Riscrittori riscritto

Sono indizi (segue rassegna) però numerosi. Le storie che vale la pena di scrivere non devono più essere nuove. Non è più necessario che siano invenzioni originali di scrittori impegnati a esprimere la propria personalità. Sempre più spesso i libri che funzionano sono sequel continuati da altri – è il caso di David Lagercrantz che prosegue Millennium dopo la morte di Stieg Larsson –, o storie germogliate da altri romanzi come Cinquanta sfumature di grigio, nato da Twilight – la cosiddetta fanfiction –, oppure riscritture moderne di classici del passato. Quello che da decenni accade nella musica, dove cover, campionature e mash-up sono la regola, incomincia ad accadere anche in letteratura. O forse finisce di accadere: se la riscrittura e la citazione diventano metodi per produrre bestseller, forse, è perché il postmoderno ha concluso la propria parabola come avanguardia per farsi cultura di massa. In fondo, anche Il nome della rosa orbita intorno a una citazione. Ma non è solo lo spirito del tempo la causa del tramonto del mito dell’originalità, sono anche i mutamenti delle tecnologie di scrittura degli ultimi vent’anni.

In letteratura la citazione non è una tecnica nuova. Nel corso degli ultimi centocinquant’anni, però, da omaggio di nani moderni a giganti antichi, o comunque da confronto con i maestri, si è progressivamente trasformata in riciclaggio, montaggio di tracce disperse, in proclamazione della consapevolezza che non c’è più niente di nuovo da dire e che, quindi, non resta che riscrivere. «Il sole splendeva, senza possibilità di alternativa, sul niente di nuovo», inizia Murphy di Samuel Beckett. L’esempio perfetto si deve a Jorge Luis Borges che nel 1939 pubblicò sulla rivista Sur il racconto Pierre Menard (autore del Don Quijote de la Mancha), poi contenuto in Finzioni, dove si racconta di uno scrittore che riscrive riga per riga il romanzo di Cervantes, soltanto più denso perché arricchito da quanto accaduto in seguito. L’ossessione di Menard è stata condivisa nella realtà dallo scrittore spagnolo Andrés Trapiello che nell’estate 2105, dopo 14 anni di fatiche a cinquecento anni dall’originale, ha pubblicato la sua traduzione integrale in castigliano moderno del Don Chisciotte. Anche in questo caso poco di nuovo: nel 1984 Piero Chiara diede scandalo per avere riscritto parte del Decamerone, e averne vendute più o meno 200 mila copie (il titolo scelto da Mondadori fu molto pudico: Il Decameron raccontato in dieci novelle). Nel 2013 Aldo Busi ha fatto lo stesso, adducendo motivazione pragmatiche e perfino plausibili, quasi di servizio al lettore: «Le assicuro che per il Decameron era indispensabile. L’italiano del Trecento è una lingua totalmente straniera». Se tutto è stato detto, è stato detto con parole antiche, e quindi non può essere riletto: quindi riscriverlo diventa l’unica possibilità di rileggerlo. Nel 2005 Alessandro Baricco ha tagliato gli dèi dall’Iliade e riscritto la caduta di Troia, facendo risentire qualcuno, anche se in Italia la proclamata fedeltà all’originale si è sempre fondata sui ricordi liceali sulla traduzione di Vincenzo Monti.

La riscrittura, da sporadica trovata editoriale motivata dall’invecchiamento della lingua e da esigenze di visibilità, sembra essersi fatta industria culturale. Gli esempi si moltiplicano. Nonostante le dimensioni del proprio ego, o forse per prendersi una vacanza dalla sua invadenza, lo scrittore americano Joshua Cohen – già autore di un romanzo intitolato Book of numbers (come il quarto libro della Bibbia) su uno scrittore di nome Joshua Cohen che accetta di fare il ghostwriter dell’autobiografia di un miliardario di nome Joshua Cohen – nell’ottobre 2015 ha iniziato a riscrivere pubblicamente, giorno per giorno, Il circolo Pickwick, il romanzo che Charles Dickens pubblicò in diciannove puntate tra il marzo 1836 e l’ottobre 1837. L’Oregon Shakespeare Festival – un festival shakespeariano che si svolge dal 1935 ad Ashland, una cittadina dell’Oregon che ha 20 mila abitanti e un teatro elisabettiano – ha annunciato di avere commissionato la traduzione in inglese moderno di tutte le 39 commedie di Shakespeare per festeggiare il quattrocentesimo anniversario della sua morte, avvenuta il 23 aprile 1616. Ma nel teatro la riscrittura è una pratica antica e comune: Molière riscrisse Plauto che riscrisse Menandro, e le versioni del Don Giovanni sono infinite. Meno consueto che alcuni famosi scrittori e scrittrici contemporanei abbiano accettato l’invito della Hogarth, una casa editrice della Vintage, di riscrivere da capo sotto forma di romanzo un’opera a loro scelta di Shakespeare: Jo Nesbø si è preso Macbeth, Gillian Flynn ha scelto Amleto, Margareth Atwood riscriverà La tempesta, Tracy Chevalier Otello e Anne Tyler La Bisbetica domata. Un progetto simile è in corso da anni anche con i romanzi di Jane Austen, «reimmaginati» da scrittori come Alexander McCall Smith o Joanna Trollope. Austen, peraltro, fu una delle prime scrittrici – un altro fu Samuel Richardson nel Settecento – a essere fatta oggetto di quella che in seguito sarebbe stata chiamata fanfiction: la riscrittura da parte dei fan di finali alternativi o di continuazioni dei romanzi originali. Nel 1913 uscì Old friends and New Fancies di Sybil G. Briton che rimetteva in scena i personaggi dei sei romanzi maggiori. Ma la maledizione continua: il film Pride and Prejudice and Zombies, in uscita nel 2016, è tratto dall’omonimo romanzo horror del 2009, co-firmato da Jane Austen e Seth Grahame Smith.

Quello che accade oggi, però, non è più l’attività di un singolo scrittore innamorato o in cerca di successo. È un’azione collettiva, insieme spontanea e organizzata, che trova in Internet la propria piattaforma ideale, e che produce un bestseller dietro l’altro. Il caso classico è Cinquanta sfumature di grigio di E. L. James, nato come fanfiction di Twilight di Stephenie Meyer, i cui fan hanno scritto migliaia di ibridi, incrociandosi perfino con quelli di Harry Potter. Il caso più strano, invece, è quello della stessa Stephenie Meyer, l’autrice di Twilight, che ha deciso, addirittura, di riscrivere se stessa, cambiando sesso ai propri protagonisti. Ma esiste anche una fanfiction che non si basa sulla fiction, ma reinterpreta fatti reali, il che rafforza il sospetto che la realtà sia solo una forma di finzione clandestina. After di Anna Todd, altro bestseller mondiale nato dai fan, si ispira ai componenti dei One Direction. Anche qui, però, niente di nuovo: da piccoli Charlotte Brontë e le sue sorelle si divertivano a scrivere le avventure di Arthur Wellesley, primo Duca di Wellington, e dei suoi due bambini, tutti personaggi che esistevano quanto i One Direction.

Tutto è già stato fatto, rifatto, scritto e riscritto, ma la quantità di riscritture, la loro immensa popolarità e il fatto che si tratti di modalità inventate e attuate, almeno all’inizio, da masse di ragazzini utilizzando un media giovane come Internet, indica che nella narrazione sta accadendo qualcosa. I concetti di originalità e personalità sfumano. Ripetizione, variazione e collaborazione si trasformano in un metodo per ideare e raccontare. Si sente sempre dire che le storie in fondo sono sempre le stesse. Ed è vero, quasi: il racconto del bambino che scopre di essere il prescelto è Mosè, Gesù ed Harry Potter, e anche Luke Skywalker. Forse le grandi storie sono strutture di per sé dinamiche, fatte di relazioni tra personaggi ed eventi. Sono costellazioni, figure geometriche o accordi musicali, risonanti, che chiedono di essere raccontate di nuovo. Walter Benjamin scrisse, da qualche parte, che la caratteristica dell’opera d’arte è di potenziarsi a ogni sguardo (o ascolto o lettura) invece di spegnersi. Non è così – tutto alla fine si consuma, anche le cose belle – ma è vero che nell’ossessione di Achab per la Balena, nella voglia di un burattino di legno di diventare bambino o nella tragedia di un ragazzo che, senza saperlo, uccide suo padre e finisce a letto con sua madre, si riconosce immediatamente qualcosa che va raccontato, e raccontato di nuovo, per sempre. È una potenza che, forse, vale anche per gli zombie che si sono messi a tormentare Jane Austen o per i ragazzi vampiri innamorati di Twilight.

In un suo saggio famoso – Il Narratore, Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov – sempre Benjamin distingueva tra narrazione orale e narrazione scritta, proprio sulla base del fatto che la prima esiste solo se le sue storie continuano essere narrate di nuovo, ricordate e modificate di continuo da chi le narra e ascolta. In questo senso, parte della letteratura sembrerebbe tornare a modalità narrative antiche, addirittura precedenti l’invenzione della scrittura. È da qui che bisognerebbe partire, cercando di capire se e come i mutamenti delle tecnologie di scrittura trasformino le tecniche di narrazione. La scrittura digitale esiste da appena trent’anni, ed è diventata di massa appena da venti. In nessuna epoca si è scritto tanto come nella nostra. Scriviamo tutti – per strada, sugli autobus, guidando – testi che possono essere cambiati, cancellati, spostati, copiati e incollati, tagliati, twettati, retweettati, postati. Sono parole scritte, ma sono ancora più volatili di quelle parlate. Il testo digitale non è mai definitivo, neppure quando viene reso pubblico, perché da quel momento in poi tutti potranno cambiarlo e commentarlo a loro volta. Le storie digitali sono mutanti per natura. Su Internet la narrazione è aperta, ognuno può tornare a raccontarla, mischiandola ad altre o modificandone parti. Finisce, anche nella cultura popolare, la concezione romantica dell’opera letteraria come prodotto perfetto del genio, che è stata la vera anomalia, l’interruzione di una pratica della narrazione che altrimenti è sempre rimasta aperta e sta tornando a esserlo. Le lettere oggi compaiono e scompaiono sugli schermi, senza spesa e senza sforzi. La stampa imponeva, invece, la certezza di ogni parola, poiché costava denaro e fatica, e i segni di inchiostro che imprimeva sulla carta erano permanenti, non cancellabili. Per questo l’opera finita doveva essere pensata come perfetta, intangibile, non migliorabile. Per la cultura, la tecnologia è sempre determinante.

Questo testo – pubblicato su Tirature ’16 – è una riscrittura ampliata di un articolo intitolato Riscrittori già pubblicato sul Post (da cui il titolo)

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.