il suo “OK, il prezzo è giusto” a un eventuale compratore.

Secondo piccolo problema: il tempo passa e, mentre il compratore non arriva, arriva invece vicino alla scadenza il contratto della superstar della squadra, tale Chris Paul, appunto. Che, garbatamente, fa capire di voler essere ceduto altrove. Los Angeles, magari. Pensate che sogno, al fianco di Kobe Bryant. Certo, perché dei Lakers si parla – mica dei Clippers! – tanto che nel giro di pochi giorni i gialloviola di L.A. presentano l’offerta giusta: Pau Gasol, Lamar Odom e spiccioli (coinvolgendo anche una terza squadra, Houston) per arrivare a Paul. La notizia esplode, ai Lakers si brinda, l’affare è fatto. Se non che, all’ultimo secondo, la proprietà di New Orleans si oppone, e manda all’aria il tutto. Già, la proprietà di New Orleans, che altri non è se non la NBA, nella persona di David Stern! “Basketball reasons”, motivi tecnici, la sua spiegazione al rifiuto di cedere Paul ai Lakers: la contropartita, dice Stern (che qui parla da proprietario degli Hornets), non è di adeguato valore, mentre lo sarà pochi giorni dopo, davanti a una seconda offerta, sempre proveniente da Los Angeles, ma stavolta dai cugini poveri, i Clippers.

E così ecco – al netto di tutte le polemiche che ne sono seguite (“Il commissioner NBA sceglie arbitrariamente, secondo la sua volontà, dove gioca o non gioca una superstar della Lega!”) – il retroscena dietro la vera notizia di questa stagione che sta per partire: i Los Angeles Clippers sono la squadra che oggi ogni tifoso NBA vuole vedere, trascinata dalla coppia tutta schiacciate-e-spettacolo Chris Paul-Blake Griffin.

Vinceranno il campionato? Non se ne parla nemmeno, ma se già dovessero spuntarla nella “battle of Los Angeles” sarebbe una rivoluzione copernicana per il sistema NBA. Le prime risposte arrivano il 25 dicembre: Buon Natale!

Mauro Bevacqua

Nato a Milano, nel 1973, fa il giornalista, dirige il mensile Rivista Ufficiale NBA e guarda con interesse al mondo (sportivo, americano, ma non solo).