Non è una recensione di “In esilio” di Simone Lenzi

Qualche giorno fa avevo voglia di leggere il nuovo libro di Simone Lenzi, In esilio. Se non ti ci mandano, vacci da solo (Rizzoli). Avrò incontrato Simone Lenzi un paio di volte, una delle quali a un pranzo con tanta gente in Toscana. Colline, vigneti, una piscina elegante con la vista sulla valle. In effetti, una di quelle case nate per essere un esilio ma poi il nostro amico comune si è scocciato e la usa per organizzare due pranzi l’anno, che ci vogliono tre ore di macchina per arrivare. Ma non era di questo che volevo parlare.

Qualche giorno fa avevo questa impellenza di leggere e quando mi capita accendo il computer e compro un’edizione Kindle. Più spesso avviene con i saggi accademici. A un certo punto all’inizio degli anni 2000 sono arrivate le banche dati elettroniche e con esse la sensazione che andare in biblioteca sia un’insopportabile fatica di Sisifo (il testo difficile da trovare ti deluderà); sempre di quegli anni è l’irritazione insormontabile se quello che vuoi leggere non è davanti ai tuoi occhi un istante dopo il desiderio.
Per i romanzi l’impellenza è rara, allora ordino su Amazon o persino trascino le gambe alla Feltrinelli sotto l’ufficio. Ma qualche giorno fa avevo l’impellenza, e allora Kindle.
Mentre leggevo, come mi capita ogni volta, mi chiedevo cosa ci fosse che non andava con la lettura su Kindle, un sottoinsieme della questione più generale di cosa non vada con Internet sul telefono, i social o semplicemente lo schermo dal quale siamo catturati ore e ore al giorno. Con Kindle è la stessa domanda a lasciarmi perplesso: perché deve esserci qualcosa che non va?

Infatti, mentre mi mancano le tante cose che non faccio, o che avrei fatto nel 1972, mentre scorro le cento spigolature su Twitter sul fatto del giorno, Kindle dovrebbe essere neutro: lo schermo sembra un libro, ti consente di leggere di più e la lettura per l’uomo bianco che ha fatto il liceo è una specie di vacca sacra: va sempre bene, è sempre positiva (e genera autostima). Ora a me piacerebbe parlare del libro di Lenzi, ma non lo farò perché è letteratura e io ho parecchio amor proprio. Parlo solo di cose su cui penso di avere non dico competenza, ma almeno l’impressione di una certa comprensione. “Sempre pattinare sul ghiaccio spesso” diceva un mio maestro che ora sta assai su Facebook. E io leggo ogni giorno pensose riflessioni sulla politica, sull’economia, sulla storia che, come direbbe un altro maestro, “non sono neanche sbagliate”. Sbagliare è una cosa che capita soprattutto ai grandi (Marx e Weber mi vengono in mente), anzi più sono grandi e importanti, più sbagliano. Il campo di noialtri piccolissimi invece è quello delle mezze piccole ragioni. Ma non avere neanche torto no. Ho troppo amor proprio, o forse è vanità, per rischiare (meglio, avere la ragionevole certezza) che questa sarebbe l’opinione fondata su un mio post che parli di letteratura (o musica, o cinema).

Sono consapevole con questo di violare la regola fondativa della nostra epoca, per la quale ognuno deve parlare di qualsiasi cosa perché tutto ci riguarda (e in effetti di letteratura, cinema e musica ne consumo abbastanza), ma mi rimane l’idea che mangiare la torta e saperla cucinare non sia la stessa cosa. Di conseguenza, in quanto scribacchiatore timido mi sento ogni giorno fuori posto davanti a un buon 50% delle cose che leggo. Ma cosa avrei fatto, nel 1972, di questo tempo passato a leggere cose che non sono neanche sbagliate, non lo so. Fatto sta che questo libro di Lenzi mi è piaciuto molto perché mi ha fatto capire delle cose (non solo per questo mi è piaciuto).
Una delle cose che amo di Kindle è la facilità di sottolineare e recuperare le citazioni. Circa in fondo al libro c’è una frase che mi ha fatto capire alcune cose sulla fine che sto facendo, o che vorrei fare. Parla Lenzi della “infelicità costitutiva di tutti quelli che si sentono speciali e portano in giro il loro lagnoso narcisismo, da un ristorantino all’altro, da una mostra all’altra, da una presentazione all’altra, come criceti sulla ruota, in attesa di una fine pietosa che li tolga dalla loro compiaciuta sofferenza”.

Dopo poche altre pagine, o meglio “Posizioni”, molto belle, il libro finisce. Stop. End. Prima di andare via compra l’altro libro di Lenzi. Ecco, è stata una fine improvvisa, ci sono rimasto male, mi sono prima dispiaciuto e poi irritato. Ed è stata una fine improvvisa perché stavo leggendo su Kindle e, non essendo un giallo, non potevo sapere che il libro stava finendo. Se avessi avuto il libro di carta invece, avrei letto quelle pagine molto belle con un’emozione diversa, con un’aspettativa diversa, che magari vai a sapere sarebbe stata delusa, ma non lo saprò mai perché questa tecnologia me le
ha tolte quelle emozioni, anzi me le ha negate.

Nonostante l’Internet sia il luogo dei censori, spero non mi biasimerete perché non controllo in continuazione in quale “Posizione” del libro mi trovi, quella citazione era in effetti nella “Pos. 1882 di 2007”. Ma questa non è un’indicazione di niente, perché non abbiamo nella nostra testa un’idea platonica di “Pos.”, non abbiamo l’intuizione della durata di una “Pos.” come le nostre mani ce l’hanno delle pagine che abbiamo letto e di quelle che restano da leggere.

Dicevo che ho incontrato Simone Lenzi un paio di volte tra cui quel pranzo, poi ci è capitato di piacerci dei tweet, ci siamo dati di gomito virtuale con commenti arguti sulla politica o qualcos’altro. Nel 1972 invece, avrei probabilmente letto il libro senza avere idea di chi fosse l’autore, a quel pranzo c’era un sacco di gente. E questo avere sempre attorno, sia pur attraverso lo schermo, decine e decine di persone vecchie e nuove, con ammiccamenti scemi e riflessioni colte, messaggi brevi e messaggi lunghi, è qualcosa di cui siamo contenti e infatti nessuno ne fa veramente a meno: è la fine che stiamo facendo, tutti assieme. In altre parole, io pur avendone abbastanza dello schermo che mi distoglie da tante altre cose che non so quali sarebbero, non sento alcuna mancanza del 1972 in cui non ero ancora nato. E non so bene cosa farci di questa nostalgia che non lo è.

Marco Simoni

Appassionato di economia politica, in teoria e pratica; romano di nascita e cuore, familiare col mondo anglosassone. Su Twitter è @marcosimoni_