Chi era Donato Bilancia

“Walter” Donato Bilancia è morto oggi di covid nel carcere Due Palazzi di Padova, dove scontava 13 ergastoli per i 17 omicidi che aveva commesso in Liguria e Piemonte nel 1997 e 1998. È passato alla storia – o almeno alla cronaca – come “il serial killer dei treni”. Nessuno in Italia ha mai ucciso così tanti esseri umani, soprattutto donne e persone trans, in così poco tempo. Era nato a Potenza nel 1951. Aveva 69 anni.

Con Walter Donato Bilancia ci passai una notte in una pizzeria di Sampierdarena, un quartiere di Genova, qualche anno prima che cominciasse a uccidere. Nel 2003 Daria Bignardi mi chiese di scriverne per “Donna”, il mensile di Hachette che allora dirigeva (e che oggi considero troppo avanti per poter essere capito). 

Ho conosciuto Walter Donato Bilancia in una notte di settembre 1993. Si usciva da un cinema, ultimo spettacolo. Squillò un telefonino. La proprietaria rispose e annunciò con un risolino imbarazzato che Donato ci avrebbe raggiunto. Così, verso l’una di notte, in una pizzeria di Sampierdarena, di quelle con forno elettrico, Bilancia entrò.

Diede spettacolo fino alle tre del mattino. Indossava, mi pare, un vestito grigio, una camicia bianca molto sbottonata e dei mocassini neri. Ricordo bene la sua stretta di mano energica e la sua voce roca. Con le signore fu un gentiluomo, con il ragazzo qui presente quasi paterno. Raccontò, divertì, un po’ annoiò, pagò per tutti. Poi uno così, uno con cui passi un po’ di ore di una notte qualsiasi, te lo ritrovi sui giornali. Serial killer.

Ti ritrovi a studiare seicento pagine di sentenza e un centinaio di perizia psichiatrica che lo dichiara «capace di intendere e di volere», ti ritrovi a chiedere a quelli che lo conoscevano, a camminare nelle sue strade, per cercare un senso che rimetta in prospettiva il male, come qualcosa di speciale e remoto, e non come l’hobby stagionale di un disgraziato di mezza età.

È probabile che nel carcere di Padova, dove consuma senza poterli nemmeno scalfire i diciassette ergastoli che per lui oggi sono la vita, il suo personaggio sia appena cambiato. Mai nessuno, in Italia, aveva ucciso tanto in così poco tempo. Diciassette omicidi in sei mesi sono troppi. È difficile metterli in fila. Lui la chiamava «consecutio temporum»: dal 15 ottobre 1997 al 16 aprile 1998.

Eppure Bilancia non è mai entrato nell’immaginario collettivo. Non è mai diventato una star, come il mostro di Firenze, come Erika e Omar o come, nel dopoguerra, Rina Fort, “la belva di via San Gregorio”. In principio fu “il killer dei treni”, e questo piaceva. Quando si è capito che i treni erano soltanto un contorno, non è stato perdonato. Le prime tre vittime furono nel gioco d’azzardo, uno soffocato e due uccisi in casa a pistolettate. Poi un gioielliere e sua moglie, tre metronotte (il primo pedinato per giorni e ucciso in ascensore senza motivo: «Glielo facciamo dire ai medici, il perché»; gli altri due ammazzati vicino a Novi Ligure perché intervengono mentre Bilancia sta per uccidere il transessuale che, per primo, descrivendo l’uomo e la sua Mercedes, offrì alla Polizia una pista precisa). Quattro prostitute. Racconterà: «Una cosa uguale per tutte, monotonia assoluta… Precedentemente io a prostitute ci andavo poco o niente, perché ho sempre avuto del materiale, di grosso pregio anche!». Due cambiavalute, un benzinaio che non gli fa credito. Infine le due donne morte nei bagni dei treni.

Diciassette vittime scelte con l’incostanza febbrile del collezionista che sa soltanto iniziare collezioni, mai portarle a termine.

La stazione di Brignole è una specie di muro che divide il più grande centro storico d’Europa – i suoi marciapiedi sporchi di storia e di stranieri arrivati nei secoli dal mare – dalla città industriale degli anni Cinquanta e Sessanta. Ed è un po’ più in là che viene aspettato, accompagnato in casa, fatto spogliare, legato con il nastro isolante e soffocato, Giorgio Centenaro, compagno di gioco di Bilancia, colpevole di averlo fregato (e di averlo chiamato «belinetta»).

La malavita da cui viene Bilancia («Sono un ladro professionista, il migliore che c’è») è un luogo dell’anima, una geografia idealizzata: non ha radici nel porto e nei vicoli, ma nelle bische di mezza periferia dell’immigrazione meridionale (Bilancia, nato a Potenza il 10 luglio 1951, è figlio di un impiegato dell’Inail emigrato a Genova), che dice «belin» e tifa Sampdoria (o addirittura Juventus) . Per scappare si va a Bordighera oppure a Sanremo che c’è il casinò; quelli che hanno la macchina bella volano in Francia.

Quella sera con lui raccontai che mi piaceva giocare a poker e che ero stato al Caesar Palace di Las Vegas. Intenerito, Donato narrò di quella volta in cui aveva perso «più di 250 milioni a Singapore», e di quell’altra e di quell’altra ancora. Viaggiava molto, si è poi saputo. Ma i suoi viaggi sanno sempre di tutto compreso, di villaggio vacanze. Lo ascoltavo facendo la tara. Durante la confessione, spiegherà: «Mi sono giocato almeno due miliardi». C’è motivo di credergli.

La sopraelevata di Genova è una specie di muro che separa il centro storico dal mare che da queste parti è sempre lontano. Se vieni da Ponente, di notte, Genova la vedi spiaccicata sui monti e il mare lo intuisci sulla destra, nero e presente. Poi scendi dal cavalcavia e ti ritrovi davanti alla “Casa del Boia”. Maurizio Parenti («questo sacco di merda qua, che si professava mio amico») e sua moglie, i secondi a essere uccisi da Bilancia, vivevano lì, in un appartamento su due piani. Donato li aspetta. Aspetta che si allontani il tipo che scorta Parenti. Aspetta che il «sacco di merda» vada a comprarsi focaccia e giornale, come fa sempre. Sono le 4 di notte del 21 novembre 1997. Scende dalla macchina e propone a Parenti alcuni orologi. Nel portone estrae la pistola, Smith & Wesson, proiettili finlandesi Lapua Patria, e lo fa salire in casa dove la moglie Carla Scotto, già a letto, si sveglia. Fa spogliare l’uomo e ordina ai due di salire al piano di sopra dove sta la cassaforte. Immobilizza Parenti e la Scotto con del nastro isolante, li fa stendere a letto. Spiega con calma i motivi dell’esecuzione. Spara alla testa di lui e due colpi al petto di lei. Aveva ucciso le due persone, Centenaro e Parenti che lo avevano tradito.

Poteva fermarsi, invece andò avanti. Maurizio Parenti gestiva una bisca di Pieve Ligure con il benestare di una cosca mafiosa. Centenaro era il suo socio. Invitarono Bilancia a giocare e a entrare in società: che se avesse vinto, oltre alla vincita, si sarebbe tenuto il 10 per cento sugli incassi, che se avesse perso quel 10 per cento avrebbe comunque limitato i danni. Probabile che all’inizio gli sembrò un gesto d’affetto. In pochi mesi perse 500 milioni. Sospettava di essere stato truffato. Protestava, si lamentava, ma non si allontanava da Parenti, più giovane di lui, che considerava un amico, uno da cui era andato a cenare con i genitori, uno di cui fidarsi.

La svolta è grottesca. Una notte, va a fare pipì. E sente Centenaro vantarsi con Parenti di quanto è stato bravo a mettere in mezzo il Donato, il «belinetta». «Le dico, è successo un… un… macello, nella mia testa. Se non sentivo il mio nome, andavo in bagno facevo quello che dovevo fare, non succedeva magari niente, vai a vedere». Realizza di aver passato la vita a recitare una parte a cui nessuno ha creduto. Nemmeno io. Decide di uccidersi, poi di ucciderli e di uccidersi. Continuerà ad ammazzare, ma fino ad allora la violenza era stata lontana. Anzi, ne aveva paura. Fargli un prelievo, ancora oggi, è un problema. Qualche anno di galera, un paio di rapine, ma la pistola la usavano gli altri («Io non so sparare»). Aveva un’officina di cui andava orgoglioso, aveva un mestiere lui, ci faceva chiavi e passepartout come quelle per i bagni dei treni. Nessuna traccia di ciò che sarebbe accaduto.

Quello che avvenne dopo gli omicidi Centenaro – Parenti – Scotto, sembra oggi la recita di un uomo così insicuro da poter scimmiottare solo schemi già noti: alla figura del ladro gentiluomo, Bilancia sostituisce quella del serial killer. Riuscì mediocre, troppo scolastico, in entrambe le parti. Si è scritto che ce l’aveva piccolo. Deve aver pesato.

Quando tornavano in Basilicata, suo padre lo portava in visita da tre cugine zitelle, gli tirava giù i pantaloni e le faceva ridere a crepapelle esibendo il ciondolino del figlio. Donato, allora, aveva sette anni. A dodici prese una decisione: seppellire il suo cosino sotto manciate di ovatta infilata nei pantaloni. Non aveva ancora smesso di farsela addosso. Quando accadeva, e accadeva spesso, sua madre metteva il materasso ad asciugare sul balcone, esponendolo al giudizio del vicinato. Cominciò ad avere problemi alle medie quando si mise a rubare dalle tasche dei cappotti dei compagni. Un ragazzino che credeva suo amico fece la spia. Iniziò a fare il ladro già da adolescente. Fu tradito altre volte.

Secondo i periti, ha due idee ricorrenti: essere stato preso per il culo da tutti ed essere «un lupo solitario». Il tradimento più grande, quello che ti immobilizza perché non puoi neanche prendertela con il traditore, riguarda il suicidio di Michele, suo fratello maggiore. Nel 1987, dopo essere stato lasciato dalla moglie, non seppe fare di meglio che andare a prendere il figlio di quattro anni a scuola, raccontargli che sarebbero andati a vedere i treni e buttarsi sotto un accelerato con il bambino in braccio.

Bilancia ha trascorso l’esistenza cercando di essere qualcosa. Qualcosa di chiaro e di forte. Ha vissuto per seppellirsi, per seppellire il suo pisello troppo piccolo sotto chili di bambagia. Più avanti, al cotone nelle mutande si aggiunsero soldi rubati, prestati, puntati ai tavoli da gioco. Come un bambino non ebbe misura, come un bambino fu distratto: aveva la Viacard scaduta e non aveva finito di pagare la Mercedes.

Quando a Pino Monello, che gliel’aveva venduta, arrivarono 813 mila lire di multa per 41 pedaggi non pagati nelle zone di cui tutta l’Italia parlava, quello si insospettì e ne parlò alla polizia. Aveva lasciato tracce ovunque. Un dilettante tragico. A ripensarci oggi, vengono in mente quei compagni delle medie che abitano nei quartieri poveri e che riescono a incantarti con storie di sesso e di violenza di cui sono gli eroi. Di quelli che sai che raccontano balle e che la verità è che quando tornano a casa li sfottono e li prendono a schiaffi. Bilancia cercò così disperatamente di essere all’altezza: un ladro più abile degli altri, un giocatore più estremo, un fumatore più accanito. Fu eccessivo anche come serial killer

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.