Il bisogno di storie

Dice: il futuro, e quindi in un certo senso anche il passato, sono i drive in. Un cane vecchio e barcollante, che perde pelo e che fa fatica a muoversi, che prova a mordersi la coda. Torneremo al cinema, torneremo a goderci le storie sul grande schermo, ma lontani gli uni dagli altri, ognuno nella sua macchina, ognuno con le sue cuffie, il suo spazio, la sua sicurezza. Un biglietto per il parcheggio e non per una poltrona numerata.

Chi lo sa se sarà effettivamente così. Chi lo sa se c’è davvero qualcuno che pensa che il cinema, quell’esperienza di condivisione assoluta, addirittura di fastidio certe volte, potrà essere sostituita da un surrogato: una cosa che è e che allo stesso tempo non è. Lo streaming rappresenta una – momentanea – soluzione, e i dati degli ultimi giorni, di Netflix e degli altri servizi, ne sono una prova: c’è un incremento nelle iscrizioni; la gente sta a casa, si abbona, guarda vecchie e nuove serie, e si delizia con i film di qualche anno fa. Ma lo streaming non è mai stato pensato come un’alternativa al cinema – è così, nonostante le tantissime insistenze, i proclami urlati e gli editoriali di carta. Lo streaming è una cosa, il cinema è un’altra. Sono complementari. Due facce della stessa medaglia. E la medaglia, in questo caso, è la voglia che ognuno di noi ha di storie. Perché ne abbiamo bisogno, perché è qui, dentro di noi: è uno di quei brividi ancestrali che ci scuotono e che ci perseguitano, e che ci tengono insieme.

È per questo motivo, forse, che in queste settimane online, su Twitter e altri social network, si stanno organizzando visioni di gruppo: ci si dà un appuntamento, si sceglie il film, e poi lo si guarda tutti insieme; volendo, si può anche commentare; ma c’è chi si fa bastare il pensiero di non essere solo a rivedere “Hook” o “John Wick” (tra i principali sostenitori di quest’iniziativa in Italia ci sono i ragazzi de I 400 calci).

Poi c’è chi apre il balcone o la finestra di casa, poggia su un tavolino il proiettore, e comincia a rimandare sul palazzo di fronte, con il favore della notte, questo o quel classico. E la gente è felice, guarda, anche se si sente male, anche se rimbomba tutto; guarda perché quella storia, quel film, diventano improvvisamente come un abbraccio o una stretta di mano – ci uniscono fisicamente, passionalmente, all’altro: al vicino con cui da giorni parliamo da lontano, o al passante che salutiamo senza conoscerlo, mentre siamo in fila al supermercato.

Le città si riempiono di schermi, perché è anche di questo che sentiamo la mancanza. E per carità: c’è chi odia andare nei cinema pieni di gente, chi non ce la fa a seguire i dialoghi di due attori se nel posto accanto si tiene il cenone di Natale a base di pop-corn e patatine. Ma anche quello, a modo suo, fa parte dell’esperienza del raccontare e del sentire storie – le due cose vanno di pari passo. In quel momento particolare, quello in cui vediamo o ascoltiamo o assistiamo, siamo fermi, immobili, e allo stesso tempo siamo in movimento; tendiamo a partecipare con i nostri sensi, con i nostri pensieri, con le nostre emozioni. Viaggiamo senza spostarci di un centimetro. Voliamo anche se la forza di gravità ci tiene ancorati al suolo.

È il bisogno di storie. È quel bisogno che abbiamo sempre avuto e che probabilmente continueremo ad avere di fare a volte da pubblico e a volte da narratori. Di avere qualcosa – che sia vero, finto, che sia inventato – da condividere con gli altri. Un’esperienza che vive solo sul grande schermo, magari; e che comunque potremmo raccontare come se fosse stata vera, vissuta in prima persona, sulla pelle. Erano solo due sagome in bianco e nero che ballavano strette sul balcone della dirimpettaia, proiettate dal vicino del piano di sotto: ma com’erano belle, e com’era bello il loro ballo; abbiamo danzato insieme, c’ero anche io; prima ero lei, sulle punte, sorridente, eccitata; poi ero lui, con la mano ferma, le spalle tese per la tensione.

Il cinema fa parte del nostro DNA di italiani, di persone, di esseri curiosi. Non è solo una moda, non è solo un capriccio. A lungo, il cinema è diventato un riempitivo, una cornice di cose tutte uguali e già viste, che ha finito per allontanare parte del pubblico – succede se la storia che si racconta non soddisfa, in nessun modo, chi la ascolta. Ma oggi ne sentiamo la mancanza. Ed è una mancanza feroce, a volte persino furiosa, che non coincide solo con le cose belle, con le emozioni, con l’eccitazione delle luci che si spengono e del chiacchiericcio delle ultime file che sfuma fino a spegnersi in un bisbiglio. Coincide anche con le lunghe attese, con i commenti ringhiati tra amici (e così noiosi, a volte); coincide con l’odore del cibo, del sale grosso, dell’olio bruciato, con il rumore scoppiettante dei pop-corn; con la tensione nervosa del volto della cassiera; con la testa del vicino che ha bisogno di qualche scena, di qualche minuto, prima di trovare la sua posizione e permetterci di vedere.

L’esperienza della sala comincia nel momento in cui lasciamo casa e c’armiamo per raggiungere la nostra meta; è la cena successiva, ed è la birra precedente. È l’esperienza intera, quella che fa del nostro bisogno di storie un bisogno viscerale, animalesco e antico. E l’esperienza, per il suo essere, per il suo consumarsi, per il suo succedere, fa parte della vita. Ed è della vita, ora, che sentiamo il richiamo.

Gianmaria Tammaro

Napoletano convinto dal '91. Scrive di cinema, serie tv e fumetti. Gli piace Bill Murray. Il suo film preferito è Ricomincio da tre.