Maradona e Napoli

I napoletani hanno un rapporto particolare con il sacro. Non pregano San Gennaro, ma gli parlano, proprio come si parla con un vecchio amico, con un conoscente, con qualcuno che non si vede da molto tempo ma a cui ci sembra giusto, anzi normale, chiedere aiuto. Maradona era un semi-dio, un artista, un genio. Aveva portato Napoli dove non era mai stata, aveva sfondato la quarta parete della storia e aveva trascinato una città intera in cima al mondo, e i napoletani, questo, lo sapevano: era il loro orgoglio, il loro momento di riscatto; era tutto quello che gli era sempre stato negato, e che ora, incredibilmente, gli veniva concesso. Come se qualcuno avesse deciso: adesso tocca anche a voi; avrete la vostra fetta di felicità.

I napoletani vedevano Maradona e tornavano a credere in Dio; lo salutavano con un cenno, un sorriso, timidissimi, e allo stesso tempo andavano a casa sua, lo aspettavano, lo tampinavano, e non si vergognavano minimamente. Perché Maradona, come San Gennaro, apparteneva a loro. Avevano lo stesso sangue, la stessa lava nelle vene. E se San Gennaro poteva decidere di non concedere il miracolo, Maradona no: Maradona era un evento sempre, era pura magia. Ogni napoletano ha il suo ricordo, il suo aneddoto: e anche questo è il segno della grandezza. Divisivo, estremo, pieno di ombre, più che di luci, ma era grande, grandissimo, e tutti vogliono poter dire dov’erano quella sera di molti anni fa, quando segnò a quel modo, quando da solo, contro sei uomini, alzò la testa e iniziò la sua cavalcata verso la rivincita.

Per le strade di Napoli, Maradona è diventato velocemente qualcosa di più di un semplice uomo: era un poeta, un filosofo, ‘nu prufessore ‘ro pallone. E la sua presenza si è subito fatta essenza, e il suo ricordo è subito diventato una benedizione e una maledizione insieme, una condanna e una gioia: i bambini volevano essere come lui; gli adulti si nascondevano nella sua ombra, e se ne beavano; i benestanti trovavano finalmente una ragione d’essere, di stare – ed erano salvi, non più solo ricchi –; e ai poveri non pareva vero, perché c’era un nuovo Masaniello pronto a prendere le loro parti davanti al padrone.

Il modo migliore per descrivere Maradona è attraverso la musica. “Live is life” degli Opus, per esempio. La senti, e ti basta chiudere gli occhi per vedere Maradona mentre si riscalda, mentre palleggia, mentre con le scarpette slacciate balla. Ohssì: era un torero, un danzatore. Il suo non era solo calcio; era tango. Era un gioco perenne, ma serissimo. Sacrale, appunto. E i napoletani, per il gioco, hanno sempre avuto un sesto senso. Il calcio è calcio solo per gli altri, solo per quelli che non vengono dal posto da cui è venuto Maradona, solo per quelli che Napoli non la capiscono e non la capiranno mai.

Il calcio è politica, è divisione, è sospensione – dei problemi, delle ansie, dei debiti. Il calcio è un palco enorme, internazionale, in cui tutti hanno una possibilità. E Maradona, per i napoletani, è sempre stato questo: un’occasione. Quando ce la faceva lui, potevi cominciare a sperare, potevi credere, e credere sul serio, di fare qualsiasi cosa: te lo sentivi nel palato, sulle gengive, te lo sentivi sulla punta delle dita. Era la scarica elettrica dell’eccitazione. Maradona era di tutti, e non era di nessuno. Era la cosa più bella, per qualcuno. Ed era il regalo più grande per qualcun altro.

Era un condottiero, uno spadaccino, usava il pallone come spada, e parlava senza frenarsi, senza prendere tempo. Mise l’Italia intera davanti all’evidenza del razzismo. E non si nascose, non si giustificò. La droga, gli eccessi, gli errori: fanno parte della leggenda, nella loro interezza; e nell’epica migliore, più oscuro è l’anti-eroe e più è interessante il suo viaggio. Ma Maradona era anche Diego, e quest’è importante dirlo. È importante dire che da una parte c’era il calciatore con le spalle enormi, capaci di reggere il peso del San Paolo intero, e dall’altra c’era il ragazzo, l’uomo, la radice mortale.

Napoli aveva accolto Maradona come si accoglie un salvatore, e in quel momento, nel momento magico della conoscenza, del corteggiamento di intenti, i napoletani avevano finalmente ritrovato il significato della felicità: e Maradona, alla fine, era proprio questo. Felicità mista a speranza, e sulla speranza mai, nemmeno per un momento, nemmeno per sbaglio, nemmeno per rabbia, si sputa. La speranza è l’anima della religione, è la linfa del gioco, è il codice binario della vita stessa. E a Napoli la speranza vale quanto l’oro, forse anche di più, perché nella speranza ti sembra possibile qualunque cosa, credere non ti pare più assurdo, e la preghiera non è nient’altro che chiedere.

Maradona non era una scusa; era una via di fuga. C’era un uomo, c’era una maglia, e c’era un pallone. E c’era un sogno. E quello no, non morirà mai.

Gianmaria Tammaro

Napoletano convinto dal '91. Scrive di cinema, serie tv e fumetti. Gli piace Bill Murray. Il suo film preferito è Ricomincio da tre.