È giusto rimuovere l’opera d’arte di un assassino?

Un’opera dell’artista e fotografo inglese Saul Fletcher, installata all’interno della mostra Untitled 2020 in corso fino a dicembre a Venezia e organizzata da Palazzo Grassi e Collezione Pinault, è stata rimossa. La mostra, che ospita i lavori di una sessantina di artisti, era stata inaugurata lo scorso 11 luglio negli spazi di Punta della Dogana. Dieci giorni più tardi, a Berlino, Saul Fletcher uccideva la compagna, la critica e storica dell’arte americana Rebeccah Blum, 53 anni, dopodiché Fletcher telefonava alla figlia e si toglieva la vita. Una vicenda spaventosa. Ma ha senso ricavarne la decisione di rimuovere l’opera dell’artista? E ha senso che, digitando oggi su Google «Saul Fletcher Palazzo Grassi», un link porti a una pagina del sito di Palazzo Grassi e, dove prima era disponibile un profilo biografico di Fletcher, ora scopriamo una schermata «ERRORE 404 – PAGINA NON TROVATA»?

Una nota di Palazzo Grassi precisa che la decisione di rimuovere l’opera e ogni traccia di Fletcher dal sito è stata presa “nel rispetto della memoria di Rebeccah Blum, vittima di un omicidio perpetrato il 22 luglio 2020 dall’artista, successivamente suicidatosi, e per esprimere solidarietà nei confronti di tutte le donne oggetto di violenza”. Se da una parte il gesto testimonia sensibilità, premura e vicinanza alla persona di Rebeccah Blum e ai suoi cari, e prende posizione nei confronti di un tema così grave e preoccupante come il femminicidio e la violenza di genere, dall’altra resta aperta la domanda sulla logica culturale che porta alla rimozione di un’opera e alla cancellazione del nome di un’artista dal sito di un museo.

Voglio fare un esperimento – e invito chi legge a fare altrettanto. Mi trasporto con l’immaginazione a Punta della Dogana e inizio la mia visita ad Untitled 2020. Dopo aver girato intorno a una scultura di Thomas Hauseago, mi soffermo un paio di minuti di fronte al lavoro di Gustav Metzger, infine, eccomi nella sala dov’è esposta un’opera dal titolo Don’t let the darkness eat you up. È il lavoro di Saul Fletcher, artista del quale ho appena letto su internet la tristissima vicenda di cronaca di cui è protagonista. L’opera è ancora al suo posto, non è stata rimossa.

Consiste in un grande fondale rettangolare, altro più di tre metri e lungo nove, dipinto con stile approssimativo e anarcoide, arricchito da elementi che l’artista ha incollato o agganciato sulla superficie: pezzi di stoffa, garze, indumenti, ramoscelli, etc. Sembra riprodurre, in modo piatto e infantile, gli ambienti contigui di un bagno e di una camera da letto. Nonostante la minaccia di un’oscurità incombente evocata nel titolo, un piccolo sole e un arcobaleno ruscellante portano un po’ di luce e colore nel caos e tra la giustapposizione selvaggia di forme con la quale lo spazio domestico è rappresentato. Lo stile insiste sull’ingenuità brusca e bambinesca del tratto, rendendo spigolosi i contorni delle suppellettili.

Proseguo il mio esperimento mentale. Sono ancora lì in quella sala. In nessun modo vengo sfiorato dal pensiero che ci sia qualcosa di osceno, irrispettoso, sbilanciato o ingiusto nel fatto che sto guardando l’opera di un uxoricida, neppure se il fatto ha avuto luogo a pochi giorni di distanza. Al contrario, sono spinto a guardare con più concentrazione, ad approfittare con più accanimento dell’arte, ed è proprio attraverso il lavoro, l’osservazione dell’opera e la speculazione attivata in me dalle immagini, che comincio a entrare in un’intimità speciale con lo strappo violento con il quale Fletcher ha interrotto la sua vita, dopo aver distrutto quella di Rebeccah Blum e della figlia.

L’arte permette, attraverso sentieri mentali scivolosi e imprevedibili, una conoscenza opaca ma profonda del mondo e delle sue storie, il che, a volte, può perfino portare a sperimentare la compassione. In questo caso per la vittima, per la figlia della vittima e anche per l’assassino. Può portare a farsi carico di una porzione del lavoro del lutto che ogni morte dovrebbe poter suscitare in ogni vivente. È un processo che grazie all’arte o alla letteratura può accadere e ciò, naturalmente, non significa che l’arte o la letteratura abbiano particolari obblighi terapeutici o didattici nei confronti di chi ne fruisce.

Alla fine Palazzo Grassi, Pinault e i curatori della mostra hanno deciso per il disallestimento dell’opera, in nome del rispetto dovuto a Rebeccah Blum e alle vittime di femminicidio, ma io credo fraintendendo, dimenticando o rimuovendo il significato di ciò che l’arte è nella sua essenza fondamentale, nel suo modo anarchico di operare e nella sua radicale innocenza.

La decisione, suppongo, dev’essere stata molto combattuta, com’è giusto che sia, visto che nella pagina cache è ancora presente, mentre scrivo, un disclaimer precedente e di altro avviso rispetto all’epilogo della vicenda: «[…] Palazzo Grassi – Punta della Dogana, consapevole della delicatezza della decisione, ha scelto di lasciare esposta l’opera che l’artista ha realizzato in situ appositamente per la mostra “Untitled, 2020. Tre sguardi sull’arte di oggi”. L’opera Don’t let the darkness eat you up (Non farti divorare dall’oscurità) rimane dunque come testimonianza dello sforzo dell’artista nel tentare di superare le pulsioni più oscure che purtroppo non è riuscito a dominare».

Eppure, anche in queste righe, di cui non mi sfuggono la delicatezza e il sentimento di cordoglio da cui sono mosse, io trovo un affanno e un tentativo goffo di legittimare il lavoro di un’artista, per salvarlo da una condanna morale che però dovrebbe avere luogo in altra sede.

Ma c’è ancora un altro aspetto. Il nove agosto, la galleria londinese Alison Jacques aveva dichiarato su Instagram di aver rimosso ogni traccia di Saul Fletcher presente sul proprio sito e inoltre si augurava “che il resto del mondo dell’arte faccia la cosa giusta: non va bene continuare a promuovere, archiviare o mostrare il lavoro di una persona che ha commesso violenza domestica e omicidio, e non importa quanto grande sia la fondazione o il museo, né importa quanto a lungo una galleria abbia lavorato con lui o pensi di conoscerlo”.

Di questo stralcio mi colpisce la sottolineatura in cui si aggiunge che non va bene «promuovere» o «mostrare», ma neppure «archiviare». Il che significa, davvero, eliminare, distruggere, cancellare. Applicando un simile metodo dovremmo dedurre che, per esempio, il filosofo marxista Louis Althusser, lo scrittore beat William Burroughs o il produttore musicale pop Phil Spector –due uxoricidi e un femminicida – dovrebbero essere eliminati dai cataloghi delle rispettive case editrici e discografiche.

Ammettiamo che queste tre illustri figure se la siano cavata grazie a una sorta di prescrizione, visto il tempo trascorso dai fatti, tuttavia dovremmo almeno aggiornare il giudizio nei loro confronti. William Burroughs, per esempio, il veneratissimo papa della controcultura e una tra le figure più influenti del secolo scorso, l’uomo con il quale a un certo punto tutti volevano fotografarsi, aveva elevato la propria disturbante misoginia a fantasia letteraria. Diceva che le donne erano una specie aliena venuta dallo spazio. Una volta incontrò Fernanda Pivano e di fronte a lei confessò di odiare le donne. Al che la Pivano lo guardò e gli disse: «Anch’io». E allora diventarono amici. In questo magnifico e paradossale aneddoto, che custodisco gelosamente nella memoria dopo averlo ascoltato in un podcast di Tommaso Pincio, vedo la lezione ineffabile di due individui, capaci di usare l’ironia e l’intelligenza per trapassare le rigidità, le idiosincrasie e le personali contraddizioni, quindi sbucare da qualche altra parte, in un nuovo spazio morale, singolare e incoerente, dove una donna e un misogino fanno amicizia.

Non so quanta eco abbia avuto l’appello della galleria Alison Jacques, credo scarso, e in fondo, a confronto con altre controversie, di questa piccola (e funesta) vicenda veneziana, nata da una tragedia famigliare, si è discusso poco e a scoppio ritardato, forse per un moto di assuefazione che è già intervenuto o perché anche il potenziale di una notizia è un fatto misterioso e a volte le notizie sollevano grandi polveroni e altre passano inosservate. Ma a me sembra chiaro che quanto accaduto a Punta della Dogana presenta caratteristiche simili a un numero ormai consistente di episodi avvenuti negli ultimi tempi nel mondo della cultura e dell’arte, tanto negli Stati Uniti come in Europa.

Faccio riferimento a quel nuovo clima che abbiamo imparato a chiamare, a torto o a ragione, col termine «cancel culture», il cui effetto a mio avviso più distorsivo e inquietante è aver creato la cornice perfetta per una silenziosa e generale predisposizione alla censura e all’autocensura, complici gli ambienti governati dagli algoritmi che le fanno da teatro. Basta una shitstorm a mettere in difficoltà un’istituzione museale o a rovinare la reputazione di un curatore, ed è sufficiente il timore di una shitstorm per modificare la poetica di un’artista o la visione di un gallerista.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).