L’Italia appiccicaticcia di “Favolacce”

L’Italia di Favolacce è un’Italia appiccicaticcia, soleggiata, piena di colori caldi e brillanti, dove i giardini sono ben curati, le case sono tutte uguali, e la provincia ha divorato qualunque cosa con la sua promessa di riscatto, di successo e di vita nuova. In Favolacce i protagonisti sono i bambini: piccoli uomini e piccole donne che parlano di fare sesso, di scopare, che passano l’estate nella disperazione e in quella prigione che è la famiglia; che solo ogni tanto si riscoprono per quello che sono – bambini, appunto – e giocano, stanno insieme, si divertono in piscina (rigorosamente di gomma, rigorosamente gonfiata, rigorosamente montate nel retro della casa dei vicini).

I genitori rimangono sempre un po’ indietro, a spalleggiarsi, a parlare male degli altri, a grugnire come maiali, e a ripetersi: sei la mamma più brava che ci sia; sei il papà più premuroso che abbia mai conosciuto. I loro figli sopravvivono aiutandosi a vicenda, incassando colpi come piccoli pugili. Vengono rivoltati come calzini, sollevati di peso e messi a testa in giù, scaraventati per terra e presi a calci; vengono fatti incontrare per passarsi il morbillo, vengono rasati per i pidocchi, e vengono sfoggiati come gioielli: parliamo di cose belle, leggiamo le pagelline.

Favolacce inizia con una premessa (o una promessa?): questa storia è ispirata a una storia vera; la storia vera è ispirata a una storia falsa; la storia falsa non è molto ispirata. La voce che sentiamo è di Max Tortora, che aveva già lavorato con i fratelli D’Innocenzo, i registi-sceneggiatori di Favolacce, ne La terra dell’abbastanza. È una voce calma, ripulita, che solo ogni tanto incespica nel romanesco – nessuno parla un italiano perfetto, nemmeno i narratori: che gioia – e che riesce senza sforzi a costruire l’atmosfera drammatica del film.

Chi racconta ha trovato il diario di una bambina, l’ha letto, gli è piaciuto, e ha deciso di continuarlo. E quindi ora ascoltiamo la sua storia. Ci sono due fratelli, un maschio e una femmina, e c’è la loro vita, tra scuola, vacanze e un nuovo inizio; ci sono i loro genitori, la loro patetica quotidianità, la loro convinzione di essere i migliori; ci sono i vicini e gli amici, c’è una ragazza-madre incinta, che è ruggente, arrabbiata e disperata, e c’è un professore che sarà l’inizio e, contemporaneamente, la fine di ogni cosa.

Guardando Favolacce viene naturale pensare costantemente al peggio, ed è questo quello che vogliono i D’Innocenzo: prepararci alla tragedia, dirci che è tra di noi, che i colpevoli sono le persone, non i luoghi, che la provincia è diventata una terra di promesse infrante per quella piccola borghesia che ci è andata ad abitare e che ha provato a darsi delle regole; vogliono dirci che non c’è sempre un lieto fine – in realtà, non c’è quasi mai – e che essere bambini non è bello e che qualche volta può fare anche schifo.

Favolacce è un dramma familiare, è un coming-of-age (perché i ragazzini protagonisti, in qualche modo, crescono e diventano adulti), ed è pure un fantasy collodiano, con camerette piene di giocattoli di legno, con l’immaginazione che ogni tanto la fa da padrona, e con genitori-marionette che scimmiottano rassicurazioni e banalità. Ma Favolacce è anche un western – c’è lui, bambino, armato di un fucile di legno, che prima prende la mira e che poi lascia scivolare l’arma-giocattolo nell’incavo del gomito, mentre la camera lo riprende da dietro, di spalle: un giustiziere senza volto, finalmente soddisfatto e finalmente consapevole. Ed è un horror – con i primi piani, i visi lunghi, la tensione che si fa palpabile e insistente, e la mostruosità improvvisa delle espressioni.

Più che al cinema che conosciamo, Favolacce attinge alla letteratura, e comincia e finisce come un romanzo manzoniano, dicendo allo spettatore che tutto può essere, che forse è stato, e che potrebbe tornare diversamente. La cronaca nera, la tragedia familiare di due ragazzi-genitori che s’ammazzano dopo aver ucciso la loro neonata, è l’ossatura del racconto; è la dose di verità, il pizzico che ci risveglia dall’escalation nera del film, e che ci dà il colpo di grazia: la realtà non è meglio delle storie, di queste favolacce, che ci diciamo. Ed è la consapevolezza di questa verità che a un certo punto s’impadronisce dei volti di Elio Germano e di Barbara Chichiarelli, che interpretano due genitori: le loro facce passano velocemente da rintontite e rilassate a presenti e preoccupate; gli occhi si sgranano, le bocche smascellano, e la pelle si tende con forza, in uno spasmo, tra tragedia evitata e tragedia consumata.

Favolacce, on demand dall’11 maggio, è un film disturbante, un film che vive di frammenti e di frame, di silenzi e di particolari, e che trova nella coralità di quello che succede – i bambini che si incontrano, le feste, i pomeriggi di solitudine – la propria voce. Non c’è una sola storia. Ci sono più storie. Ed è la natura umana, quanto siamo sbagliati e malati, quanto siamo ancora crudelmente feroci, il tema fondamentale. Non si esce da questo circolo vizioso. Non c’è pace. Non c’è via d’uscita. Favolacce non vuole rassicurare il suo pubblico: vuole tormentarlo. E ci riesce. Diventa un incubo ad occhi aperti, si insinua con forza, entra dalle orecchie e dagli occhi, e come una macchia d’olio avvolge ogni cosa.
Favole nere, favole maledette, favole amare.

Gianmaria Tammaro

Napoletano convinto dal '91. Scrive di cinema, serie tv e fumetti. Gli piace Bill Murray. Il suo film preferito è Ricomincio da tre.