Emma Gonzalez e il tempo

Emma Gonzalez è il nome di una studentessa e attivista nata nel 2000, quindi all’inizio del nuovo secolo. È una ragazza dalla pelle olivastra, bellissima e consapevole, figlia di una docente di matematica e di un avvocato di origine cubana specializzato in cybersecurity. Emma è una sopravvissuta alla strage di Parkland del 14 febbraio scorso. Tre giorni dopo aveva profetizzato, nel corso di un pronunciamento pubblico, che «la nostra sarà l’ultima sparatoria di massa». Un mese più tardi Emma Gonzalez si è resa autrice di un gesto sovversivo, estremo e drammaturgicamente straordinario, a mio avviso. In occasione della manifestazione che si è tenuta a Washington il 24 marzo, è salita su un palco, attesa e osservata da centinaia di migliaia di persone e telecamere, ha pronunciato i nomi delle 17 vittime di Parkland – da Carmen, 16 anni, a Chris, 49 anni – quindi sulla parola «never», cioè il nostro avverbio di tempo e di modo «mai», ha scelto di restare in silenzio per diversi minuti, un periodo lunghissimo, eterno, estraneo alle convenzioni del «public speaking».

Emma ha tolto spazio alla parola, ha fissato un punto nel vuoto e ha messo al centro della scena il respiro puro e semplice. Come una medicine woman adolescente, che sembra dire mediante la potenza chiara e trasmittente dello sguardo: «Ascoltate il corpo, americani», forse perfino inconsapevole del proprio talento da psicoterapeuta, senz’altro impermeabile agli applausi e al feedback di un pubblico commosso e disorientato di fronte a questa scelta di linguaggio, ha trasformato ciò che doveva essere un discorso e un’orazione in una specie di seduta pubblica e mediatica di rebirthing. Lo ha fatto, soprattutto, all’epoca di Facebook e nel paese governato da Donald Trump. Ma io credo che in questo accadimento in tutto e per tutto di natura teatrale e performativa, abbia avuto luogo un fenomeno ancora più misterioso: nel silenzio vergine si è ricostituito il tempo, la durata, cioè una dimensione dove per esempio non esistono telefoni, notifiche, pubblicità, e nella quale si può creare lo spazio corretto per un lutto reale, per una compassione sincera e per un disgusto non violento per gli adulti. Curiosamente, dopo aver visto il video del gesto di Emma Gonzalez, ho ripensato a Call me by your name, il film di Luca Guadagnino. Che cosa ci è piaciuto e ha emozionato di quel film, al di là della storia di formazione sentimentale? Ci è piaciuto, io credo, il fatto che dentro quel racconto fosse stato restaurato, particella dopo particella, il tempo: il tempo perduto e non frammentato in cui si può entrare nella lettura di un libro, scoprire la campagna lombarda o affrontare un trauma.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).