Non spegnete il telefono

Qualche sera fa mi trovavo seduto nella grande sala al secondo piano del palazzo della Triennale, a Milano. Avevo con me un libro di cui parlerò più tardi, scritto da un filosofo e attivista italiano, pubblicato prima in lingua inglese, poi tradotto in italiano, tedesco, francese, olandese, spagnolo, turco, cinese, coreano; piegato da un’orecchia a pagina 202 nella copia in mio possesso. Un libro uscito in Italia nell’aprile 2015, diventato di grande attualità in questo mese, e di cui la nostra stampa non si è quasi accorta.
Seduto tra centinaia di persone aspettavo l’ingresso in sala di Arjun Appadurai, sessantaseienne antropologo americano, invitato per uno degli incontri di Future ways of living organizzati da Meet The Media Guru. Eravamo davvero in tanti: giovani, più giovani, anziani, meno anziani, mescolati l’uno all’altro nella sala in una forma armoniosa e rara a vedersi; studentesse orientali (con capelli rosa sfumati turchino) e over cinquanta dagli occhiali tondi alla Le Corbusier.
Dopo una mezz’ora di attesa, dal fondo della sala ho visto finalmente affacciarsi sulla pedana Maria Grazia Mattei, fondatrice di Meet The Media Guru. Le prime parole pronunciate, accanto al volto sereno e buddhico di Appadurai, sono servite a rivolgerci un caloroso invito iniziale. Più o meno questo:

“Tra poco comincerà l’intervento di Appadurai. Non vi chiediamo di spegnere i telefonini, ma di continuare a usarli, condividendo in rete con gli altri le vostre foto, le vostre emozioni e i vostri commenti”.

Ecco, non è di Appadurai che vorrei qui parlare, ma di questo appello, pronunciato in modo limpido, senza ombre e positivo, portatore a mio parere di un non detto di cui vorrei provare a farmi interprete. Bene, ricordo di aver letto su internet, tempo fa, di una protesta di PJ Harvey durante un concerto: “spegnete quei telefonini!”, o qualcosa del genere, detto in faccia al proprio pubblico. Ma mi sbagliavo. Si trattava invece di Adele. Ma come Adele, ho scoperto, anche Joe Jackson, Alicia Keys e Keith Jarrett si sarebbero mostrati insofferenti verso l’uso degli smartphone durante i loro show. Altre volte capita che qualcuno si lamenti di chi telefona in treno, parlando a voce alta, o di chi non stacca gli occhi da internet durante una cena al ristorante. Nel primo caso, naturalmente, si tratta dell’irritazione di un’artista nei riguardi della compulsione del pubblico a documentare, fotografare, commentare, compromettendo così la propria esperienza del concerto e la comprensione del lavoro dell’artista, del ‘messaggio’ dell’artista, della sua estetica, di una messa in scena a cui potrebbero aver contribuito decine di professionisti. Nel caso del treno e del ristorante, più trascurabilmente, si tratta solo d’infrazioni al bon ton.

Vengo al punto: l’invito a non spegnere i telefonini, nel contesto di un evento organizzato da una piattaforma che si occupa da anni d’innovazione digitale, mi è sembrato voler alludere polemicamente proprio alla posizione di Alicia Keys o del moralista intransigente che ci siede di fronte in treno. Il liturgico invito della Mattei, in veste di speaker, mi è sembrato nella sua tranquilla asseverazione racchiudere un discorso molto più ampio e articolato, cioè questo: “Basta, non date più ascolto a chi vi fa sentire un maleducato, un bifolco di nuova specie; non fidatevi di chi vorrebbe insinuare in voi il sospetto che toccare lo schermo per fotografare, commentare, documentare, condividere, sia un’attività in alcune circostanze volgare, plebea; non credete a Keith Jarret, a chi vi dice che sollevare lo schermo e scattare può interferire con il piacere dell’ascolto o farvi perdere un dettaglio di una messa in scena o distrarvi dalle parole di un oratore sul palco. Non fidatevi di chi vuole impedirvi di mettere in pratica la cosa più gioiosa e più umana: comunicare e condividere le vostre emozioni. Non fidatevi, insomma, di chi si mette in mezzo tra voi e internet. Ovvero: non fidatevi di chi si mette in mezzo tra voi e il futuro. È lui il disturbatore. Confidate invece in questo dono californiano. Questo strumento è fatto perché possiate esprimervi ed essere ancora più umani, ramificati ed espansi nell’universo di quanto non lo siano stati i vostri padri e i vostri nonni”, ecc.
Ora, non credo di aver estrapolato questa specie di sermone messianico in modo troppo deliberato, parafrasando a piacere due righe in copione. Piuttosto, quell’invito così esplicito a twittare e instagrammare mi ha risospinto tra le pagine del saggio che citavo all’inizio di questo racconto. Si chiama Heroes. Suicidio e omicidio di massa, l’autore è il filosofo e attivista Franco Bifo Berardi, ed è uscito per Baldini e Castoldi nell’aprile 2015.
Non è un libro facile da riassumere, anche per la quantità di fatti di straordinaria attualità messi in relazione (dopo le stragi di Nizza e Monaco le copie del libro sono andate in ristampa sia in Francia che in Germania): integralismo islamico, ritorno dei nazionalismi, migrazioni, disoccupazione, precarietà, declino del welfare, periferie, metropoli, salute mentale, disagio psichico, suicidi e omicidi di massa e, soprattutto, connettività, rete, mente collettiva. Non è facile neppure restituire lo stile, che nelle ultime pagine diventa sostanzialmente sapienziale e in altre dosa autobiografia e narrazione. Per esempio, quando Bifo racconta, a pag. 202, di un suo viaggio in Corea del Sud, a Seul:

“Nella terra di Samsung e di LG la connessione è permanente, per chi cammina, o sta seduto al caffè o fermo ad aspettare la metropolitana. Le mani sono occupate a portare in giro lo smartphone o il tablet delineando circoli infiniti che fanno scorrere le schermate.
In un parco mi sono seduto su una panchina a spiare tre ragazze. In piedi sotto un albero ciascuna di loro osservava lo schermo, fotografava lo spazio intorno, faceva dei selfie mostrandoli poi alle compagne. Tutto in silenzio. Gli schermi sono dovunque: grandi schermi sulle mura dei grattacieli, schermi di media proporzione nelle stazioni. Ma il piccolo schermo privato del cellulare prevale nell’attenzione della folla che si muove silenziosa e tranquilla senza guardarsi attorno. Dopo la colonizzazione e le guerre, dopo la dittatura e la fame, la mente sudcoreana, liberata dal peso del corpo naturale è entrata in modo levigato nella sfera digitale con un grado di resistenza culturale che sembra inferiore a quello di ogni altra popolazione del mondo. Questa è la risorsa principale che ha permesso l’incredibile performance economica della rivoluzione elettronica. Nello spazio culturale svuotato, l’esperienza coreana è segnata da un grado estremo di individualizzazione e al tempo stesso è diretta verso il cablaggio definitivo della mente collettiva. L’individuo sorride, solitaria monade che cammina nello spazio urbano in continua, tenera, interazione con le foto, i tweet, i giochi che provengono dal piccolo schermo. Le relazioni sociali sono trasformate in interconnessioni cablate le cui regole e procedure sono nascoste nel codice linguistico del web. Perfettamente isolato e perfettamente connesso, l’organismo diventa un’interfaccia levigata nel flusso connettivo”.

Questa è una pagina che io trovo molto ‘bella’, letteraria. Non serve un orecchio troppo fine per sentirvi un’eco di fantascienza e fantascienza distopica: “Gli schermi sono dovunque”. Si è tentati di sospettare che la suggestione di passate letture abbia fatto velo all’autore, che lo abbia condizionato negativamente nell’osservazione. Eppure come non identificare, con un brivido, un’aria sempre più famigliare nel paesaggio coreano descritto da Bifo? Il nostro cervello umano è troppo lento rispetto alla velocità della mente collettiva, che non dorme mai e ci vuole sempre connessi, attivi, funzionali al suo immenso sistema nervoso, impegnati coattivamente nella elaborazione di un pensiero o nell’upload di una foto. Le monadi solitarie siamo noi, per quanto, è vero, oggi magari abbiamo scherzato più che piacevolmente con i nostri colleghi. Eppure, credo che l’invito a condividere le nostre emozioni in rete sia diventato uno slogan di partito, terribilmente invecchiato, suadente nella forma ma coattivo nella sostanza.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).