La parola «popolo»

Da bambino mi portavano spesso alla Casa del popolo di Montaretto, in Liguria, e mi piaceva tanto. Era squadrata e sgraziata, e lo è ancora, quasi un abuso edilizio, ma da ogni mattone, trave e piastrella trasudava la forza e la voglia di chi l’aveva costruita. Dai muri mi guardavano, eroici e paterni, Che Guevara e Ho Chi Min, Gramsci e Pertini, perfino Luigi Longo, e forse sono ancora lì. Popolo è una parola che ho amato moltissimo, con quel suo suono buffo di polpo rotondo che può accarezzare tutti. E ancora oggi piango quando, in Fuga per la vittoria, il popolo, cantando La Marsigliese, libera la squadra che gioca contro i nazisti. Ancora oggi mi commuovo quando i poveri scoppiano a ridere in quel gran film dimenticato che è I dimenticati di Preston Sturges. Ogni anno riguardo Miracolo a Milano. Mi chiedo, però, sempre più spesso, se la parola popolo non sia un inganno che nasconde in sé un germe autoritario. È una parola ambigua perché da una parte designa i poveri, gli esclusi, dall’altra la moltitudine che sostiene il potere. Si distingue dalla élite, ma la legittima. È la fonte della rivoluzione, ma anche della conservazione e della restaurazione, e lo è contemporaneamente, di volta in volta, a seconda dei tempi perché è sempre un’élite a creare il popolo, a evocarlo e tracciarne i confini. Quando il popolo ricompare, una nuova élite vuole sostituire la vecchia.

Nella sigla SPQR, Senatus popolusque romanus, il Senato è distinto dal popolo che, però, comprende soltanto una parte dei romani, non le donne e gli schiavi, per esempio. La radice è la stessa di pluralità, più, e pieno. Deriva dal latino populus che a sua volta proviene dal greco πλῆθος che significa «folla», «moltitudine», ma esprime l’idea che le moltitudini possano essere definite, delimitate, quasi recintate. Dicono che l’etimologia derivi dalla radice indoeuropea -par o -pal che esprime l’idea di riunire, mettere insieme. Ma per farlo bisogna espellere chi non è compreso. Il popolo sono tanti, mai tutti. È la maggioranza che cancella la minoranza, i servi della gleba, i fuori casta e i senza diritti come i privilegiati. È una parola che dice noi siamo tutti e gli altri nessuno, oppure nemici che non devono esistere. E infatti l’invito di Marx «proletari di tutto il mondo unitevi» è dimenticato. La storia umana è una lotta per decidere chi decide l’insieme: i confini del popolo, della nazione o della razza, e l’origine del potere. Il contrario di popolo, forse, non è individuo, ma umanità.

Questo testo è un breve estratto di un lungo articolo uscito sul Foglio il 25 marzo 2019. Continua a leggere.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.