Un atteggiamento che spesso riemerge, tra gli appassionati di fumetto, è il vittimismo culturale: i fumetti sono stati troppo bistrattati, eccetera eccetera. Ma al di là di una certa autoindulgenza un po’ nerd, è vero che, nella sua storia, il fumetto è stato oggetto di dibattiti pubblici particolarmente violenti. Lo testimoniano due libri in uscita in questi giorni. Che vi faranno ricredere sulla virulenza di ‘casi mediatici’ degli anni 2000 come Grand Theft Auto o Harry Potter.
Il primo è “Psychopathia Sexualis” (Purple Press – Castelvecchi). Si tratta di un fumetto di Miguel Angel Martìn, illustratore spagnolo, che racconta vicende disperatamente violente di serial killer, pedofili e altri aguzzini compulsivi, colti nell’oscena eccitazione per i propri delitti, in un asettico futuro dal bianco accecante. Nel 1995 venne pubblicato in Italia dalla piccola etichetta alternativa Topolin Edizioni. E in un battibaleno si beccò una sequela di denunce che non si vedevano dai tempi del Salò di Pasolini o di Ultimo Tango a Parigi: pubblicazione di spettacoli osceni; contenuto impressionante o raccapricciante; pornografia minorile – e altre amene ipotesi di reato.
Martìn era già un autore stimato in Spagna (mostre di Psychopathia ricevettero supporto da Ministero della Cultura e Comune di Barcellona) ma in Italia fu dipinto come pericoloso istigatore, e il suo editore si ritrovò oggetto di una brutale perquisizione domestica, trattato come fiancheggiatore della peggio feccia. Quasi invisibile a intellettuali e giornalisti, poco avvezzi a coprire un episodio di censura concernente il fumetto, l’editore – che nel frattempo ha cambiato mestiere – trovò per fortuna il supporto di disegnatori (tra cui Manara), scrittori (Covacich) e musicisti (Elisa, Prozac+ e Tre Allegri Ragazzi Morti), racimolando il denaro per pagare parte delle spese legali con cui, nell’arco di 6 anni, è riuscito a vedersi assolto in Cassazione. Il volume mi pare prezioso perché raccoglie alcuni materiali e testimonianze di questa vicenda, non ancora del tutto conclusa: resta aperto un procedimento per offesa al pudore.
Il secondo libro è invece “Maledetti fumetti! Come la grande paura per i ‘giornaletti’ cambiò la società statunitense” (Tunuè). La storia è quella della campagna moralizzatrice che travolse il fumetto USA nei primi anni 50, lasciando in piedi solo 250 delle 650 testate che popolavano allora il mercato. Una vicenda emblematica per cogliere il lato moralista degli anni del maccartismo, raccontata dal critico David Hajdu una volta per tutte, in uno dei testi fumettologici più belli degli ultimi anni, tra saggio storico e indagine generazionale. ”Maledetti fumetti” è infatti un racconto molto ben documentato e avvincente di quegli anni di boom del fumetto di genere tra i lettori preadolescenti (anche 100 milioni di copie al mese, tra comics bellici, western, fantascientifici, polizieschi e horror). Anni in cui i comics erano il principale intrattenimento a buon mercato e, sottovalutati dai genitori, uno spazio di fantasia e libertà per un pubblico di ragazzini cui la neonata tv non aveva ancora rivolto un’offerta ampia e coinvolgente.
Nel cocktail micidiale composto dal disprezzo intellettuale per la cultura di massa, dalle preoccupazioni per la criminalità urbana che fioriva tra le pieghe del boom economico, e dalla crescente ribellione giovanile alle tradizionali routines familiari, si generarono le prime polemiche: indimenticabile l’articolo “Orrore al nido d’infanzia” dello psichiatra progressista Fredric Wertham, che nel 1948 accese l’attenzione mediatica sui comic books. In questo contesto alcuni politici di spicco – come Estes Kefauver, candidato democratico alla presidenza nel 1956 (già protagonista delle prime primarie presidenziali della storia USA, nel ‘52) – soffiarono parecchio sul fuoco, creando commissioni d’inchiesta, riprese in tv, che fecero a dir poco furore.
L’effetto fu un’eccitazione mediatica che potrebbe essere paragonata a un perverso mix tra Mani Pulite e il delitto di Cogne: afflati moralizzanti, delega in bianco ai leader d’opinione, qualunquismo, morbosità di massa. E proprio il fuoco, a un certo punto, prese a divampare: iniziarono i roghi di fumetti, ritenuti da alcuni insegnanti, genitori e religiosi i responsabili diretti di analfabetismo, delinquenza e altre deviazioni sociali (omosessualità, comunismo, ma anche, perché no, nazismo e sadismo). In alcune aree – Los Angeles, per esempio – si arrivò a vietare la vendita di comics ai minorenni; in altre, si stabilirono pene fino a un anno di carcere e 500 dollari di multa, e l’impossibilità di usare termini (nei titoli degli albi) come crimine, terrore, orrore, sesso. Insomma: più facile fumarsi una sigaretta o scolarsi una bottiglia di wiskey, in quegli anni, per un 14enne. Come ha sintetizzato Hajdu: “Nascosti e cifrati all’interno di molti degli attacchi ai giornalini a fumetti visti come causa della delinquenza giovanile non c’era solo la paura di quel che i giovani lettori di fumetti potessero diventare, ma anche di quel che fossero già: una generazione di persone che stavano sviluppando i propri gusti e interessi, e che erano determinate a goderseli.”
La lettura di Psychopathia Sexualis, quindi, la consiglio solo agli stomaci forti: è a dir poco fastidioso ricordarsi quanto schifose possano essere certe pulsioni umane. Ma la sensazione che si ha con “Maledetti fumetti” è, forse, sottilmente più inquietante: credo faccia sempre impressione ricordare quanto ingenui e paurosi siano alcuni uomini, e come le conseguenze della paura – opportunamente ‘massaggiata’ da media e politica – possano produrre incontrollabili ondate emotive di massa.
Il sonno della ragione genera mostri – per quanto splendidamente disegnati.