Non ho seguito la direzione del PDL se non nelle cronache dei giornali e nell’imperdibile video su YouTube con Fini che si alza in piedi col dito puntato. Non ho difficoltà, comunque, a convenire con l’analisi di Luca Sofri: sotto le urla, niente. Non un progetto comprensibile, non un’analisi politica, solo propaganda e discorsi di facciata. Tuttavia, questa analisi pone un quesito ancora più impellente: come è possibile che un partito così vuoto di contenuti riesca a godere di un consenso così corposo e continuato? E quindi, di riflesso: cosa dovrebbe fare il PD ora che il maggior partito di governo appare così diviso al suo interno?
Per cominciare, si potrebbe osservare che il PD è diviso ancora maggiormente del PDL. Per dirne una: non è ancora riuscito a trovare la strada per un’equilibrata convivenza tra gli esponenti più vivaci e di successo (nel senso del consenso elettorale) delle nuove generazioni, e una vecchia guardia che continua a non tollerare ogni iniziativa politica che sfugge al suo controllo. Inoltre, fa abbastanza impressione sentire Bersani che a tre anni dalla fondazione del PD, e a oltre un anno dalla sua candidatura a segretario, conclude la direzione del partito suggerendo che “serve un progetto per l’Italia” mentre qualsiasi persona di buon senso si aspetterebbe di sentirselo spiegare, questo progetto.
Il dato evidente è dunque che, al netto della capacità retorica e della maestria nel titillare le corde della nostalgia, sensibili in una significativa porzione dell’elettorato di centrosinistra e dei suoi militanti, l’attuale classe dirigente del PD non ha alcuna capacità né di svolgere una analisi approfondita sull’Italia contemporanea, né di individuare soluzioni che parlino ai mondi ai quali si riferiscano, e siano immediatamente comprensibili ai cittadini – a tutti i cittadini, anche quelli che non voteranno mai PD. Se un progetto per l’Italia non è stato elaborato in oltre un anno di congresso, infatti, penso sia ragionevole smettere di aspettarlo, perlomeno da parte di queste persone.
A questo siamo, quindi. Il PDL non se la passa bene, il PD non ha alcun progetto per l’Italia, e dunque per vincere le elezioni e sottrarre il potere alla destra trova più utile impegnarsi in altro: comunicazione politica audace, alleanze onnicomprensive, giochi di palazzo, eccetera. La vetrina vuota della direzione del PDL però non ci inganni: la politica non è scomparsa, ma ha semplicemente cambiato riti e luoghi.
Uno sguardo veloce ai risultati del governo Berlusconi mostra infatti un progetto chiaro e perseguito con coerenza. Un progetto di conservazione sociale, in cui si protegge ogni rendita acquisita. Un progetto difeso e sostenuto dalle principali corporazioni italiane, compresa larga parte dei sindacati, e che ha come effetto non voluto – ma evidente – l’esplosione delle disuguaglianze, secondo qualsiasi metro le si voglia misurare.
Un progetto conservatore che, in maniera non sorprendente, adotta una narrazione populista, individua nemici di classe (i radical-chic) e gradini inferiori da schiacciare (gli immigrati), con un’araba fenice – panacea irreale dei problemi del paese – che per sostenersi ha bisogno di non essere mai raggiunta: il federalismo.
Questo progetto non si basa solo sul leaderismo carismatico di Berlusconi: per quanto questa sia la sua narrazione pubblica – al netto delle uscite di Fini, ormai – solo una lettura superficiale e ingenua può sostenere che la leadership di Berlusconi sia incontrastata e totale. Al contrario, i conflitti politici e distributivi, la cui mediazione è rappresentata da Bersluconi e dal consenso popolare che tale mediazione riesce a raccogliere, avvengono in altri luoghi. Non nelle direzioni del partito, in maniera molto parziale sui giornali di area, certamente non attraverso una dialettica pubblica. Per questa ragione, al di là della sostanza del contendere, la rottura di Fini è più grave di quel che sembra, e potrebbe portare con sé conseguenze serie per la tenuta del governo.