La guerra umanitaria è di sinistra

La premessa (se vi interessa solo la storia, saltatela e proseguite in basso)
Gheddafi è morto. Ci sono casi in cui l’uccisione di una persona può essere una buona notizia? Certamente non in questo. Anche andando al di là della vicenda umana, un processo del Tribunale Penale Internazionale sarebbe stato la prosecuzione naturale del ritrovato internazionalismo che ha contraddistinto la vicenda libica, e la speranza è che questa sarà la sorte che toccherà agli altri aguzzini del regime.

Però oggi è anche il giorno in cui è finita questa guerra di liberazione. La più longeva dittatura del mondo è caduta. Uno degli uomini più truci che la storia abbia partorito ha finito di insanguinare le strade, le prigioni e i mari del Nord Africa. Naturalmente tutto è ancora da ricostruire, e nel futuro ci sono molte incognite, come ce ne sono sempre nelle grandi rivoluzioni.

Ma quale che sia il domani, non potrà che essere meno peggio – e tutti dobbiamo sperare sia meglio – della tirannia di Gheddafi. Meglio un imperfetto governo del popolo, che una perfetta dittatura del sangue. Non si può scambiare il nostro ordine con la vita di quelle persone: a meno di non essere interessati soltanto alle meschine vicende del nostro cortile, agli accordi commerciali col pelo sullo stomaco, agli inumani trattati per respingere i morti di tortura e di fame.

E oggi è anche il momento di riflettere su quello che è successo nell’ultimo decennio, da quando – l’Undici Settembre di dieci anni fa – il mondo si è capovolto, Bush e Donald Rumsfeld sono diventati gli avvocati dei diritti umani su scala mondiale, e la sinistra – con pregevoli eccezioni – ha cominciato a parlare di sovranità nazionale, di culture non pronte per la democrazia, di casa Nostra e casa Loro, come dei Borghezio qualsiasi. È il momento di ricordarsi che questa guerra, voluta principalmente da Cameron e Sarkozy, è nella storia un’eccezione, perché l’idea di sfidare la sovranità nazionale per tutelare le persone dai massacri, dalle torture, dal genocidio è nata – e non poteva essere diversamente –  nella sinistra. È un’eccezione che, purtroppo, dall’Afghanistan e dall’Iraq sembra essere diventata la regola.

C’è, a onore del vero, da parlare di come l’espressione che è entrata nel gergo comune – “guerra umanitaria” – è un’espressione sbagliata, perché con umanitarismo si fa riferimento a una tradizione di rivendicazione della neutralità e dell’intervento anti-politico. Mentre il “dovere d’ingerenza”/”interventismo per i diritti umani”/”responsabilità di proteggere” fanno riferimento a una tradizione esattamente opposta, quella che rivendica l’impossibilità di essere neutrali di fronte al genocidio, che qualunque impegno contro la sofferenza delle persone è intrinsecamente politico.

La storia
È una sintesi, e perciò non ha pretesa d’esaustività, ma può essere utile a chi non conosce il dibattito.
Fino al 2001, l’idea di intervenire in un altro Paese in nome di preoccupazioni umanitarie – genocidio, pulizia etnica, tortura e uccisioni sistematiche – è stata prettamente di sinistra. Tale idea è nata fra i progressisti, radicata in quella grande tradizione cosmopolita e anti-nazionalista che vuole ogni offesa, commessa in qualunque parte del mondo, come perpetrata ai danni di tutta l’umanità. Quella tradizione può prendere la forma delle due grandi ideologie progressiste – in senso propriamente filosofico – moderne: liberalismo e marxismo, o una commistione delle due (“nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà” cantavano gli anarchici).

Successivamente, essa si è sviluppata ed è stata adottata nella sinistra, unica parte politica a farne una battaglia negli Anni ’90. La destra, generalmente identificata col realismo (Henry Kissinger è il più famoso fra i realisti), ha storicamente difeso l’Ordine e la Sovranità Nazionale. Questo, naturalmente, non vuol dire che tutti a sinistra siano stati d’accordo fin dall’inizio, ma che chi lo è stato – qui prendo in esame Usa, UK e Francia perché sono le tre democrazie che conta(va)no in politica estera, non a caso le uniche con un seggio da membro permamente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu – è stato, praticamente senza eccezioni, alla sinistra del proprio ordinamento politico. E non è un caso, perché non c’è alcuna traccia ideologica per cui l’interventismo umanitario possa essere ricondotto al conservatorismo. [specifico in parentesi quadre partito e destra/sinistra nel proprio Paese].

Il concetto dell’interventismo viene formulato nel corso degli anni Ottanta nella tradizione liberal dell’accademia statunitense che si opponeva all’egemonia esercitata dalla scuola realista durante la Guerra Fredda. Esso viene codificato per la prima volta nel ’92 con l’Agenda for Peace di Boutros-Ghali, che include per la prima volta la Responsability to Protect degli Stati nei confronti dei proprî cittadini da “avoidable catastrophe”. Questa responsabilità di proteggere, è scritto, deve essere messa in pratica da ciascuno Stato nei confronti delle popolazioni, e se per qualche ragione ciò non avviene, tale responsabilità ricade sulla comunità internazionale.

Nel caso della prima guerra in Iraq (90-91) non si può parlare di intervento umanitario perché essa è scoppiata a causa dell’invasione di uno Stato sovrano (Kuwait) da parte di un altro Stato (Iraq), come testimoniato dalla 660 e da tutte le risoluzioni che sono seguite. Questo, naturalmente, non vuol dire che Saddam Hussein non stesse commettendo massacri e torture ai danni dei civili kuwaitiani. Tutt’altro. Tuttavia, la ragione della guerra era completamente “Westfaliana”: non si invade uno Stato sovrano. È come violare l’ordine costituito, e gli alleati dello Stato invaso hanno diritto a intervenire.

È una differenza fondamentale perché le guerre per questa ragione si sono sempre fatte – la Seconda Guerra Mondiale, per dire, iniziò per la violazione della sovranità polacca (e per molte altre ragioni simili), non certo per le leggi razziali e i campi di concentramento –, la tutela della sovranità è sempre stato lo strumento preferito dell’Ancien Régime, dei conservatori, almeno nelle dichiarazioni d’intenti. E difatti fu proprio Bush padre [Repubblicano, destra] (più precisamente Scowcroft) il responsabile della decisione di evitare di rincorrere un Iraq democratico, andando fino a Baghdad. Una decisione presa quasi certamente in chiave anti-iraniana, tipico esempio di realpolitik.

Nella medesima maniera, lo stesso Bush non aveva alcuna voglia di intervenire in Bosnia. Provò a convincere gli europei a occuparsene, John Major [Conservative, destra] in particolare, che risposero picche. Era un’idea tipicamente da Guerra Fredda: un Iraq democratico nel ’91, o liberare l’assedio di Srebrenica nel ’93, non poteva essere considerato nell’interesse rispettivo di Stati Uniti e Regno Unito. Major accusò gli interventisti con parole che oggi si sentono spesso dall’altra parte dell’arco politico: «voi volete la guerra solo dalla vostra poltrona». Fu con l’arrivo di Clinton [Democratico, sinistra], e delle foto dei massacri, che dopo tanto esitare la comunità internazionale si diede una mossa (eccezione: uno dei pochi di destra – anche se atipico – a premere per intervenire in Bosnia fu John McCain). La Bosnia fu il vero scenario cruciale. Fu anche la volta che fu inventata, all’esatto opposto semantico della Responsibility to Protect, l’espressione “pulizia etnica”, che ora ci sembra esistere da sempre, coniata dai nazionalisti serbi a descrizione dei proprî intenti.

Da lì, e fino al 2001, gli interventi umanitarî sono stati orchestrati prevalentemente o soltanto da governi di sinistra: dall’equivalente del ’99 in Kosovo in cui Blair [Labour, sinistra] dimostrò assieme a Clinton [Democratico, sinistra] come fosse cambiato il corso in UK avendo messo da parte Major [Conservative, destra]. Le volte che Blair è andato in Sierra Leone è stato accolto da un bagno di folla che lo ringraziava per aver salvato (2000) migliaia e migliaia di persone dall’essere stuprate e mutilate dai ribelli. A Clinton, in Kosovo, hanno fatto anche una statua. Non è un caso che, al tempo, l’intervento umanitario fosse associato alla “dottrina Clinton” o “dottrina Blair”. E il devoir d’ingerénce è un’espressione coniata da – e tutt’ora associata a – Kouchner [Socialiste, sinistra], una posizione che è diventata veramente controversa all’interno del PS soltanto dopo il 2003.

Naturalmente, come detto, questo argomento non va portato all’estremo opposto: sarebbe sbagliato dire che la sinistra sia stata sempre a favore, come che lo sia stata tutta la sinistra. Altre volte se n’è infischiata: Clinton non è andato con Blair in Sierra Leone, nessuno – colpevolissimamente – è andato in Ruanda. Ciò che è vero, invece, è che trovare nella destra le radici dell’interventismo umanitario è veramente peregrino, mentre è indubbio che il brodo culturale in cui è nato questo concetto sia quello progressista. Sforzandosi, per trovare un controesempio, si potrebbe citare Somalia ’92 quando Bush padre – oramai con Clinton president-elect, e a un mese dalla sua salita in carica – autorizzò (in accordo con Clinton) la decisione di prendere parte all’Unitaf.

Un’altra cosa importante da ricordare è la campagna elettorale con la quale Bush figlio [Repubblicano, destra] fu eletto nel 2000. La piattaforma era prettamente isolazionista, nella migliore tradizione della destra americana. Bush accusò esplicitamente Clinton di aver sperperato importanti risorse americane in missioni umanitarie. Disse che questa era la solita politica buonista e scellerata dei democratici, e che l’America doveva farsi i fatti proprî (quasi testuale) anziché andare a cercare di portare i diritti umani qua o là. Poi ci fu l’Undici Settembre, e lo sconvolgimento della piattaforma di politica estera dell’Amministrazione Bush. I realisti furono messi da parte, e i neoconservatori presero i loro posti.

I neoconservatives sono uno strano ibrido. Prendono il suprematismo americano da destra e l’interventismo da sinistra. Rifiutano l’isolazionismo/realpolitik della destra e il multilateralismo della sinistra. Di certo, in questo decennio, sono stati la voce che si è sentita a favore dell’interventismo umanitario, con qualche amnesia. Il dibattito sull’Iraq è stato emblematico: i neoconservatori hanno rappresentato chi era favorevole, i realisti hanno rappresentato chi era contrario. La posizione dei liberal – non contraria in principio a un intervento per liberare gli iracheni da Saddam, ma che chiedeva più multilateralismo, più risoluzioni, più trattative, più legalità internazionale – è stata completamente schiacciata da questo dibattito.

È stato un decennio molto strano, insomma. E un decennio che è finito, storicamente, con l’elezione di Barack Obama, la naturale prosecuzione di quella tradizione liberal che aveva prodotto il concetto dell’intervento in favore delle vittime dei massacri e che, paradossalmente, durante gli anni di Bush figlio era rimasta rintanata nell’accademia universitaria. L’Amministrazione Obama ha svuotato le migliori università americane, assumendo quasi interamente quel gruppo di intellettuali liberal che avevano prodotto tale manifesto. La domanda che ritorna spesso è se non sia troppo tardi, se l’intero dibattito sulla necessità di intervenire militarmente per evitare massacri e torture non sia oramai stato fagocitato dallo scontro neocon-realisti, tantopiù che i primi tempi della presidenza Obama sono stati marcati da una distinta necessità di emancipazione da Bush, che lo ha portato a condurre una politica estera più tendente al realismo. In teoria, però, non è troppo tardi.

Nella teoria, il decennio passato è finito il 10 dicembre del 2009, quando Obama ha pronunciato queste parole accettando il premio Nobel per la pace:

Tutti noi ci troviamo di fronte a domande difficili su come impedire il massacro di civili da parte del proprio stesso governo o su come fermare una guerra civile la cui violenza e le cui sofferenze possono inghiottire un’intera regione. Io sono convinto che l’uso della forza per ragioni umanitarie può essere giustificato, come è stato nei Balcani, o in altri luoghi sfregiati dalla guerra. L’inazione dilania la nostra coscienza, e può portare a interventi ancora più costosi nel futuro.

Nella pratica, speriamo di essercelo messi alle spalle oggi, a Sirte.

Giovanni Fontana

Dopo aver fatto 100 cose diverse, ha creato e gestisce Second Tree, ONG che opera nei campi profughi in Grecia. La centounesima è sempre quella buona. Il suo blog è Distanti saluti. Twitta, anche.