A sangue freddo | Making a murderer

In Cold BloodA sangue freddo – di Truman Capote uscì in libreria nel gennaio 1966, esattamente cinquant’anni fa. La casa editrice Random House e lo stesso Capote lo lanciarono (esagerando) come il primo romanzo interamente basato su fatti realmente accaduti. Il libro – che narra il massacro di una famiglia in Kansas nel 1959, l’arresto e il processo dei due assassini – si attirò molte critiche: fu accusato di mancanza di oggettività, inutile ed eccessiva crudezza, scarsa pietà per le vittime e di una certa comprensione, invece, nei confronti degli assassini, o almeno di uno di loro. Sono accuse simili a quelle rivolte, oggi, a Making a murderer, il docu-serial di Netflix sulla vicenda di Steve Avery, l’uomo incarcerato per 18 anni a causa di uno stupro che non aveva commesso e, poi, processato di nuovo per l’omicidio di una ragazza.

Sull’altro fronte c’erano gli entusiasti, come oggi. In Cold Blood rappresentava una rivoluzione nella storia della letteratura, che da allora in avanti non sarebbe stata più costretta a inventare, ma sarebbe stata sottomessa soltanto alla verità oggettiva dei fatti. Anche l’entusiasmo ricorda, quindi, quello che oggi circonda il true crime in generale, non soltanto Making a murderer, ma  anche serial come The Jinx e podcast come Serial. Penguin Random House – lo stesso editore di In Cold Blood – ha annunciato di avere acquisito i diritti del libro su Avery The innocent killer, scritto da un suo avvocato e già pubblicato dalla American Bar Association nel 2014, ma se Capote partisse oggi per il Kansas, probabilmente si porterebbe dietro una troupe televisiva.

Nella prima intervista per il lancio, Truman Capote racconta a George Plimpton del New York Times di essere sempre stato convinto della coincidenza tra arte e realtà: «La decisione si basava su una teoria che mi sono tenuto in testa da quando ho iniziato a scrivere professionalmente più di vent’anni fa. Mi sembrava che il giornalismo, il reportage, potesse essere forzato fino a produrre una importante nuova forma d’arte: il romanzo di non-fiction». Prima di In cold blood, in verità, erano stati scritti molti altri libri-inchiesta basati sulla realtà, perfino romanzi, alcuni di grande successo come la serie degli anni Venti Studies in murder di Edmund Pearson, ma nessuno prima di Capote aveva teorizzato in modo così chiaro la possibilità di ricavare dal racconto giornalistico una nuova forma d’arte.

Racconta Capote: «Mi venne un certo numero di idee, ma le scartai una dopo l’altra per varie ragioni, spesso dopo aver già fatto molto lavoro. Poi, una mattina del novembre 1959, sfogliando velocemente il New York Times, in una pagina molto interna, mi sono imbattuto in questo titolo: “Massacrato ricco agricoltore e altri tre membri della sua famiglia”». Era un articolo breve che iniziava: «Holcomb, Kansas, 15 novembre 1959. Un ricco agricoltore di frumento, sua moglie e i loro due figli sono stati ritrovati nella loro abitazione ammazzati da colpi di arma da fuoco. Sono stati uccisi da colpi di fucile esplosi a bruciapelo dopo essere stati legati e imbavagliati. Il padre, il quarantottenne Herbert W. Clutter, è stato ritrovato in cantina insieme al figlio Kenyon di 15 anni. Sua moglie Bonnie, di 45 anni, e la figlia Nancy, 16, erano nei loro letti. Non ci sono segni di lotta, e non è stato rubato nulla. Le linee telefoniche sono state tagliate».

La storia è nota: pochi giorni dopo avere letto la notizia, Capote partì per il Kansas con l’amica di infanzia Harper Lee che un anno dopo avrebbe pubblicato To Kill a Mockingbird, Il buio oltre la siepe (ed è appena da notare che il processo del romanzo e la figura eroica e pacata dell’avvocato Atticus Finch hanno somiglianze con Making a murderer). Gli autori del massacro furono arrestati qualche settimana dopo il delitto. Truman Capote seguì il caso per sei anni, osservando i dettagli fino a esserne ossessionato e a farsene distruggere, visitò la fattoria dei Clutter e le stanze dove le vittime avevano vissuto ed erano state ammazzate, conobbe e descrisse i cittadini di Holcomb, e seguì le indagini e l’arresto di Dick Hickock e Perry Smith, il loro processo, la loro condanna, senza mai riuscire ad arrivare fino in fondo perché durante il racconto il caso cambiava e ne cambiavano i protagonisti, che all’inizio erano i Clutter, le vittime, e poi divennero i loro assassini, man mano che in tribunale si scavava nelle loro vite e nei motivi che li avevano condotti allo scempio. Smith e Hickcock furono impiccati il 14 aprile 1965. Nove mesi dopo uscì il libro. Truman Capote sostenne di non avere aggiunto, omesso o inventato niente. In realtà aveva apportato una serie di cambiamenti per rendere più forte il racconto: per esempio lasciò nell’ombra, quasi come un combustibile invisibile ma devastante, l’attrazione che provò verso uno degli assassini.

Anche Moira Demos e Laura Ricciardi, le autrici di Making a murderer, hanno deliberatamente nascosto alcune prove a sostegno dell’accusa in modo da mettere in miglior luce il protagonista. Ma si sono difese: «Abbiamo lasciato fuori delle prove, naturalmente. Non ci sarebbe stato altro modo di farlo. Non stavamo mettendo su un processo, ma un film. Rispetto a quanto abbiamo omesso, la vera questione è: erano davvero significative? La risposta segreta è no». In particolare, scrive il New Yorker in un lungo e intelligente articolo, le autrici hanno compresso quello che avveniva nella tesi preconcetta che il protagonista fosse innocente. Ne erano e sono così convinte – probabilmente a ragione –  da essersi sentite autorizzate ad omettere informazioni che avrebbero insinuato il dubbio negli spettatori per non attutire il loro sdegno e indebolire il racconto. L’accusa del New Yorker a Demos e Ricciardi, cioè, è di avere seguito gli stessi criteri di spettacolarità e morbosità tipici del più becero racconto televisivo di cronaca nera, facendosi però schermo dietro a motivazioni civili e alla raffinatezza delle riprese e della regia.

La novità di Making a murderer, The Jinx e Serial è soprattutto formale. Come In Cold Blood rappresentò l’ingresso della letteratura nel cosiddetto true crime, prima di allora considerato un genere popolare buono per romanzacci morbosi e per la cosiddetta penny press, così questi docu-serial modernizzano e traducono per un pubblico più colto il tradizionale racconto di nera. Da questo punto di vista hanno aperto una strada dove in futuro si precipiteranno in molti. Ma che il dibattito ruoti ancora intorno all’idea di verità e al concetto di oggettività è molto ingenuo. Scambia quella che è, comunque, narrazione con la cronaca, e impone all’epica il compito insensato di stabilire verità giudiziarie. Ogni storia si può raccontare cercando di essere “corretti” ma essere oggettivi è impossibile, perché raccontare significa innanzitutto decidere che cosa ignorare. Non solo: scegliere che qualcosa vale la pena di essere raccontato, implica una decisione preventiva sulla sua esemplarità e universalità, e questo vale per In Cold Blood, Making a Murderer come per Moby Dick e Medea.

Immaginare che chi racconta scompaia è ingenuo e sbagliato. Capote pretendeva di scomparire e invece sprofondò. Chi osserva non può mai rimanere fuori dalla scena – può tentare di non farsi trascinare dalle proprie passioni (e probabilmente Ricciardi e Demos non hanno opposto molta resistenza) – ma si forma convinzioni e interviene, anche suo malgrado, magari perché si sente attratto dall’assassino, come accadde a Capote.

Ed è primitiva l’idea, ancora molto diffusa, che la televisione sia un mezzo di per sé vero e attendibile. La potenza e il successo di Making a murderer si basano sull’uso sapiente, disonesto, epico e politico di questa superstizione. Nella grammatica del serial niente è ricostruito – i luoghi, i documenti, le persone coinvolte, il processo – eppure tutto è ricostruito. Tutto è racconto: il cimitero delle automobili dove la famiglia Avery vive, la voce e lo sguardo dei suoi genitori, le espressioni dei suoi avvocati, i riti dei tribunali.

La forza di Making a murderer non è la denuncia del sistema giudiziario americano, per quanto mostruoso sia e per quanto vederlo in azione possa essere ributtante: quella è una scusa per le autrici e per gli spettatori. La sua forza sta nella vicenda, nei suoi personaggi e nel modo in cui sono raccontati. È avere acceso le telecamere su una tragedia in corso e averla seguita e montata. Cioè, narrata. Esattamente come accadde a Capote. Making a murderer, The Jinx e Serial indicano una strada e un metodo che saranno seguiti, ma i risultati migliori, in termini di pubblico e denaro (non di qualità), si otterranno sempre puntando sul sensazionalismo, la violenza o la morbosità. Presto le telecamere si accenderanno sulle storie più sordide e capaci di colpire allo stomaco: ci saranno doc serial su star in disgrazia come Fabrizio Corona, sui bambini ammazzati come a Cogne e sugli amanti dell’acido incinta di Milano.

Chi guarda non è mai innocente.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.