La fine della fine

Una ragazza, Nina, si presenta alla scuola per informarsi sul corso annuale di scrittura. Viene da Roma. È appassionata di fantasy. Tra le cose che la fanno arrabbiare, e forse anche tra quelle che la spingono a valutare l’iscrizione, c’è il fatto che da qualche tempo le saghe che legge non finiscono più. “Ormai mi ci sto rassegnando”, dice, “ma dopo avere letto mille pagine, la storia finisce sempre in un nuovo inizio”. Da un punto di vista narrativo, i finali, come gli inizi, sono convenzioni. Nel mondo reale le storie cambiano, scivolano l’una dentro l’altra, e niente finisce mai davvero.


Il “finale” della quinta stagione di Games of Thrones

Per uno scrittore finire è difficile: si tratta di riafferrare tutti i fili che nel corso della storia hanno preso direzioni diverse, e riavvicinarli in modo da intrecciarli e poi unirli in un nodo quanto più possibile sorprendente e sensato. Naturalmente ogni finale è diverso, però è possibile raggrupparli in due grandi categorie: quelli a fuoco d’artificio strutturati in una serie di scoppi che accompagnano lo spegnersi della storia e quelli che si infrangono piano piano come un’onda. A queste categorie negli ultimi anni se ne è aggiunta una terza, evidentemente fondata sul modello narrativo dei seriali televisivi e delle telenovelas: il finale aperto, in levare, che anche in letteratura serve ad alimentare la suspence, invece di attutirla, proiettandola alle pagine che saranno scritte in futuro.

Finire una storia è un’operazione delicata perché è il finale a dare un senso alla storia e ai personaggi, esattamente come sono gli ultimi giorni prima della morte, e il modo di affrontarla, a rimettere in fila in un insieme dotato di senso la vita di una persona. La fine della fine non è dunque un problema narrativo o spettacolare (il finale aperto offre grandi vantaggi in termini di divertimento tanto per chi scrive quanto per chi legge). È un problema morale, perché se le storie non finiscono rinunciano implicitamente al compito di insegnare, o almeno affermare, la loro verità. Rinunciano a essere esemplari.

Quando la ragazza Nina se ne è andata, mi sono domandato se questa tendenza, in atto, mi pare, in molta narrativa cosiddetta di genere, abbia ragioni più ampie di quelle specificamente letterarie o banalmente di moda. Se esistano, cioè, delle leve storiche ed economiche che spingono gli scrittori a rimandare il momento in cui ogni filo si annoda. La serializzazione non è un fenomeno nuovo, esiste per lo meno dai feuilleton e dai primi romanzi gialli, ma, al contrario di quanto accade oggi, la loro presa sul pubblico consisteva proprio nella promessa di un finale definitivo che puntualmente scoccava. Il modello più immediato, ovviamente, sono i serial televisivi che si presentano come discendenti diretti dei feuilletton, ma in realtà sono strutturati secondo un principio diverso: quello della infinita dilazione della fine, con il risultato che, di stagione in stagione, spesso la loro qualità viene meno. In pochi ricordano la fine della prima serie di Orange is the New Black, Downton Abbey o Lost. E nessuno quella di Beautiful. Ma è per questo che, anche economicamente, funzionano. Rimandando la fine, rinnovano l’acquisto e la vendita.

La fine della fine, infatti, è il modello di consumo che si è imposto e in cui tutti noi abitiamo. Non riguarda solo le storie – i libri o i serial tv –, è la nostra modalità principale di fruizione di cose e servizi. L’abbonamento sostituisce l’acquisto, il noleggio sostituisce il possesso. La musica non si compra: si noleggia su Spotify e iTunes. I telefonini da oggetti si sono trasformati in benefit compresi nell’abbonamento telefonico. Le biciclette e le auto di proprietà scompaiono sostituite da quelle in sharing. Il senso economico di questa trasformazione è evidente: protrarre il consumo all’infinito incatenando il consumatore potenzialmente per tutta la sua vita, e questo anche al costo di segmentare la spesa iniziale in un affitto inesauribile. La funzione del finale aperto, delle saghe, della serializzazione a oltranza, e perfino della fan fiction, è la stessa: utilizzare la narrazione per incatenare il lettore, protrarre all’infinito la presa, rendendolo un abbonato più che un consumatore. Oltre a essere una modalità di narrazione, la fine della fine è anche, quindi, un principio storico, quello che forse definisce meglio il tempo in cui viviamo. Perfino le guerre, non finiscono mai, originando economie auto sussistenti che si protraggono finché qualcuno ci guadagna qualcosa, come accade in Afghanistan e in Iraq.

Pubblicato anche su Belleville

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.