Blade Runner 2049

Cos’è. È il seguito di Blade Runner, film del 1982 diretto da Ridley Scott e tratto da Il cacciatore di androidi (Do androids dream of electric sheep?) di Philip K. Dick. Scritto da Hampton Fancher (Blade Runner) e Michael Green (American Gods, Alien: Covenant), il film racconta di K, un cacciatore di androidi (Ryan Gosling) che appartiene a una generazione più evoluta e mansueta di macchine biologiche, e va a cercare quelle più obsolete e imprevedibili per eliminarle. Durante la caccia il “blade runner” finirà per andare alla ricerca di sé stesso, come aveva fatto Deckard nel primo film. Nel cast ci sono anche Robin Wright, Ana de Armas e Jared Leto, oltre a Harrison Ford.

Diretto da Denis Villeneuve (Arrival) con la fotografia di Roger Deakins (Sicario), Blade Runner 2049 ha le scenografie di Dennis Gassner e la musica di Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch.

Com’è. Riprendere in mano certi immaginari è complicato. Anche Blade Runner, come Star Wars, era un piccolo film coraggioso di un giovane autore visionario: una condizione che può produrre film di culto che si stampano nell’immaginario del pubblico, ma che è molto difficile da simulare quando si hanno altri budget e altre aspettative. E proprio Ridley Scott, che qui è produttore esecutivo, ha recentemente cercato con risultati ammirevoli di fare a pezzi il mondo del suo Alien nel giro di due soli film diretti in proprio. Denis Villeneuve però è uno dei registi con le idee più chiare in circolazione, e affidando a lui Blade Runner 2049 si è evitato di sfarinare l’immaginario di partenza con un’estetica traballante.

Il film è ambientato in una mondo dove riscaldamento globale, inquinamento e fine degli idrocarburi hanno precipitato l’umanità in una tavolozza cromatica che va dal giallo della sabbia fino al nero opaco, passando per gradazioni di grigio e blu. Non si vede lo splendere del sole e mancano le piante. Siamo in un contesto simile a quello del film originale ma dotato di una sua anima più fosca e rassegnata. Ci sono le proiezioni e gli ologrammi che passano di categoria e diventano personaggi. C’è un’architettura che è degna erede di quella di Syd Mead, e riempie con altrettanta forza gli occhi. Polvere, neve e pioggia rendono l’atmosfera densa, e il protagonista la attraversa pazientemente per spostarsi da un punto all’altro alla ricerca di piccoli indizi, mentre il film prende la forma di una specie di inseguimento a rallentatore.

La recitazione di Ryan Gosling è sempre fatta di poco, ma anche il resto del cast tende a interpretare la propria natura di umano o androide con una compostezza che a volte risulta fredda. Ana de Armas (la fidanzata artificiale Joi) e Dave Bautista sono i più convincenti, mentre Jared Leto interpreta un cattivo guru sicuramente non originale ma interpretato in modo particolarmente inconsistente.

Le inquadrature sono impeccabili, maestose, senza un movimento di macchina superfluo, e questa coerenza accompagna presto lo spettatore nella claustrofobia avvolgente tipica di Villeneuve. La musica è fatta di sintetizzatori violenti. Spesso frequenze profondissime scuotono azioni e dialoghi molto formali, in sintonia con un film spettacolare da una parte ma molto austero dall’altra.

Perché vederlo. Denis Villeneuve ha la capacità di costruire dei mondi interi senza scomporsi, di essere denso senza diventare pesante, e questa volta ha realizzato il suo film più pittorico, più espressionista. È un film che lascia a bocca aperta per la forza di mondi, inquadrature, architetture, punti di vista: un film da mangiare con gli occhi, da rivedere con e senza audio, da lasciare come sottofondo visivo durante le feste.

Perché non vederlo. Sia che si abbia ben presente il riferimento originale, sia che lo si affronti senza preparazione, Blade Runner 2049 è un’ammirevole delusione. Anche se non ci sono facilonerie dal punto di vista estetico, e anzi il film ha uno stile e una coerenza rari, ci sono molti problemi che impediscono di penetrare la barriera che divide il nostro mondo di spettatori dal perfetto diorama che si muove sullo schermo. L’austerità del cast, la linearità esile della trama, lo straniamento della recitazione di quasi tutti producono un effetto di distanza e disinteresse rispetto agli eventi raccontati. Il vecchio film era pieno di personaggi e dettagli che uscivano dall’ordine prestabilito, ricalcando perfettamente quell’imperscrutabilità della realtà che è il tratto più moderno della scrittura di Philip Dick, e anche quello che fa di ogni personaggio uno scrigno misterioso. Qui invece sono tutti impassibili e diligenti, e solo quando compare Harrison Ford sembra che sia arrivato qualcuno cui frega qualcosa. Perché mancano gli oracoli, i simboli, le ossessioni, i bastioni di Orione, i robot che davano carattere al primo film, e non c’è niente di altrettanto pulsante a sostituirli.

Basti paragonare la scena del test di umanità di Blade Runner e la verifica attitudinale che segue le missioni di K in questo film: nel primo caso è un momento che inquadra e drammatizza il conflitto tra esseri umani e macchine, e mostra la ricerca di identità delle macchine che è il nocciolo straziante del film; nel secondo è una sequenza ritmica, ossessiva, che non dice nulla di sostanziale dei personaggi. Per quanto meticolosi e incisivi possano essere, lo stile e la regia di Blade Runner 2049 non sostengono due ore e tre quarti di eventi trascurabili.

Una battuta. Non hai mai visto un miracolo.

Matteo Bordone

Matteo Bordone è nato a Varese negli anni della crisi petrolifera. Vive a Milano con due gatti e molti ciclidi. Lavora da anni a Radio2 Rai e a volte in televisione. Scrive in alcuni posti, tra cui questo, di cultura popolare, tecnologia, videogiochi, musica e cinema.