Sui concorsi universitari

In Italia esistono centinaia di associazioni scientifiche, che corrispondono spessissimo a una disciplina accademica in senso stretto (quella che viene chiamata una “classe di concorso”). Le finalità sono la diffusione della disciplina nella società, ma anche, e spesso soprattutto, la difesa dei suoi interessi accademici (e non di tutti i suoi iscritti, ma di quelli che hanno un potere nell’università). Ho scritto questa lettera aperta (già inviata al presidente che ho pregato di trasmetterla ai molti soci), con cui lascio una di queste associazioni per i motivi indicati, e la riporto qui perché penso possa avere un valore generale.

Gentile Presidente,
Le comunico con questa lettera aperta la mia decisione di lasciare l’Associazione Italiana degli Storici delle Dottrine Politiche, per due motivi generali.

Il primo è che in questi anni non ho sentito una sola parola pubblica (pubblica, perché in camera caritatis se ne sentono anche troppe) sullo svolgimento dei concorsi. Il secondo è l’incapacità dell’associazione di interpretare il ruolo dei ricercatori senza posto fisso.

1.Pur lavorando all’estero da quasi cinque anni, ho partecipato in questi anni a vari concorsi in Italia, sia relativi alla classe di “Storia delle dottrine politiche”, che ad altre discipline. Il dato statistico è impressionante (e non nuovo): vincono sistematicamente i candidati “interni”. I dati sugli ultimi 28 concorsi del nostro raggruppamento sono pubblici e molto chiari.
Il dato è talmente evidente che il principio di “comparatività” (stabilito dal buon senso e sancito dalla legge), secondo il quale dovrebbe vincere il candidato migliore presente al concorso, risulta non solo inerte ma addirittura, in qualche caso, irriso.

Non è infatti possibile da un punto vista logico che il migliore sia sempre, o quasi, il candidato locale. Certo può essere un valore che a Milano vinca un milanese, ad Alessandria un alessandrino, a Torino un torinese, a Caserta un casertano, a Cagliari un cagliaritano (chiarisco che sto citando città a caso, come i medievali nei trattati di logica dicevano “Petrus currit” senza riferirsi all’apostolo), ma questo ha poco a che vedere con la ricerca e con l’insegnamento accademico.

I più arditi tra i professori cercano di spiegare questa prassi con nobili ragioni di scuola locale (e sempre più locale), oppure facendo ricorso a un principio di apparente buon senso, quello dello ius loci, versione accademica del latinorum italico, altri dicono “è la cooptazione, bellezza!”, ma commissioni che non comparano titoli, pubblicazioni, attitudini, possibilità dei candidati e che soprattutto non spiegano le ragioni delle scelte, non stanno cooptando, ma cercano di compilare verbali stando attenti a che i ricorsi siano resi più difficili (con effetti a volte francamente comici).

L’Associazione, come la maggior parte delle learned societies italiane, non sembra aver nulla da dire pubblicamente su questo. Quindi o va tutto bene e io, e i non pochi che la pensano come me, mi sbaglio, oppure l’associazione ha abdicato a uno dei suoi doveri morali, quello di fare crescere la disciplina, l’istituzione universitaria e il Paese.

In un mondo perfetto, un’associazione che vuole difendere il livello scientifico di una disciplina fornirebbe gratuitamente ai suoi associati gli avvocati per i ricorsi.

2. E del resto, come potrebbe l’AISDP prendere posizione? Caso raro (unico nella mia personale esperienza) di associazione scientifica in cui ha diritto di voto solo chi ha un posto fisso.

Non chi ha diretto progetti, pubblicato lavori importanti, avuto esperienze internazionali e un contributo potrebbe darlo, no: solo chi ha un posto fisso. Insomma, per farla breve, l’Associazione non può porre il problema dei concorsi, perché contano solo quelli che fanno parte delle commissioni di concorso.

Questo è un punto importante, ma meno grave delle conseguenze più generali e culturali che questa visione rigidamente corporativa (o meglio oligarchica) delle cose comporta. Immaginiamo un ricercatore o una ricercatrice di quarant’anni, magari con svariate monografie, con una reputazione internazionale, con un lavoro svolto per 15 anni in istituzioni e Paesi diversi, ma senza posto fisso nell’università, cioè immaginiamo la situazione reale di molti ricercatori italiani.

Ecco, la nostra Associazione, che studia proprio il pensiero politico e la sua storia, non considera abbastanza maturo per esprimere una posizione pubblica con un voto, un ricercatore o una ricercatrice con queste caratteristiche.
Marx (Groucho) diceva “non entrerei mai in un club che accettasse tra i suoi soci uno come me”. Questa learned society rischia di aver trovato la formula giusta, perché lo accetterebbe ma lo terrebbe in un angolo.

Caro Presidente, il mondo della ricerca è cambiato e le istituzioni più innovative devono saperlo interpretare e non frenarlo. Basta andare in libreria o sfogliare una rivista scientifica per rendersi conto che nelle discipline umanistiche la ricerca è fatta soprattutto da chi il posto fisso non ce l’ha.

Questa lettura svalutante della ricerca stessa – è qui il punto culturale che mi preme -, della sua quasi inutilità ai fini dell’accesso a un posto pubblico di ricercatore o professore, questa idea tacita ma potentissima che non c’è vera e corretta cooptazione, che non c’è vera scelta, che non c’è responsabilità, che non si premia l’indipendenza di pensiero, l’originalità, la leadership (sono criteri indicati dall’ERC dell’Unione Europea), associati all’idea del tutto vetusta che ci sia un dentro e un fuori della ricerca – cioè che chi ha un posto conta e chi non ce l’ha non conta nulla ed è un “giovane”, anche a trentacinque anni, anche a quarantacinque – creano un dispositivo che funziona da specchio deformante della realtà della ricerca e ne frena le potenzialità e il ruolo sociale.

Le istituzioni raccontano la realtà, in buona misura inducono i singoli a raccontarsi in un modo piuttosto che in un altro, possono indicare strade di miglioramento o diventare racconti oppressivi e deformanti, propongono un senso di ciò che è realistico e a volte difendono ciò che non appartiene più alla realtà.

Lascio l’Associazione, che conta tra i suoi membri studiosi che stimo e ai quali mi lega in alcuni casi un sincero affetto, ma mi auguro che questa mia lettera verrà intesa come contributo a un dibattito futuro.

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.