Baricco, la razionalità e gli economisti

Non immagino quale sarà l’approdo delle considerazioni molto belle che Alessandro Baricco sta svolgendo sul Post da qualche settimana sui limiti di quella che lui chiama “intelligenza novecentesca”. Aspetto con curiosità e interesse. Ha anticipato che non sarà una risposta. E già questo è fondamentale perché, come è solito ripetere il latinista Ivano Dionigi, «se la scienza e le tecnologie hanno l’onere dell’ars respondendi, della risposta ai problemi del momento, il sapere umanistico ha l’onere dell’ars interrogandi, della domanda, “arte” ben più difficile e decisiva perché ha la responsabilità di ricapitolare gli snodi del pensiero».

Esattamente quello che sta facendo Baricco, innanzitutto snidando come si è giunti a ritenere un dogma che “there is no alternative” a un certo tipo di intelligenza che si crede razionale e che fonda la sua forza sulla convinzione di agire secondo razionalità, commettendo così il duplice errore, scrive il fondatore della Scuola Holden, «di credere, cartesianamente, che esista un’intelligenza razionale (che si possa capire e gestire la realtà con il solo meccanismo della ragione) e credere, in sovrappiù, di esserne una perfetta espressione, aliena da qualsiasi rigurgito irrazionale».

In attesa quindi di conoscere l’esito finale delle sue suggestive riflessioni vorrei provare a evidenziare, per sommi capi, perché larga parte della responsabilità di questa “deriva razionalista” debba essere ascritta, a mio avviso, agli economisti, tra i più convinti assertori che la scelta razionale sia l’unica contemperabile.

Prima però una premessa lampo doverosa, e scontata mi verrebbe da aggiungere, se non fosse che lo è molto meno di quanto non si creda: l’economia non è una scienza (semmai è una “scienza triste” come la sbeffeggiava il filosofo scozzese Thomas Carlyle), non obbedisce cioè a leggi fisiche inoppugnabili (Keynes diceva che l’economia non è come la mela newtoniana, mentre cade cambia direzione) bensì è una disciplina che si invera nella contaminazione con altre discipline come la storia, la filosofia, l’antropologia, la letteratura, il diritto, la geografia, la politologia, la psicologia, la matematica, eccetera.

Questa sua natura multidisciplinare rende l’economia per forza di cose complessa, disputabile, difficilmente schematizzabile, bisognevole ogni volta di imprescindibili contestualizzazioni spaziali e temporali. Natura che ha finito con il confliggere con l’ambizione degli economisti di essere considerati a tutti gli effetti degli scienziati “puri”, nei confronti dei quali hanno sempre provato una sorta di malcelato complesso di inferiorità accademico.

Fu così che alcuni decenni orsono decisero di compiere il grande salto, di ricorrere cioè in modo massiccio all’utilizzo di modelli matematici, per cercare di “comprimere” in formule ed equazioni, anche molto sofisticate, il comportamento umano.
Ecco come lo spiegava già negli anni Ottanta, nella sua fortunata “Storia dell’economia”, John Kenneth Galbraith:

«L’abilità matematica nella teoria economica conseguì un certo valore obiettivo come condizione di ammissione alla professione di economista, un mezzo per escludere coloro che avevano solo un talento puramente verbale. E anche se tale teoria non diede un grande contributo – come si ammetteva senza difficoltà – nel determinare l’indirizzo pratico di politica economica, assolse un’altra funzione. Le formulazioni sempre più tecniche e la discussione sulla loro validità e precisione fornirono lavoro a molte migliaia di economisti, di cui c’era ora bisogno per insegnare l’economia in università e istituti secondari in tutto il mondo. Se tutte queste voci avessero cercato di essere ascoltate su questioni pratiche, il clamore risultante avrebbe suscitato confusione, forse a un livello intollerabile. L’economia matematica diede all’economia anche un aspetto professionalmente gratificante di certezza scientifica e di precisione, contribuendo utilmente al prestigio degli economisti accademici nella loro associazione universitaria con le altre scienze sociali e con le cosiddette hard sciences. Uno dei costi di questi vari servizi fu, però, l’allontanamento di vari passi di questa disciplina dalla realtà».

Naturalmente affinché potesse realizzarsi una simile metamorfosi ci fu bisogno di un grande alleato, del feticcio intellettuale per definizione, il cosiddetto homo oeconomicus (un idiota, lo definì il Nobel per l’economia Amartya Sen), quel soggetto che agisce sempre e solo in modo razionale per massimizzare, dalla mattina alla sera, il proprio tornaconto personale. E che, quindi, si presta a confluire in modelli matematici perché la sua “mente” è un insieme di algoritmi di ottimizzazione e il suo comportamento è dettato solo da incentivi di tipo utilitaristico.

Ora sappiamo tutti che l’essere umano è molto più complesso dell’homo oeconomicus, che può agire per egoismo ma anche per altruismo, con la ragione ma anche per impeto, che i suoi comportamenti possono essere mutevoli, contraddittori, altalenanti e via dicendo. Ma agli economisti questo non interessava (e continua ancora, nella stragrande maggioranza dei casi, a non interessare), per loro l’importante era (ed è) sentirsi “scienziati”.

Faccio un esempio in proposito visto che Baricco, nella seconda puntata, rimarca puntualmente al primo blocco come uno dei limiti dell’intelligenza novecentesca sia quello di ipotizzare sempre «che il problema sia fisso, fermo, stabile: risolverlo significa inchiodarlo lì». Un esempio che parla proprio di un determinato “effetto fisso” (e, se vogliamo, anche buffo perché evoca un personaggio di Walt Disney) che credo aiuti bene a comprendere perché sia fondamentale che gli economisti correggano presto il tiro e si immergano finalmente a piene mani nella realtà altrimenti finiranno con il perdere del tutto la loro già fortemente minata credibilità (i due Nobel per l’economia e “contro” la povertà del 2019, i coniugi Estehr Duflo e Abhijit Banerijee, nel loro libro “Good Economics for Hard Times”, rivelano come appena il 25 per cento dei cittadini abbia fiducia negli economisti e che solo i politici siano messi peggio in proposito).
Il personaggio in questione è l’Effalumpo, animale immaginario nelle storie di Winnie the Pooh, sapientemente evocato dall’economista Giorgio Barba Navaretti (per fortuna le voci critiche all’interno della categoria non mancano anche in Italia) per evidenziare i limiti dei modelli econometrici, quelli cioè pieni di formule matematiche, quando si trovano a dover interpretare il comportamento di determinati agenti economici quali, per esempio, gli imprenditori. Spiega Barba Navaretti:

«Nelle analisi empiriche sulle imprese in cui si voglia isolare un determinato fenomeno (ad esempio se le aziende che innovano sono più efficienti o se quelle che esportano crescono più in fretta) le tecniche econometriche impongono di introdurre un così detto effetto fisso, che è un parametro che cattura tutto quanto i dati a disposizione del ricercatore non osservano. L’effetto fisso è come l’effalumpo, una scatola nera dentro cui non si guarda mai. Forse il principale ingrediente mai osservato nell’effetto fisso è proprio l’imprenditore…Perché l’imprenditore è una serie infinita di cose ed è assai difficile caratterizzarlo. Non se ne trova uno con la i maiuscola che rappresenti tutti gli altri e che faccia meglio di tutti gli altri. C’è l’imprenditore avido e quello attento al sociale; l’imprenditore innovatore e quello che batte i corridoi della politica in cerca di favori; l’imprenditore tecnico e quello finanziario; l’imprenditore razionale e quello che agisce di pancia; l’imprenditore di prima e quello di terza generazione».

Insomma, altro che homo oeconomicus che, ormai possiamo certificarlo, è un fake a tutti gli effetti. Se l’imprenditore, l’agente economico per antonomasia, non corrisponde affatto al mito dell’essere razionale mosso esclusivamente da calcoli per massimizzare l’interesse individuale, figuriamoci le persone “normali” i cui comportamenti sono dettati e mossi da una miriade di motivazioni. Se i modelli econometrici che cercano di imbrigliarle in una formuletta non sono in grado di “catturare” nemmeno quelle di alcuni tra i principali protagonisti della vita economica quali sono, appunto, gli imprenditori, allora bisogna davvero cambiare registro.

Ma mentre gli economisti si allontanavano sempre di più dalla realtà rinchiudendosi a doppia mandata nella loro famosa torre d’avorio, nel contempo cresceva a dismisura il loro ascendente sui decisori pubblici. Finendo così per dar vita a quelle che con una espressione di indubbia efficacia il politologo Maurizio Ferrera ha chiamato econocrazie, ossia «sistemi in cui le prospettive e le raccomandazioni degli economisti hanno assunto una rilevanza sproporzionata rispetto all’effettivo stato delle loro conoscenze, con implicazioni potenzialmente negative sulle condizioni di vita dei cittadini e sul funzionamento della stessa democrazia».

Come a dire: meno sono capaci di comprendere la realtà, più si consente loro, in virtù del fatto che sono consiglieri sempre più ascoltati (e spesso lautamente compensati) del principe, di incidervi. Un combinato disposto davvero micidiale. Brillantemente riassunto in una barzelletta che sta nel libro appena uscito di Binyamin Appelbaum “Il tempo degli economisti”: Due dignitari stanno assistendo a una parata militare. Al termine, dopo tutti i carrarmati, i missili, i soldati in marcia arriva un carro con sopra alcuni civili in abiti trasandati. «Chi sono quelli» chiede un dignitario all’altro. «Oh quelli sono gli economisti. Non hai idea di quanti danni possono fare».

Per fortuna qualcosa si muove. Certo, pur tra mille difficoltà e resistenze coriacee dei custodi dell’ortodossia. Ma comunque si muove. Da un po’ di tempo, infatti, ha cominciato a farsi largo una branca dell’economia che va sotto il nome di economia comportamentale, che ha il suo padre fondatore in Daniel Khaneman, uno psicologo insignito nel 2002 del premio Nobel per l’economia.
Nel 2013 lo vinse poi Robert Shiller (insieme a Eugene Fama e Lars Peter Hansen) per i suoi studi sulla finanza comportamentale (Shiller fu uno dei pochi a prevedere la crisi del 2007-2008 con il suo best seller “Euforia irrazionale”).
Ancora, nel 2017 il Nobel andò a Richard Thaler, economista comportamentale a tutto tondo, per i suoi studi sulle “spinte gentili” (la cosiddetta “teoria dei nudge”) che sviluppano l’idea per cui i Governi possono educare “gentilmente” i cittadini per spingerli verso comportamenti virtuosi.

Thaler oggi, sebbene con estrema cautela, sparge un discreto ottimismo sulla diffusione della sua branca: «L’economia comportamentale è più accettata ai vertici scientifici e nelle università di eccellenza che in tutto il resto dell’accademia. D’altro lato, sono i giovani economisti a essere più aperti verso queste idee. Quelli sotto i quarant’anni non la considerano come una rottura radicale. Nell’insieme però restiamo abbastanza marginalizzati. Per esempio questo orientamento è quasi ignorato nei manuali».
Thaler, peraltro, oltre ad essere un economista di gran vaglia è anche un battutista formidabile, autore di definizioni talmente tranchant che riassumono meglio di un intero testo concetti fondamentali. Per esempio sugli economisti ha detto:

«Se prendete qualsiasi manuale avanzato di economia scoprirete che gli economisti hanno una visione piuttosto particolare degli esseri umani: sono tutti bravi in matematica, hanno lo stesso livello di autocontrollo di un Gandhi e, socialmente, sono dei perfetti farabutti. Però queste non sono le persone che incontriamo tutti i giorni». Oppure: «Ho passato gli ultimi quarant’anni della mia vita a studiare gli esseri umani per imparare a distinguerli da quelle strane creature degli economisti». O ancora: «Se solo parte dell’analisi può dirsi comportamentale, dobbiamo supporre che ancora oggi gran parte dell’economia sia profondamente “anti-comportamentale”, ossia si disinteressi di cosa le persone desiderano e di come si comportano».
Ma la battuta a mio avviso meglio riuscita l’ha fatta proprio all’indomani dell’assegnazione del Nobel, quando un giornalista gli chiese come avrebbe speso i soldi del premio: «Nel modo più irrazionale possibile» rispose Thaler.

Affossato il mito della razionalità c’è bisogno quindi (in economia, ma non solo) di pensare in modo inedito, di «pensare l’impensabile», come dichiarava su Repubblica proprio Baricco già un anno fa circa (20 maggio 2020) intervistato da Maurizio Crosetti.

Ciò significa essenzialmente, secondo me, non aver paura di misurarsi con l’utopia. Non l’utopia, per dirla con Claudio Magris, che pretende di avere la ricetta per cambiare il mondo ma quella che sa che il mondo non è tutto là dove lo vediamo e come lo vediamo. Il pensiero utopico che sfida il potere e il sapere costituito, che mette in discussione le rendite di posizione, siano esse politiche, accademiche, economiche, finanziarie, intellettuali, insomma l’establishment (o le élite, direbbe sempre Baricco) e rimette al centro «le persone che incontriamo tutti i giorni» (per stare sempre alle parole di Thaler).

A Roma, sul palazzo del quartiere Trieste dove aveva vissuto, poco meno di due anni fa è stata affissa una targa commemorativa di Ezio Tarantelli, l’economista allievo del grande economista-umanista Federico Caffè (con cui, peraltro, Mario Draghi si laureò nel 1970) barbaramente ucciso a 44 anni dalle brigate rosse il 27 marzo del 1985 nel parcheggio della facoltà di economia e commercio della Sapienza. Su quella targa è scritto un motto particolarmente caro a Tarantelli: l’utopia dei deboli è la paura dei forti. Ecco, mi riferisco a questa utopia qua.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com