Ho dovuto spiegare (male) la guerra a mia figlia

Qualche giorno fa purtroppo ho distrattamente lasciato il televisore acceso, mentre mia figlia di cinque anni gironzolava per casa. In tv si parlava di guerra. Mi sono reso conto che era troppo tardi per metterci una pezza quando di colpo mi ha fatto: “Papà, so che c’è una guerra”. “Ecco – mi sono detto – ora comincia con le domande e sono fregato”. Non mi ero preparato una risposta, non sapevo come affrontare la questione. E di colpo mi ricordavo anche che ogni volta che succede qualcosa di brutto c’è sempre un articolo sui giornali che spiega cosa dire e cosa non dire ai bambini. Io però quegli articoli non li ho mai letti, perché non ho mai avuto prima una figlia di cinque anni (ora mi dico che sarebbe bello e utile se magari Il Post ne pubblicasse uno con qualche consiglio di esperti).

“Papà, so che c’è la guerra perché ne abbiamo parlato alla scuola con gli altri bambini”. “Come con gli altri bambini?”. “Sì, un amico ci ha detto che c’è un sindaco cattivo che ha fatto la guerra all’Ucraina”. “Pure l’Ucraina sai?”. “Sì, poi le maestre ci hanno detto qualcosa, ci hanno detto anche che è meglio non giocare con quelle macchinine col cannone, perché qualche bambino magari ha dei parenti lì e si preoccupa”. Ho tentato di far cadere l’argomento, di chiuderlo lì, per pura pavidità, ma non è stato possibile.

“Papà, ma questo signore è come il sindaco Giorgio?”. Mia figlia, per motivi misteriosi, ritiene che il sindaco della sua città, che è Giorgio Gori, sia l’autorità civile più alta in carica nel mondo e, per motivi altrettanto misteriosi, lo chiama il sindaco Giorgio. Ho tentato allora di lanciarmi in una distinzione di ordine giuridico-istituzionale, come fumogeno per chiudere il discorso: “No, non è sindaco, è presidente. Il sindaco si occupa di una città, il presidente di tante città e di tanti territori… A posto?”. “Ho capito; c’è però una cosa che non ho capito”. Mi sarei buttato dalla finestra per evitare altre domande, ma ho risposto ostentando tranquillità: “Dimmi, che cosa non hai capito?”. “Papà, ma esattamente che cos’è la guerra?”. “Ah…”. “Cioè, papà, non è come un dente che ti cade. È una cosa molto brutta, no? Chi sono quelli vestiti in quel modo tutto uguale? Che cos’è la macchinina col cannone?”.

Ho autorevolmente farfugliato delle risposte contraddittorie. Ho insieme detto cose terribili e minimizzato (cioè quello che non va fatto). “La guerra è quando si combattono i soldati, che sono quelli vestiti in quel modo. E la macchinina è un carro armato, che spara col cannone”. “Ma sparano dove?”. “Eh, si sparano tra di loro…”. “Ma anche ai bambini? Perché in tv dicono ‘bambini’?”. “Eh, no, boh…. Però non ti preoccupare, perché la guerra è in un paese lontano… Vediamo i cartoni?”.

In poche parole, ho sbagliato tutto. La guerra non è lontana, se è nella testa dei bambini, se è nelle loro domande, se è una paura. La guerra è vicinissima.

Allora mi sono un po’ informato su come fare a rispondere a cose di questo genere, anche perché evidentemente i bambini all’asilo, nella loro insospettabile società parallela, parlano tra loro di attualità. Credo di aver capito che bisogna spiegare le cose che succedono dando ai bambini un orizzonte di speranza e di ricomposizione (e non è che a bruciapelo ti venga in mente), parlando anche molto di chi aiuta a risolvere le situazioni per dare un senso di continuità, di rete, di protezione, di uscita e non di paura, di frammentazione, di catastrofe.

Alla seconda richiesta di mia figlia di parlare della guerra, il giorno dopo, ho spiegato allora un po’ meglio, credo. Ho fatto vedere le immagini delle persone che aiutano gli sfollati, degli amici che ospitano le persone, dei polacchi che proteggono gli ucraini, ho parlato della raccolta di aiuti che vengono poi mandati, dei bambini e delle mamme che verranno anche in Italia, ma non ho nascosto la necessità di difendersi. “La guerra è brutta, ma a volte bisogna farla per difendersi. E comunque anche nella guerra ci sono le persone che aiutano, ci sono persone buone, anche tra i soldati”. “Papà, io conosco una signora che è dell’Ucraina”. “Ecco, bene, allora sii gentile con lei perché magari è un po’ triste e preoccupata”. “Giusto”. Poi sempre per distrazione recidiva ho ancora dimenticato la tv accesa e mia ha figlia ha visto il tavolo con i negoziatori. “Papà, il sindaco qual è?”. “Qui non c’è il sindaco, sono i consiglieri della Russia e quelli dell’Ucraina. Hai visto che bello? Si sono seduti a discutere insieme e troveranno una soluzione. Però ci vorrà tanto tempo, eh. Non subito. Vedi però che parlano e quindi si arriverà alla soluzione, no?”.

Mia figlia era contenta perché le sembrava sensato, e poi stava capendo cose da grandi e stava discutendo col suo papà. Ora mi chiede spesso novità. E io quando guardo la tv o leggo qualcosa cerco sempre un argomento positivo sulla situazione da poterle proporre nel caso mi chiedesse qualcosa (Dio non voglia, e tengo spenta la tv) e questo, in fondo, tranquillizza anche me e un po’ mi commuove, perché è un modo di far vincere la vita e la speranza (almeno a me fa questo effetto).

Perché dico tutto questo? Per avvisare i tanti padri (e madri) che ancora non lo sanno: preparatevi le risposte!

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.