Cosa c’entra la storia con Brexit

Gli archivi nazionali di Kew sono uno dei posti più belli di Londra. Un edificio brutalista accanto al giardini botanici e al Tamigi, è uno dei maggiori archivi pubblici d’Europa. Come accade anche a Roma o Parigi, gli archivi nazionali rispecchiano, nel bene e nel male, le caratteristiche dello stato di cui conservano la memoria. Nel caso britannico, contengono una mole di storia poderosa, sono organizzati in modo chiaro e trasparente, frappongono i minori ostacoli possibili all’attività individuale.

Tra i milioni di documenti che conservano, gli archivi nazionali britannici conservano le carte relative all’ingresso del Regno Unito nella Comunità europea, avvenuto nel 1973 dopo il fallimento dei primi due tentativi. Leggendo quei documenti, appare chiaro che il governo britannico non era entusiasta di entrare nella Comunità europea così come funzionava allora. Ma appare chiarissimo che il governo britannico – e i suoi funzionari e diplomatici – si erano risolti a farlo ragionando in modo lucido sulle opzioni che avevano di fronte. Studiavano con cura i possibili scenari, soppesavano le alternative a disposizione, individuavano gli obiettivi raggiungibili e la strada più efficace per conseguirli.

Ripenso a quei documenti dei primi anni Settanta da quando i cittadini britannici hanno votato per l’uscita dall’Unione europea. L’aspetto più sorprendente di questi tre anni non è stata tanto la vittoria del “Leave”, o le spaccature all’interno dei partiti britannici, o la grande capacità negoziale dell’Unione europea: per chiunque abbia frequentato in un modo o nell’altro le istituzioni britanniche l’aspetto di gran lunga più sorprendente è stata l’improvvisazione, l’impreparazione, la confusione con cui il governo e i negoziatori britannici hanno gestito l’uscita dall’Unione.

Rifiutarsi di commissionare analisi sugli scenari sgraditi, ostinarsi per anni (anni!) dietro a obiettivi palesemente irrealistici e contradditori, nascondersi dietro ad artifici retorici e documenti secretati, limitare al massimo il coinvolgimento del Parlamento: questo è quello che è stato davvero sorprendente, e che non era successo nei decenni passati.

Uno degli aspetti più belli degli archivi di Kew è che sono vivi. Li frequenta quotidianamente un sacco di gente, e l’ambiente non è affatto triste e polveroso come uno potrebbe immaginarselo. Nel Regno Unito la storia e la memoria sono effettivamente vive e frequentate – forse pure troppo. In tutta questa pazza faccenda di Brexit la storia è stata molto presente, fin dall’inizio: alcuni dei principali responsabili dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea – Boris Johnson e Jacob Rees-Mogg – hanno una formazione storica.

D’altra parte il dibattito sulla partecipazione britannica nell’Unione europea ha a che fare con due questioni identitarie di fondo che il Regno Unito si trascina da decenni. Il problema del dare un senso e un futuro ai territori che compongono il paese, tra cui l’Irlanda del Nord e la Scozia, ovvero il rapporto mai davvero risolto tra Britishness e Englishness, “britannicità” e “inglesicità”. E il problema del ritrovare una collocazione nel mondo dopo la fine di un impero secolare e il declassamento a media potenza – una questione che altri stati hanno risolto puntando proprio sull’integrazione europea (non è un caso che la Comunità europea nasca negli stessi anni della decolonizzazione).

È legittimo che i britannici decidano di affrontare questi problemi identitari optando per diventare una sorta di Svizzera, o di Singapore: uno stato piccolo e isolato dal punto di vista politico, ma ricco e ben connesso da quello economico. È un modello triste per un grande paese che tanto ha dato all’Europa, ma è una scelta legittima. Quel modello però se lo possono permettere solo gli stati che godono di un grosso capitale di relazioni, di fiducia e di autorevolezza. Quel capitale la Gran Bretagna ce l’ha, ma lo sta gettando via.

Era un paese rispettato da tutti, anche da quelli che non lo amavano. L’antica tradizione liberale, le vittorie nelle due guerre mondiali, gli artisti e le squadre di enorme fama: l’aura positiva che circonda la Gran Bretagna non ha molti simili, in giro per il mondo. È un’aura che è stata costruita con pazienza in secoli di attività politica, economica e culturale. A partire dal 2016, la classe politica britannica sta demolendo questo enorme capitale: se l’Italia avesse gestito un processo storico come Brexit in modo altrettanto imbarazzante sarebbe stata presa in giro nei secoli.

La Gran Bretagna partiva da un livello di credibilità più alto rispetto a quello del nostro paese. Ma è sorprendente che l’opposizione politica, la società civile e l’opinione pubblica britannica non si rendano conto dello straordinario capitale che stanno devastando, e che non riescano a mettere in campo strategie efficaci per opporsi. Con tutti i difetti della vita pubblica italiana, in uno scenario del genere si sarebbe probabilmente vista una maggiore mobilitazione sociale. Cos’altro deve mai succedere perché i britannici si muovano a tutela del loro paese?

Tag: brexit
Lorenzo Ferrari

Lorenzo Ferrari è uno storico, di mestiere fa libri. Gli piacciono l'Europa, le mappe e le montagne; di solito vive a Trento. Su Twitter è @lorferr.