Cosa non mi convince

L’analisi di Francesco Costa non fa una grinza. Le sue conclusioni – basate su estese e convincenti argomentazioni – si possono riassumere così: chi vada a votare per dare al proprio paese il governo migliore (o il meno peggio, che è sinonimo), ha una sola scelta, ed è il Partito Democratico. Non tanto per le qualità del suddetto – che pure ci sono – ma per la loro palese assenza in tutte le alternative.
L’implicazione di questa conclusione è che molti vadano a votare invece con motivazioni e obiettivi diversi da quello di ottenere nelle settimane successive alle elezioni un governo che offra all’Italia le maggiori garanzie e affidabilità: c’è chi va a votare da tifoso, e spera che vinca la sua squadra anche se è più scarsa; o che perda la squadra rivale; c’è chi va a votare per sintonia ideologica con alcuni slogan e rifiuto dei compromessi che sono alla base dell’amministrazione pubblica; c’è chi va a votare per fastidio, disprezzo, o risentimento per un partito o leader; c’è chi va a votare per simpatia nei confronti di un candidato senza chances di essere rilevante; c’è chi va a votare per limitati interessi e auspici personali, legittimi o egoisti. Insomma, si va a votare spinti da pensieri ed emozioni che spesso hanno poco a che fare con un’idea pratica di bene comune e progresso nazionale. Costa suggerisce che sia giusto che quell’idea pratica e “altruista” prevalga, e che non ci sia nessuna alternativa a una vittoria del PD per chi vuole investire nel prossimo futuro dell’Italia e degli italiani, nel senso della maggior parte possibile di loro. Che è un modo di intendere la democrazia, fare il bene delle maggioranze con riguardo delle minoranze (la mancanza di questo riguardo è il tratto comune più vistoso di tutte le compagini alternative al PD).

Una cosa sola non mi convince nel percorso molto logico che porterebbe dalle conclusioni di Costa al voto per il PD. C’è infatti un’altra possibile motivazione nella scelta di voto di cui penso valga la pena tenere conto, e che ha maggiore nobiltà e lungimiranza di quelle descritte: e ne ha almeno quanto quella principale di dare al paese un miglior parlamento e un miglior governo, domani. Ed è quella di darglielo dopodomani.
Ma prima un inciso. L’invito implicito di Costa, ed esplicito da parte di molti, è alla fine una versione molto contestualizzata e argomentata del “turarsi il naso eccetera” o del “meno peggio”: è vero che quasi sempre ci si tura un po’ il naso, a meno che non si voti per se stessi, e che ogni scelta è la meno peggio, ma è anche vero che ci sono misure diverse di compromesso (elettori di sinistra: andreste sicuramente a votare per il meno peggio in un ballottaggio tra Salvini e Meloni?, per esempio). E che ognuno ha diritto di proteggere il proprio naso rispetto a delle sensibilità che sono personali e devono poter essere libere di esserlo. Non si può chiedere alle persone e alle loro “coscienze” di essere complici di scelte che non siano per loro tollerabili. E cosa sia tollerabile lo decide liberamente ognuno per sé, senza ricatti morali completamente antidemocratici: sostenere che “si debba votare” in un certo modo significa cancellare il senso primo della democrazia. Un elettore di LeU rimproverato di “fare il gioco del M5S” ha uguale diritto di rimproverare della stessa cosa un elettore del PD che non abbia votato LeU. Quello che è giusto fare è permettere che la scelta libera sia adeguatamente informata e consapevole, e in questo il post di Costa fa un eccellente lavoro.

Ma soprattutto, dicevo, la cosa che non mi convince è che è grazie alla disponibilità degli elettori ad accettare scadimenti della qualità dell’offerta, e di disporsi a votare “il meno peggio” che il meglio è stato da tanto tempo rimosso dalle campagne elettorali e dai progetti politici, salvo rare eccezioni. Il Partito Democratico e i suoi destini elettorali non possono essere indenni da un giudizio che deve avvenire democraticamente al momento del voto: ed è un giudizio che non può essere sì/no, ma è corretto che rifletta nei risultati complessivi quello che un partito ha fatto di buono e quello in cui ha fallito. Si chiama meritocrazia, direbbero certi del Partito Democratico. In questo giudizio devono stare molte cose, e per ultima il fatto che il Partito Democratico – anche questa volta – sta candidando in molti seggi (il mio, pure) delle persone che non presentano alcun attributo convincente a volerli parlamentari e propri rappresentanti. Lo fa sulla base di valutazioni e scelte in alcuni casi esecrabili e in altre incomprensibili e non spiegate agli elettori: e sono decenni che scelte che non sono solo opinabili, ma del tutto assurde e prive di valore e logica, vengono compiute e affibbiate agli elettori per poi chiedere loro di avallarle “perché se no vincono gli altri”. I risultati di questo procedere nella gestione politica dell’Italia e nella formazione di classi dirigenti politiche sono sotto gli occhi di tutti, come si dice: è una vecchia metafora anche questa, ma abbiamo votato per decenni uova oggi e nessuno ci ha mai lasciato vedere una gallina domani, col risultato di avere frittate. Il ragionamento di Costa sarà ineccepibile nel momento in cui dimostrerà non solo che votare il PD darà il miglior risultato disponibile oggi, ma che darà il miglior risultato immaginabile tra cinque o dieci anni. Perché dovrei votare non il partito di De Luca, ma il partito che mi dice di voler essere il partito di De Luca?
Votare il Partito Democratico – il più presentabile partito che c’è, quello di maggiore qualità politica e umana, indiscutibilmente – oggi significa dire “ci sono una serie di disdicevoli cazzate che avete fatto, e una quota imbarazzante di persone mediocri a cui affidate ruoli importanti, con conseguenze pessime, ma io vi voto lo stesso per allarme sulle alternative e voi continuerete a fare le stesse cazzate, ad affidare ruoli importanti a persone mediocri, con conseguenze pessime”. Sono decenni che si vendono quell’allarme e oggi “il ritorno del fascismo” – fondato o no che sia – è un benvenuto fattore di consenso, al PD. Ma si può costruire un progetto politico sulla speranza che ci siano pericoli da scampare?

Non votare il Partito Democratico significa dire “fate le cose meglio e ne riparliamo”; significa dire “il mio voto non è gratis”; significa dire “not in my name”; significa dire “se volevi convincermi candidavi Luigi Manconi invece di Tommaso Cerno” (non ho niente contro Tommaso Cerno, ma ce l’ho con un partito che decide i candidati senza nessuna ragione comprensibile); significa dire “devi smettere di approfittartene, e piantarla con questo ricattino”. Significa dare un valore lungimirante e costruttivo all’astensione, o al voto per candidati dignitosissimi fuori dal PD.
Da zero a dieci tutti gli altri sono partiti tra il 2 e il 4: bocciati senza dubbio. Il PD è tra il 5 e il 6: in questi casi certi professori promuovono “per incoraggiamento”, certi bocciano sperando che impari qualcosa e faccia meglio l’anno prossimo. Hanno buone ragioni entrambi: quando si tratta di ragazzi al liceo io di solito sto coi primi, quando si tratta di gente che ci marcia e destini di tutti quanti sono ogni volta molto indeciso.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).