La volta che andai a casa di Licio Gelli

A Villa Wanda sono arrivato un giorno di parecchio tempo fa, marzo 2010, viaggiando in treno da Milano. In Toscana e ad Arezzo pioveva. La giornata era grigia. Nonostante il calendario, il tempo sembrava arretrare dentro l’inverno, più che aprirsi alla primavera. Mi ero aggregato a tre amici giornalisti, Nicola Palma, Maria Elena Scandaliato e Andrea Sceresini, che stavano lavorando ad un libro intervista al generale Gianadelio Maletti, su Piazza Fontana. Desideravo vedere Licio Gelli da vicino, incontrarlo, e visitare Villa Wanda. Ero mosso da una specie di feticismo, in sostanza, che ignorava, mi rendo conto, la sostanza di sangue, di profondo malcostume, di attentato alla democrazia e alla convivenza civile, di cui è ed era impastata la biografia del venerabile.

Villa Wanda, per quel che mi ricordo, sorge su di una collina a due passi dal centro di Arezzo. Somiglia ad un piccolo castello e se non ricordo male aveva anche una torre. Ma verificando tra le foto disponibili in rete, mi accorgo che il mio ricordo probabilmente è falsato. Ci venne ad aprire una cameriera vestita in uniforme, di nero, con una specie di grembiulino bianco e la crestina, molto vivace, cordiale e perfettamente a suo agio nella casa. Ci toccò fare un po’ di anticamera e la cameriera ci fece sedere in un salone rettangolare lunghissimo, profondo, teatrale, con enormi abat-jour, stucchi, busti, arazzi, spessi ed enormi posacenere di vetro lindissimi, animali impagliati, vassoi di caramelle e sopra di noi un grandissimo, ipnotico soffitto a cassettoni. Ma soprattutto c’erano enormi poltrone e divani di velluto rosso, ovunque distribuiti lungo la sala, come se la funzione di quello spazio fosse quella di un conciliabolo bizantino, quotidiano e fittissimo.

La sensazione che ne ho ricavato era che quella sala fosse stata concepita, consapevolmente o meno, come una specie di doppio e imitazione, proprio negli arredi, nella dimensione, nel respiro, dei luoghi istituzionali reali e deputati, come Montecitorio o il Quirinale. Del resto, a giudicare dall’anticamera fatta, dai continui squilli di telefono, dallo zelo con cui la cameriera ci aveva ricevuto e poi rinchiuso nel salone, sembrava che l’attività di pubbliche relazioni di Gelli, nel 2010, alla bellezza di 91 anni, fosse ancora molto buona, importante, quotidiana e routinaria, per quanto solenne come si conviene a un notabile. Senz’altro c’erano diverse persone che, per svariati motivi, prendevano appuntamento e si mettevano in coda per incontrarlo. Forse per il sentimento di ammirazione, amicizia e venerazione, effettivamente, di cui sui generis padri della Patria come Gelli hanno sempre goduto in questo Paese.

Ad un certo punto ci aveva ricevuto. Arrivò, gobbo ed elegantissimo. Davvero all’altezza della sua fama: luciferino. Giacca, panciotto, camicia e pantaloni neri. Una cravatta di raso nera. Scarpe nere perfettamente lucidate e specchianti. Un grosso anello al dito. Ci fece sedere in un altro salottino ancora, molto piccolo e appartato, ma altrettanto pieno di soprammobili, lampade, statuine, vassoi di caramelle e brutti quadri alle pareti. Ci guardò con un sorriso da gatto, sornione, allusivo, curiale, maligno e ambiguo al tempo stesso. Lo stesso sorriso che sfoderò più volte, e ad arte, durante l’intervista, nei passaggi dell’intervista che desiderava sottolineare, sospendere, incorniciare, lasciando intendere qualcosa che si guardava bene dal raccontare del tutto.

Dopo che ci fummo presentati, dicendogli chi eravamo, perché eravamo lì e da dove arrivavamo quel giorno -tre di noi da Milano e Maria Elena da Roma- Gelli esordì con una frase ad effetto, una mezza domanda: “Quindi portate la luce”. Era una domanda o un’affermazione? Di fronte alla nostra faccia perplessa, aggiunse: “Bruciano. Roma e Milano, bruciano”. E alludeva, evidentemente, a qualche scandalo berlusconiano e a qualche giro di manager e politici arrestati al nord.

Ricordo pochissimo dell’intervista, che fu lunga e concentrata su dettagli della vicenda processuale di Piazza Fontana, che padroneggiavo poco. Ricordo che a un certo punto si vantò della sua amicizia con Rafael Videla, il generale e dittatore argentino, e ricordo che disse, pomposo e ancora virile nello sguardo all’improvviso feroce e lampeggiante, di sentirsi “l’ultimo gerarca fascista in servizio effettivo permanente”, e che in una sede RAI di Roma esisteva una specie di grande manopola che girata in un verso avrebbe lasciato senza tv il sud Italia, nell’altro il nord Italia.
A un certo punto entrò la cameriera, con un vassoio che posò sul tavolo: “Signori, ecco il caffè”. Gelli, come un attore un po’ logoro, che tuttavia non perde il mestiere, ci rifilò la battuta che doveva aver pronunciato già centinaia di volte, deliziando i suoi ospiti: “Non preoccupatevi, bevete. Non è amaro come il caffè di Sindona”.

Di quel pomeriggio non ricordo nient’altro. Se non che ci avevamo messo un sacco ad arrivare perché non trovavamo la strada. La memoria ha conservato soltanto il colore e l’aneddotica. Però ricordo della foto che ci scattammo insieme, nella saletta, sforzandomi di mantenere il più possibile un’espressione del volto seria, decente e appropriata alla persona che mi stava a fianco. Cioè un fascista, amico delle peggiori dittature. Eppure, mi ero reso conto che a Villa Wanda, la casa appena sottoposta a sequestro, avevo esperito un particolarissimo punto di equilibrio, in cui la cultura pop, la famosa società dello spettacolo, riverniciavano la tragedia, si mescolavano ambiguamente con la tragedia e la turpitudine. Gelli, che con noi si era comportato come un personaggio della società dello spettacolo, recitando e offrendoci la maschera un po’ Dan Brown dell’eminenza grigia, ne era perfettamente consapevole, avendo navigato con estrema intelligenza e furbizia tutto l’oceano di un secolo, dal nazifascismo alla democrazia, fino alla postmodernità e alla società dello spettacolo in cui tutte le memorie, anche le più fosche, rischiano ogni giorno di venire declassificate, di scivolare in una pappa mediatica, spettacolare, giocosa, dove perfino Gelli può recitare la sua parte.

E quel pomeriggio, nei momenti giusti, recitò quella parte, vedendo in noi dei giovani, figli di questo tempo, forse più a caccia di sensazione e spettacolo, che non di verità. Non era il caso di Andrea, Nicola e Maria Elena, e del contributo importante che con il loro libro hanno dato alla storia della bomba a Piazza Fontana. Ma era senz’altro così nel mio caso. Volevo vedere Licio Gelli. Volevo entrare a Villa Wanda. Mi sono salvato giusto al momento della fotografia, evitando di offrire alla storia una faccia, come dire, ironica.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).