E fu per ignoranza o per sfortuna

Voglio raccontarvi il concerto di Venditti all’Arena di Verona, perché un’allegra catastrofe così non l’avevo mai vista. L’idea era di celebrare i 40 anni di Sotto il segno dei pesci, il disco con cui fece allora un gran successo e lo spostò verso la sua formidabile carriera pop e mainstream successiva dai primi dischi di cantautorato impegnato che gli avevano già ottenuto primi posti in classifica grazie a “Lilly”.
Inciso: io “a Venditti gli voglio bene”, come scrissi tanti anni fa, perché le cose belle che ha fatto sono così belle che non mi importa niente di quelle più insignificanti che hanno prevalso da un certo punto in poi. Scrissi appunto che “poteva fare qualsiasi cosa”, compreso il casino di domenica sera.

Prima del concerto c’è un gran traffico di preparativi sul palco, un po’ strano: prove di luci e monitor, sistemazioni, cose che di solito si sono già fatte estesamente molto prima del concerto, soprattutto di uno importante. E così passano venti minuti dopo l’orario di inizio prima che Carlo Massarini appaia inatteso sul palco a dire che sarà una serata speciale e che il concerto durerà ben tre ore e quindi di prepararsi, e infine arrivi Venditti. Il quale comincia emozionato e motivato, anche se l’attacco con tre canzoni non formidabili non è che proprio scaldi la platea. Ma qui comincia la serie di disastri che lui per tutta la sera attribuirà alla “sfiga” o all’inefficienza dei tecnici e dell’organizzazione, ma che è in realtà lui ad avviare, quando con un gesto energico del polso di quelli che fa spesso seguendo il tempo e la musica si lascia scappare di mano il microfono, che finisce da qualche parte sul palco davanti a lui. Prova a cercarlo, ma non lo vede, infine lo raccoglie ma non funziona, e intanto si perde di rientrare su tutta la strofa finale della canzone.

A questo punto reagisce nel modo peggiore, come farà più avanti in altre occasioni: e invece di abbozzare e cercare di superarla in qualche modo minimizzando, comincia a condividere col pubblico la sua ansia e preoccupazione, costruendo una grande bolla di imbarazzo che verrà poi allontanata solo durante le canzoni più travolgenti, ritornando a ogni pausa. E insomma decide di rivelare che si è rotto il monitor col “gobbo” sui cui legge scaletta e testi: che con tutta evidenza si è rotto quando lui gli ha scagliato contro il microfono, ma Venditti inizia invece ad accusare “la tecnica” e i tecnici e a lamentarsi con chiunque sia dietro le quinte, rivelando tra l’altro la sua strana difficoltà a cantare le sue proprie canzoni, accolta con un certo disagio dal pubblico. E così arrivano due poveri tecnici sul palco a cercare di cambiare il monitor, non ci riescono, e lui frustrato da questa impasse si indigna con loro, li sfotte davanti al pubblico mentre ‘sti due disgraziati si arrabattano con cavi e prese per rimediare a un errore non loro, cercando di ignorare l’Arena di Verona intorno a loro. E non ci riescono, a rimediare, così Venditti si fa portare dei testi sui fogli di carta, ma sempre più nervoso e spiacevole, e tutto è goffissimo e il concerto è fermo da venti minuti. Parte infine la canzone successiva ma qualcuno si è sbagliato e non è quella sulla scaletta: quindi si ferma tutto e si ricomincia. Ma dopo qualche minuto di canzone appare un inatteso faccione di Francesco Totti – molto serio – sul grande schermo alle spalle di Venditti che canta: il pubblico non capisce, dov’è Totti? È nell’Arena? È un video registrato? Venditti canta, ma tutti fissano lo schermo dove c’è questo grande Totti che a sua volta sembra spaesato.

E allora appare Fazio accanto a Totti, e allora si capisce che è un collegamento con Che tempo che fa. Finisce la canzone e c’è uno scambio mal riuscito tra il palco e lo studio, “che bella sorpresa” e convenevoli mal preparati, poi ci si saluta per proseguire il concerto (“ora che c’è stato il capitano tutto andrà benissimo” commenta Venditti) ma sul grande schermo e dagli altoparlanti prosegue invece la trasmissione di Che tempo che fa, dove arriva la Littizzetto eccetera: all’Arena siamo diventati pubblico di Che tempo che fa, Venditti non sa cosa fare, si sente “Grazie Roma”, il pubblico allora canta “nanananà” ma non si capisce se è all’Arena o a Che tempo che fa.
È a Che tempo che fa.

Finalmente qualcuno spegne il collegamento e ricomincia il concerto. Non so nemmeno rimettere in ordine tutto quel che succede dopo: tornano i due tecnici e finalmente riparano il monitor, non senza ulteriori battute improvvide; Venditti annuncia l’arrivo di De Gregori alla sinistra del palco, ma De Gregori non arriva; passa un minuto di boh generale (“ora arriva…”) e poi arriva da destra alle spalle di Venditti; il pianoforte che dovrebbe entrare e uscire dal centro del palco reagisce alle chiamate di Venditti con lo stesso ritardo di De Gregori; tra una canzone e l’altra Venditti fa dei monologhi sconclusionati che non finiscono mai, commentati con impazienza persino da certe signore venete più anziane di lui sedute dietro di me (“el parla massa”); chiama il suo “nuovo amico” Ermal Meta rivolgendosi di nuovo alla sinistra del palco, e di nuovo anche questo arriva da destra, dopo un po’ di attesa; ricomincia un monologo dopo essersi acceso una sigaretta, ma uno dalle gradinate romane gli urla che “non si fuma all’Arena” e lui ritiene di rispondergli, allora si aggiunge un altro critico dalle prime file, e Venditti se la prende con questa intolleranza e coi “vegani”; spiega “Giulia” e come le donne omosessuali possano essere prepotenti con le donne come lo sono i maschi, concludendo un’altra concione con una aggrovigliata considerazione per cui il problema sono certe madri che hanno insegnato alle figlie “a dire di no, ma non proprio no”, e i ragazzi maschi così non capiscono; fa una improbabile battuta sull’aver “previsto Renzi” quarant’anni prima visto che in “Bomba o non bomba” c’è la strofa “a Firenze dormimmo da un intellettuale” (che tutto si può dire di Renzi, ma non che sia la figura che viene in mente di “un intellettuale di Firenze”); richiama De Gregori ma De Gregori non arriva; cerca di far cantare al pubblico il coro “ò-oò” dell’Uomo falco ma (essendo la canzone effettivamente scarsa, poco amata e poco imparata a memoria) nessuno gli va dietro e lui invece di abbozzare e soprassedere insiste e insiste e insiste palesando la sua delusione per la scarsa partecipazione, ed è tutto molto imbarazzante (il regista del possibile DVD a questo punto si sta uccidendo); annuncia che dopo due ore e passa di concerto “siamo a metà scaletta” e quindi che a questo punto salta tutto e facciamo solo le ultime canzoni; chiude il concerto e lascia il palco ma torna e spiega che dietro gli hanno detto che invece si possono fare ancora due canzoni; dopo invece ne fa una sola e se ne va, salutando in un trionfo di applausi perché comunque in mezzo a tutto questo le canzoni belle le ha fatte; allora il pubblico urla a gran voce “Antonello, Antonello” e “fuori, fuori”, i musicisti si attardano in attesa di ordini ai bordi del palco, infine vanno via ma nessuno accende le luci o fa partire una musica registrata e non si capisce cosa succeda e il pubblico continua a sperare che tornino, e alla fine – con qualche sollievo persino dei fans – una musica registrata parte ed è mezzanotte e tre quarti, tre ore e venti dopo l’inizio e con una buona manciata di canzoni saltate (le meno eccitanti, per fortuna).

(metto tra queste parentesi il commento di uno spettatore che ha associato i millenari splendore ed efficienza del contenitore in cui ci trovavamo, prodotto romano di duemila anni fa, al fallimento fantozziano del contenuto, prodotto romano di questi tempi)

Ora, tutto questo è alla fine diventato persino divertente, e la solidarietà ha rapidamente prevalso sull’incredula irritazione (giuro che sono contento di esserci stato). E due cose hanno salvato la serata: la partecipazione di un De Gregori che sembrava l’unico in grado di gestire con leggerezza e autorevolezza questo casino, e la selezione ottima delle canzoni. Sentire in un concerto di Venditti ben tre canzoni delle sette di Lilly (e nessuna era “Penna a sfera”), “Marta” e una scelta del meglio del suo periodo post Cuore (“Ricordati di me”, “Alta marea”, “Settembre”) basta e avanza.
Quindi può fare qualsiasi cosa, dicevo: anche se non intendevo letteralmente.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).