Il fantasma di Oklahoma City

La storia è questa. Nel weekend hanno preso il via i playoff NBA, i primi della carriera per Danilo Gallinari, passato da New York a Denver nel corso della stagione. I suoi Nuggets, al primo turno, se la devono vedere contro gli Oklahoma City Thunder che, in virtù di un record migliore, hanno il vantaggio del fattore campo. Ovvero 18.203 (e ci sono tutti) tifosi scatenati, alla Oklahoma City Arena. Ma non solo. Perché oltre ai propri fan e al parquet amico, i Thunder possono contare sullo Skirvin Hotel. Ovvero: il posto dove Gallinari e compagni (come fanno altre 28 squadre NBA) dormono quando sono in trasferta nell’Oklahoma. Solo che allo Skirvin…

“Sì, le ho sentite le storie”, mi dice il “Gallo”. Storie? Chiedo aiuto alla Storia, con la S maiuscola. Lo Skirvin festeggerebbe quest’anno il secolo di vita, se non avesse chiuso nel 1988 per riaprire, completamente rinnovato, nel 2007 (come Hilton Skirvin). Deve nome ed esistenza alla volontà di un petroliere, W.B. Skirvin, e se durante i suoi giorni gloriosi ha visto passare per le proprie stanze big del calibro di Luciano Pavorotti e Mikhail Baryshnikov, in quelli bui non si contavano più gli homeless accampati nella hall. Si dice che Skirvin, verso la fine degli anni Venti, in pieno proibizionismo, ebbe un’avventura con una delle donne di servizio del suo albergo, che restò incinta. Per evitare lo scandalo che ne sarebbe derivato, il petroliere non trovò di meglio che rinchiudere la signorina – e di lì a nove mesi, pure il neonato – in una delle stanze all’ultimo piano (allora, il decimo), impedendole di uscire. La donna, il cui nome mai confermato dai registri dell’hotel si è tramandato come Effie, non riuscì a sopportare a lungo la reclusione, cadde in depressione e finì per buttarsi da una finestra dell’hotel insieme al figlio, trovando così libertà solo nella morte. Da allora…

“I fantasmi, lo so…”, il divertito commento di Gallinari, che mi arriva ieri notte via Skype. Che poi lapidario aggiunge: “Tutte cagate!”. Non tutti però la pensano così. Brandon Bass, nerboruto omaccione oltre i due metri e vicino ai 110 chili, ricorda così – “Me la sono fatta addosso” – la sua ultima trasferta, avvalorando la tesi che vuole strane presenze misteriose e il costante pianto di un bimbo tra le “amenities” non richieste dell’hotel. Ancora l’anno scorso, due compagni di squadra di Gallinari con New York, Jared Jeffries e Eddy Curry, non trovarono di meglio che incolpare il fantasma di Effie per spiegare la sconfitta dei Knicks contro i Thunder. “Quel posto fa paura, è maledetto: certo che ci credo!”, dichiarò Jeffries, mentre Curry (gigante di 2.11 per 130 chili) confessò di aver dormito solo 2 ore e di aver trascorso il resto della nottata nella stanza di un suo compagno (il piccoletto Nate Robinson, che supera appena l’1.70 – “size DON’T matter!”): “Ero l’unico della squadra a dormire al decimo, il piano da cui dicono si sia buttata”. “Finirono per cambiare albergo”, mi confessa il “Gallo”, particolare mai uscito (per decenza, suppongo) neppure sulla stampa USA.

Strategia seguita anche da Denver? Macché. In attesa di giocare la seconda partita della serie – dopo aver perso la prima – i Nuggets restano tutti tranquillamente alloggiati allo Skirvin. E il più tranquillo sembra proprio Gallinari: “Se il fantasma viene a trovarmi gli do una lezione a carte”.

Mauro Bevacqua

Nato a Milano, nel 1973, fa il giornalista, dirige il mensile Rivista Ufficiale NBA e guarda con interesse al mondo (sportivo, americano, ma non solo).