Perché il femminile di “medico” suona tanto male?

C’è un’associazione di giovani medici di famiglia che nella sua ultima assemblea generale, un paio di settimane fa, ha scelto di modificare il proprio statuto per inserire il femminile della parola “medico”, cioè “medica”. Suona strano, vero? Un po’ anche a me, ma da un po’ di tempo a questa parte è una parola che cerco di usare. C’entrano le elezioni amministrative del 2016.

Ora ve la spiego. Nel 2015 mi capitò di lavorare per la prima volta nella redazione di un giornale. Non era ancora il Post, ma una testata dove, al contrario del Post, le norme redazionali su come scrivere gli articoli sono rigide e c’è addirittura una lista di istruzioni che si può consultare quando si ha un dubbio. A un occhio esterno alcune di queste regole possono sembrare strane (io ad esempio mi sono dimenticata come mai si potesse usare il verbo “cominciare” e non il verbo “iniziare”, o forse era viceversa, probabilmente perché mi sembrava che la scelta di escluderne uno fosse un po’ arbitraria) ma la maggior parte si fondano su un’aderenza coerente e ragionata alle regole della grammatica italiana. Una di queste regole è usare il femminile delle professioni. Per questo, anche se all’epoca mi suonava strano, dato che non mi era mai capitato prima di scriverle e dirle ad alta voce, cominciai a usare “avvocata”, “sindaca” e “ministra”.

Lavorando nei giornali si fa parecchia attenzione alle parole, per forza di cose, e in questi anni è stato inevitabile notare che l’uso di “sindaca” e “ministra”, prima ancora di altri femminili, si è molto diffuso sui giornali: c’entrano le elezioni amministrative del 2016 perché furono quelle con cui vennero elette due sindache in due grandi città italiane, Roma e Torino. La notiziabilità di queste elezioni portò a un intenso piccolo dibattito su come chiamare le nuove elette, molto sentito perché bisognava parlare di loro molto spesso sui giornali e in TV: non so quale sia la vostra percezione (viviamo tutti dentro bolle, più o meno grandi) ma a me pare che ora ci siano molti meno dubbi lessicali, sulle sindache*. Nel 2015, quando mi capitava di scrivere «la sindaca di Barcellona Ada Colau», quella parola mi suonava strana ma usandola, nel tempo, ha smesso di esserlo e trovandomi a scriverla mi capitava sempre più spesso di notare quanto semplificasse le cose, eliminando ambiguità e aggiungendo chiarezza al discorso. Lo stesso vale per tutti gli altri femminili delle professioni, anche se alcuni sono più difficili da usare di altri.

“Medica”, chissà perché, è una di queste. Qualcuno, che magari apprezza il Post per il suo impegno a usare, nello scritto, la lingua che si parla, evitando la espressioni di plastica e certi sinonimi che si vedono solo in una lingua scritta un po’ pigra, forse vorrà suggerire di usare il termine “dottoressa”, usatissimo nel parlato. È vero, toglie l’ambiguità sul genere, ma non è un termine preciso: si può usare per tutte le laureate e il corrispettivo “dottore” non sarebbe mai usato in un articolo su un medico, perché giustamente considerato poco preciso. Il più delle volte quello che si fa è cercare una scorciatoia: la specialità. E così negli articoli non si parla di “mediche” o di “medici donne” (che è goffo, innaturale e poco bello da vedere, andiamo) ma di ginecologhe, otorinolaringoiatre, chirurghe e cardiologhe. Questo trucco però lascia fuori le mediche di base.

Un estratto di “Il sessismo nella lingua italiana” di Alma Sabatini, realizzato nel 1987 per la Commissione nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna

Il Movimento Giotto, l’associazione di medici di base che ha deciso di usare il termine “medica” nel suo statuto, ha realizzato un video di approfondimento sulla questione. Contiene un’intervista alla linguista Cecilia Robustelli, docente all’Università di Modena e Reggio Emilia e collaboratrice dell’Accademia della Crusca. Tra le altre cose Robustelli chiarisce che dal punto di vista morfologico, cioè della forma della lingua italiana, “ministra”, “sindaca” e “medica” sono termini corretti: sono semplicemente il femminile, con la desinenza “-a”, di maschili che hanno la desinenza “-o”. Dice anche che è normale che certe parole suonino strane («rugginose, spigolose») anche se corrette, se non si sono mai usate.

Nel video Robustelli si augura che l’uso di “medica” si diffonda perché aiuterebbe a riempire un «vuoto terminologico» che esiste e dice anche una cosa interessante sulla diffusione dei femminili delle professioni in generali: l’Accademia della Crusca può dire che sono corretti e consigliarne l’uso, le femministe possono usarli nei loro comunicati e certi giornalisti nei loro articoli, ma entreranno nell’uso generale solo se saranno compatibili con la sensibilità socioculturale delle persone che parlano la lingua tutti i giorni. Cioè: parole come “medica” diventeranno comuni e smetteranno di suonare male se una buona parte delle persone che parlano l’italiano sentirà l’esigenza di usarle.

Su quest’ultimo punto ho qualche perplessità perché, come il caso di “sindaca” ha dimostrato, le parole possono diffondersi anche a partire dai media. È successo moltissime volte in passato. Certo, poi è più difficile che una medica di base finisca sulle prime pagine dei quotidiani rispetto a una sindaca di Roma, quindi probabilmente ci vorrebbe comunque più tempo.

All’interno della redazione del Post si dibatte spesso sull’uso delle parole e ovviamente la direzione ha l’ultima parola. Non ci sono però norme redazionali rigide e in alcuni casi i redattori hanno uno spazio di libertà, quindi può capitare che in due articoli la stessa cosa sia scritta in modo diverso (qualcuno una volta ha usato “medica” in un articolo, ma solitamente non capita). Il nostro lavoro quotidiano comunque fa capire bene quanto la lingua ribolla nel suo cambiare continuamente, anche se lentamente.

“Medica” suona ancora strano – anche se ora a me già molto meno, dopo averlo scritto più di dieci volte in questo post – però forse ci serve. Come ci servirebbe un modo per parlare del proprio capo quando questo capo (una parola che a rispettare la grammatica non avrebbe il femminile) è una donna, cosa che fortunatamente capita sempre più spesso nel mondo. Io sento sempre più spesso “la mia capa”: lo trovo brutto e soprattutto scorretto (sono una di quelle persone un po’ fissate con la grammatica) ma nella mia bolla è già nell’uso. Faremo una deroga come tante di quelle che abbiamo già fatto nel corso dei secoli e metteremo questa parola nei dizionari? Forse sì.


 

* È vero, i documenti ufficiali, di ministeri e comuni, sono ancora al maschile, ma quello che conta è il modo in cui le persone parlano: se i testi cerimoniali e giuridici saranno aggiornati tra dieci o trent’anni poco importa.

Ludovica Lugli

Nata a Modena nel 1991, se fosse nata nel 1941 avrebbe fatto la libraia. Ha studiato fisica per un po’, ma forse avrebbe dovuto scegliere biologia dato che gli animali le piacciono più del grafene.